Capitolo III "Diritto alla salute e detenzione"
4. La tutela della salute in carcere: due ulteriori profili rilevanti
4.1. Il diritto a rifiutare le cure: in particolare, lo sciopero della fame in carcere
Parlando del diritto alla salute abbiamo detto come questo comprenda anche il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari, in virtù della massima libertà di autodeterminazione dell'individuo; abbiamo anche detto, però, come tale libertà possa essere compressa da esigenze di tutela della salute collettiva: un trattamento sanitario potrà essere imposto al singolo solo se ricorrano la necessità di tutelare la salute dei terzi e il fine di tutelare la salute dell'individuo stesso.
Quanto detto vale anche nel caso dei detenuti, che hanno la possibilità di rifiutare gli interventi terapeutici loro proposti, laddove questo non comporti la compromissione della salute degli altri reclusi nel carcere (si pensi al caso della malattia contagiosa).
Direttamente correlato al diritto di rifiutare le cure, nel caso dei detenuti, è il fenomeno dello sciopero della fame in carcere.
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Lo sciopero della fame viene definito dalla dottrina medico - legale come "il rifiuto volontario, totale, dell'assunzione di cibo (in genere con l'esclusione del rifiuto di acqua), senza giustificato motivo, che duri per più di tre giorni".245 In un luogo come il carcere, lo sciopero della fame assume una valenza tutta particolare, e diventa un vero e proprio modo di comunicare: sostituisce il linguaggio verbale in tutte quelle situazioni in cui risulta difficile esprimersi parlando, e fornisce dei canali simbolici per inviare dei messaggi alle autorità. Il digiunare, cioè, diventa in tutto e per tutto una forma di protesta, di fronte all'impossibilità di vivere nelle carceri: il corpo diventa uno strumento di lotta, di fronte alle ingiustizie, alle difficoltà del vivere in carcere o all'indifferenza delle istituzioni.
Anche quando non arriva ad elevarsi a forma estrema di protesta, lo sciopero della fame rimane comunque una modalità di esternazione del proprio disagio, tra le meno rischiose e le più "economiche", nel senso dei costi istituzionali che esso comporta: infatti, non è giuridicamente sanzionabile, non prevede denuncia all'autorità giudiziaria, né provvedimenti disciplinari da parte dell'amministrazione penitenziaria.246
Si tratta di una delle modalità di protesta più diffuse nei penitenziari italiani, che però, non va sovrapposta, in maniera semplicistica, al suicidio: al contrario di quest'ultimo, lo sciopero della fame non ha come finalità la morte, anche se essa può diventarne una conseguenza estrema.
Dal punto di vista pratico, quando un detenuto decide di praticare lo sciopero della fame, l'amministrazione penitenziaria, che ha la responsabilità dei soggetti reclusi, attiva tutta una serie di interventi: sottoposto a costante controllo medico, il detenuto viene visitato due volte al giorno con particolare attenzione al peso; se l'astinenza si protrae potrà essere trasferito al reparto infermeria o nei centri diagnostici terapeutici dell'amministrazione penitenziaria.
245 RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, cit., 157.
246 MAFFEI M.G., Lo sciopero della fame della persona detenuta, in Rassegna penitenziaria e
criminologica, 2003, n. 3, 15. L'autore, nel prosieguo della sua analisi, evidenzia come "attraverso il rifiuto alla nutrizione, la persona si riappropria di spazi di autodeterminazione", e come lo
sciopero della fame altro non sia che "un liberatorio sfogo fisico alla sopraffazione ed al
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Ovviamente un digiuno prolungato può comportare delle conseguenze estremamente dannose per il corpo, fino ad arrivare a danni neurologici irreparabili: rifiutare gli alimenti necessari al sostentamento fisico innesca, infatti, un processo di autodistruzione del corpo, che per sopravvivere consuma se stesso.247
Di fronte a tali pericoli occorre interrompere lo sciopero, sottoponendo il soggetto a un'adeguata terapia di supporto alimentare: questo richiede, però, la disponibilità e l'adesione del soggetto.
Cosa accade se il detenuto, in maniera consapevole, decide di rifiutare non solo il cibo, ma anche i trattamenti sanitari necessari per mantenerlo in vita?
In altre parole, la questione che uno sciopero della fame, condotto fino alle estreme conseguenze, immediatamente solleva, è se, e come, sia possibile, e lecito o addirittura doveroso, intervenire in modo coatto con l'alimentazione forzata a tutela dell'incolumità e della vita.
Le opinioni espresse in materia sono molteplici, e vanno da una radicale opposizione ad ogni trattamento coattivo, fino all'individuazione di vere e proprie "posizioni di garanzia" in capo all'amministrazione penitenziaria, penalmente sanzionabili, che obbligherebbero a praticare i trattamenti alimentari e sanitari occorrenti, anche contro il consenso degli interessati.248
La questione è complessa, perché richiede la ponderazione di vari diritti e principi, costituzionali e non.
