• Non ci sono risultati.

STUDIO 2: CONTESTO MALTRATTANTE Sottostudio 1:

F: Pensare vuol dire pensare V: Pensare nella testa

6.1 Sottostudio 1

6.1.5 Discussione e conclusioni

La presente analisi ha permesso di raccogliere interessanti informazioni rispetto al perspective taking in bambini prescolari a sviluppo tipico e a relazioni tra questa abilità e altre variabili relative al contesto scolastico e familiare. La valutazione di questa abilità in ottica multidimensionale, tramite l’utilizzo di specifici strumenti, ha permesso di rilevare come lo sviluppo delle tre dimensioni sia diversificato a livello temporale. Le prestazioni ottenute dai bambini nelle singole dimensioni sono state infatti diverse tra loro; maggiore facilità ad eseguire compiti di natura percettiva e minore per quelli di natura emotiva e cognitiva. I dati evidenziano quindi che ai bambini di questa età risulti più immediato cogliere prospettive spaziali differenti dalla propria, rispetto all’assunzione di emozioni e pensieri altrui. Tale dato risulta essere in linea con ricerche che dimostrano come la dimensione percettiva sia la prima a comparire. Il perspective taking percettivo viene infatti considerato la forma primaria di decentramento, da cui successivamente si sviluppano abilità cognitivamente più sofisticate, come la comprensione degli stati emotivi e mentali altrui (Kessler e Thomson, 2010). Sembra quindi essere confermata l’idea dell’asimmetria nella comprensione degli stati mentali, secondo cui alcuni di essi vengono acquisiti temporalmente prima rispetto ad altri (Astington e Gopnik, 1991; Bartsch e Wellman, 1995). Infatti, come precedentemente descritto, numerose evidenze scientifiche mostrano come già all’età di 36 mesi, i bambini siano in grado di capire che un oggetto, possa sembrare differente, se osservato da diverse prospettive spaziali (Moll e Meltzoff, 2011). Risulta opportuno comunque riflettere sul fatto che le prove relative a questa dimensione prevedessero procedure di somministrazione maggiormente semplici e di più immediata comprensione, rispetto a quelle specifiche delle altre due componenti.

A conferma di questi risultati, sembrano essere quelli ottenuti rispetto alla valutazione del perspective taking in relazione all’età. I bambini più grandi (età compresa tra 54 e 66 mesi) sono risultati più abili ad assumere il punto di vista altrui rispetto ai compagni più piccoli, in particolare nel perspective taking emotivo. Tale componente sembra essere infatti quella che subisce maggiori microcambiamenti in questo periodo, rispetto alle altre due. Infatti, da un lato la componente percettiva risulta essere già sufficientemente consolidata, mentre quella cognitiva, ancora non completamente strutturata. Come ogni altra variabile di sviluppo infatti, anche il perspective taking si evolve attraverso piccoli cambiamenti e aggiustamenti

Perspective taking in contesti familiari normativi: SOTTOSTUDIO 1

153

progressivi, in relazione allo sviluppo biologico del bambino e all’influenza dei contesti di vita (Surtees e Apperly, 2012). Infatti, anche all’interno della fascia di età prescolare (3-5 anni) il momento di maggiore incremento di questa capacità si verifica verso la fine, quindi a partire circa dai 4 anni e mezzo (Samson e Apperly, 2010; Wellman et al. 2001; Wellman e Liu 2004).

Sebbene i bambini acquisiscano competenze nelle singole dimensioni in momenti differenti, la presenza di correlazioni tra i vari indici di perspective taking, indica come, una volta conseguite, tali capacità siano legate l’una all’altra, costituendo un unico costrutto multidimensionale. Un bambino abile a comprendere i pensieri degli altri, sarà quindi anche in grado di capirne lo stato emotivo e la percezione visiva, in un rapporto di reciproca influenza.

Anche in riferimento all’indagine di differenze nell’abilità di perspective taking rispetto al genere, i risultati si sono dimostrati essere in linea con i riscontri di letteratura (Hastings et al., 2007), dai quali emerge come la capacità di mettere se stessi nei panni di qualcun altro non sia influenzata dall’essere maschi o femmine.

I dati relativi alla presenza o meno di fratelli, dai quali non è stata evidenziata alcuna influenza rispetto alle abilità di decentramento dei bambini, sembrano invece discordare da alcune evidenze di letteratura (Dunn et al., 1991), dalle quali erano emerse relazioni tra le abilità di perspective taking dei prescolari e la presenza di fratelli. È importante sottolineare però come in tali ricerche, l’influenza fosse stata attribuita alla partecipazione del bambino a conversazioni familiari su stati mentali ed emotivi tra la madre ed i fratelli maggiori, in cui il bambino fosse protagonista diretto o osservatore indiretto. Nella presente ricerca la maggior parte dei bambini aveva fratelli minori (di età compresa tra pochi mesi e due anni), con i quali quindi interazioni di questo tipo risultano pressoché impossibili. Inoltre, molti dei fratelli maggiori, essendo figli di matrimoni precedenti, non appartenevano al nucleo familiare del bambino, rendendo scarse o del tutto assenti le occasioni di scambi comunicativi. Sembra che questi elementi possano presumibilmente spiegare l’andamento di tali dati.

Per ciò che concerne il rapporto con i pari, l’obiettivo principale è stato quello di comprendere se i bambini più abili ad assumere prospettive diverse dalla propria fossero anche più propensi a comportarsi in modo maggiormente prosociale con i compagni, durante momenti di interazioni spontanee. Le analisi hanno mostrato a tal proposito risultati positivi. I bambini più abili in generale a decentrarsi dalla propria prospettiva, hanno infatti mostrato una maggiore emissione di comportamenti prosociali e un minor numero di condotte aggressive.

Prestazioni migliori in compiti di perspective taking sia emotivo, che cognitivo e percettivo si

Perspective taking in contesti familiari normativi: SOTTOSTUDIO 1

154

sono mostrate essere associate a maggiori comportamenti prosociali ed in particolare ad un elevato numero di atti di condivisione e alla presenza di ridotta aggressività. La dimensione emotiva si è anche mostrata essere in relazione con un’elevata emissione dei comportamenti di aiuto. Tali risultati sembrano quindi confermare ricerche sui prescolari, ancora poco frequenti e con risultati non sempre univoci (Belacchi e Farina 2012), che suggeriscono come lo sviluppo di abilità prosociali sia legato all’acquisizione di competenze sociocognitive tra cui il perspective taking (Carlo, 2006; Eisenberg et al., 2006). Comprendere gli stati mentali altrui si è dimostrato infatti essere un predittore dello sviluppo di abilità sociali (Sallquist, Eisenberg, Spinrad, Eggum, e Gaertner, 2009). L’autoregolazione delle esperienze affettive e la capacità di comprendere lo stato mentale ed emotivo altrui, che raggiunge il suo compimento in età prescolare, permette infatti l’emergere di forme di azioni prosociali come l’aiuto, il conforto e la condivisione rivolti ai coetanei (Gardner, 1993).

L’utilizzo del questionario somministrato alle insegnati, come strumento di rilevazione indiretta della competenza sociale da affiancare alle osservazioni dirette, ha prodotto risultati interessanti.

Si sono evidenziate svariate correlazioni tra i comportamenti sociali dei bambini, osservati direttamente e le valutazioni tramite il test SCBE. Nello specifico, i bambini valutati come maggiormente competenti nelle relazioni sociali, ben adattati, che manifestano pochi o assenti problemi a relazionarsi con i compagni, hanno mostrato elevate frequenze di emissione di comportamenti prosociali, in particolare di condivisione. Si sono inoltre dimostrati essere scarsamente aggressivi e abili nella gestione dei conflitti. Inoltre, la presenza di due valutatori (due insegnanti per ogni bambino) e quella di un buon accordo tra i due, rilevato con uno specifico indice di concordanza tra giudici, rafforza ulteriormente la significatività di tali risultati

Le valutazioni delle insegnanti sembrano inoltre confermare e rafforzare i risultati ottenuti rispetto alle relazioni tra le abilità sociali dei bambini e la capacità di perspective taking.