Anzitutto, sembra fuori discussione il fatto che l'alimentazione forzata costituisca un "trattamento sanitario" ai sensi dell'art. 32 della Costituzione, sia per le tecniche impiegate, sia per la sua finalità di salvaguardare la vita dell'individuo. Si ricade quindi nel pieno ambito della norma costituzionale che, come sappiamo, dispone che solo una legge dello Stato possa imporre un determinato trattamento sanitario.
Bisogna, però, fare anche una distinzione ulteriore, fra trattamenti sanitari obbligatori e trattamenti coattivi: i primi sono imposti dalla legge come doverosi, prevedendo sanzioni di vario genere in caso di loro inosservanza; i secondi,
247 MAFFEI M.G., Lo sciopero della fame della persona detenuta, cit., 18.
248 PULITANÒ D., Sullo sciopero della fame di imputati in custodia preventiva, in Questione
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invece, possono essere praticati anche contro il consenso dell'interessato, facendo ricorso alla forza fisica per vincere la sua resistenza.
Tutte le imposizioni che contemplano l'uso della forza fisica vanno ad incidere sempre sul diritto di libertà personale, e quindi possono essere attuate solo se rispettano le garanzie stabilite dall'art. 13 Cost.
È evidente che l'alimentazione forzata rappresenta un trattamento sanitario coattivo, e, pertanto, per essere lecita, dovrà rispondere a più requisiti; in quanto trattamento sanitario è soggetta ai vincoli imposti dall'art. 32 Cost., e in quanto trattamento coatto a quelli dell'art. 13: una doppia riserva di legge, quindi, e una riserva di giurisdizione.249
Quanto detto comporta la necessità di una "tipizzazione" delle possibilità di applicare l'alimentazione forzata.
Nonostante tale necessità, manca nel nostro ordinamento una disposizione legislativa che si riferisca espressamente a tale ipotesi; di fronte a tale assenza si dovrebbe, perciò, escludere la liceità dell'alimentazione forzata dei detenuti. Non sono, però, mancate opinioni contrarie che hanno cercato di ammettere la possibilità di procedere all'alimentazione forzata; tali convinzioni si sono basate su due normative diverse: l'art. 41 dell'ordinamento penitenziario, e l'art. 34 della legge 833/1978.250
Entrambe le ipotesi si sono dimostrate, ad un'attenta analisi, del tutto insoddisfacenti; cerchiamo di capire perché.
L'art. 41 della legge 354/1975 consente l'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti qualora serva per prevenire o impedire atti di violenza, tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione di ordini impartiti; inoltre, autorizza il ricorso a mezzi di coercizione diversi dalla forza fisica al fine di evitare danni a persone o di garantire l'incolumità dello stesso soggetto.
Cercare in questa previsione il fondamento normativo per ritenere possibile l'alimentazione forzata non convince per due motivi.
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V. ONIDA V., Dignità della persona e "diritto di essere malati", in Questione Giustizia, 1982, n. 2, 362 - 363; MAFFEI M.G., Lo sciopero della fame della persona detenuta, cit., 27 - 28. 250 Su questo cfr. anche FASSONE E., Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà
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Anzitutto, sembra pacifico che lo sciopero della fame non si traduca né in un atto autolesionistico violento, né in inottemperanza a ordini impartiti, per cui non pare possa rientrare a pieno titolo in quegli atti che la norma vuole impedire; in secondo luogo, se è vero che il detenuto si trova sotto la responsabilità dell'amministrazione penitenziaria e che essa ha il compito di garantirne l'incolumità, attivandosi per farlo, è anche vero che il paragone tra l'alimentazione forzata del detenuto e l'impedimento del suicidio tiene solo fino a un certo punto.251
D'altra parte, neppure fondare l'alimentazione forzata sulla norma relativa ai trattamenti sanitari obbligatori sembra opportuno.
L'art. 33 della legge 354/1975, infatti, prevede l'applicazione dei trattamenti sanitari obbligatori nei confronti di persone affette da malattia mentale.
L'applicazione di tale disciplina presupporrebbe, perciò, di dare per scontato che il rifiuto protratto di alimentarsi sia sempre frutto di disturbo mentale, preesistente o indotto dallo stesso digiuno.
Si tratta di un'affermazione azzardata, ma, anche a volerne ammettere la validità, non significa che una volta che un individuo sia stato "classificato" come malato di mente diventi automaticamente lecita qualsiasi misura obbligatoria e coattiva nei suoi confronti, neppure al fine di garantirne la salute.
Questa concezione si ricava agilmente e direttamente dallo stesso art. 32 della Costituzione; in questo senso, risulta essere perfettamente in linea con il dettato costituzionale anche la legge 833/1978, che prevede che i trattamenti sanitari obbligatori possano essere disposti solo "nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici".252
Non c'è, quindi, alcun fondamento giuridico che possa giustificare l'alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame; per farlo il legislatore dovrebbe
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Questo sia perché una cosa è impedire un comportamento autolesionistico puntuale derivante da un raptus di violenza suicida, altro è contrastare un comportamento autolesionistico protratto nel tempo, come nel caso del digiuno; sia perché è diverso contrastare con la forza la commissione di atti positivi di violenza sulla propria persona, dall'impedire un comportamento puramente omissivo e passivo com'è il digiuno, usando per primi la forza. V. ONIDA V., Dignità della
persona e "diritto di essere malati", cit., 365; MAFFEI M.G., Lo sciopero della fame della persona detenuta, cit., 29.
252 V. ONIDA V., Dignità della persona e "diritto di essere malati", cit., 363; RUOTOLO M.,
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introdurre una norma ad hoc, con le inevitabili problematiche che questo comporterebbe.
In assenza di una tale normativa che preveda espressamente il trattamento sanitario dell'alimentazione forzata, i problemi, giuridici e deontologici, che si pongono riguardano essenzialmente la validità del personale, motivato e libero dissenso espresso dal detenuto ai trattamenti, anche se rivolti a beneficio della sua salute e a volte della sua stessa vita.
C'è, infatti, chi sostiene che l'alimentazione forzata sarebbe lecita tutte le volte in cui le condizioni di salute del detenuto fossero tali da non consentirgli più di formulare un'accettazione o un rifiuto, volontari e coscienti, del nutrimento (ad esempio in seguito alla perdita di conoscenza).253
In questi casi, però, in cui si richiede un dissenso cosciente al trattamento espresso nel momento in cui questo deve essere praticato, si sembra far finta di non sapere che il dissenso è stato espresso da chi ha già rifiutato le cure a suo tempo, una volta per tutte, assumendosi il rischio della perdita di conoscenza e, quindi, dell'impossibilità di ritirarlo.254
Un'ultima considerazione va fatta in relazione alla possibilità che il detenuto ponga in essere lo sciopero della fame per procurarsi una condizione fisica sempre più grave, tale da determinare una condizione di incompatibilità con il regime carcerario che gli consenta di beneficiare di provvedimenti favorevoli, come la concessione del differimento dell'esecuzione della pena, se condannato, o la revoca della custodia cautelare in carcere, se imputato.
C'è stato chi ha obbiettato che benefici, sostanziali o processuali, non possano essere concessi in questi casi poiché si è di fronte a una condizione di salute grave che è stata "autoindotta".255
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Scrive ONIDA V., op. ult. cit., 361 - 362, che "in questo caso, proprio perché non c'è più una
coscienza e una volontà, non è più possibile parlare di alimentazione forzata o coatta: si verserebbe nella comune ipotesi dell'obbligo di soccorso nei confronti di chi corre pericolo di vita e non è in grado di scegliere alcunché. Né ci si potrebbe far ingannare dal rifiuto espresso e magari a lungo mantenuto in precedenza. Una volontà di suicidio non si può infatti mai presumere, nemmeno in base a ciò che l'interessato abbia detto o fatto fino a un momento prima; l'assenza di volontà attuale realizza una situazione nuova e diversa".
254 MAFFEI M.G., Lo sciopero della fame della persona detenuta, cit., 34. 255
Sul punto v. FERRAJOLI L., Carcere e diritti fondamentali, in Questione Giustizia, 1982, n. 2, 354. In particolare, la sua analisi si concentra su un episodio successo nell'autunno 1981 nel carcere di San Vittore, quando tre detenuti avevano iniziato un lungo e drammatico sciopero della fame che li aveva portati in fin di vita. Egli cita le parole di un pubblico ministero che si era
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Le cose non stanno così: la legge non distingue fra stato di malattia spontaneo o stato di malattia provocato dallo stesso detenuto; la ricerca di una responsabilità del soggetto non ha significato e da ciò non deve mai discendere disinteresse o, peggio ancora, punizione da parte dello Stato: se il giudice deciderà di applicare dei benefici lo farà non tenendo conto di ciò che ha causato la malattia, ma basandosi sulla semplice considerazione che continuare ad espiare la pena in tali condizioni di salute sarebbe contrario al senso di umanità.256
Tutte queste considerazioni non fanno che confermare che non esiste giustificazione normativa, di nessun tipo, che possa far ritenere ammissibile un trattamento differenziato nei confronti dei detenuti "in una materia che investe il godimento di diritti così strettamente legati all'eguale dignità di ogni persona"; neppure si può ritenere che la responsabilità dell'istituzione carceraria sulla vita dei detenuti autorizzi "a varcare i limiti imposti dal rispetto della persona, della sua autonomia e dei suoi diritti", specie in casi, come il digiuno, che rientrano nella sfera dei comportamenti strettamente personali non interferenti con i diritti altrui. 257