Infatti, quei bambini che vengono valutati come più prosociali e socialmente competenti, si sono mostrati maggiormente abili nella risoluzione di compiti di perspective taking in tutte e tre le dimensioni.

Anche l’analisi di variabili caratteristiche del contesto familiare di appartenenza ha prodotto risultati degni di nota. L’utilizzo di diversi strumenti ha permesso di raccogliere informazioni ricche e diversificate rispetto alle relazioni tra caratteristiche familiari e abilità di perspective taking dei bambini. L’analisi tramite il test IRI ha consentito di valutare la disposizione empatica dei genitori, attraverso il test ERPS è stato possibile rilevare lo stile di

Perspective taking in contesti familiari normativi: SOTTOSTUDIO 1

155

socializzazione emotiva di entrambi i coniugi ed infine, i due item specifici sul perspective taking hanno permesso di desumere in che misura i genitori esortassero i propri figli ad assumere prospettive differenti dalla propria.

Rispetto alla valutazione dell’empatia, le madri si sono definite come maggiormente empatiche rispetto ai padri. La visione multidimensionale dell’empatia fornita da questo particolare strumento ha inoltre evidenziato come, le madri si definiscano più empatiche rispetto ad entrambe le sottoscale della dimensione dell’empatia emotiva (EC e PD) e ad una di quella cognitiva (FS). Nello specifico le madri si sono definite come particolarmente sensibili e abili a sintonizzarsi emotivamente con i sentimenti altrui, da cui derivano sia partecipazione per l’altrui sofferenza (EC) che sensazioni di disagio personale (PD).

Sembrano quindi coesistere in queste donne considerazione empatica e disagio personale, in una tipologia di disposizione empatica orientata sia verso l’altro che diretta verso il Sé. Sul versante più cognitivo hanno definito se stesse come maggiormente propense ad immaginarsi nei panni di personaggi fittizi protagonisti di libri e film (FS). Per quel che riguarda la sottoscala cognitiva del perspective taking, non sono emerse differenze tra coniugi, a dimostrare come essi tendano ad adottare spontaneamente il punto di vista psicologico altrui pressoché in egual misura. Tali risultati sono in linea con quanto riscontrato dallo stesso autore del test (Davis, 1980), ovvero che per le donne vengano tendenzialmente rilevati punteggi più elevati in tutte le scale, tranne in quella del perspective taking, che mostra minori differenze tra i sessi (Albiero et al., 2006). Inoltre, i punteggi ottenuti dai coniugi si sono rivelati essere in linea con quelli riscontrati in letteratura (Albiero et al., 2006; Hawk, Keijsers, Branje, Van der Graaff, de Wied, Meeus, 2013).

Non sono emerse differenze significative nella distribuzione dei punteggi relativi all’empatia genitoriale, né rispetto al genere dei figli, né alla presenza di fratelli.

Infine, l’analisi di relazioni tra la disposizione empatica delle figure di riferimento e abilità dei figli, non ha mostrato alcun dato significativo. Non è infatti emersa alcuna correlazione degna di nota tra l’empatia di madre e padre ed il perspective taking o le abilità prosociali dei bambini.

In generale, l’effetto di caratteristiche così stabili, come la personalità dei genitori o la disposizione empatica, sono state scarsamente analizzate in relazione alle abilità di decentramento dei figli (Upshaw et al., 2015). Alcune di queste ricerche hanno dimostrato l’esistenza di relazioni positive tra l’empatia dei genitori e quella dei figli (Davidov e Grusec, 2006; Eisenberg et al., 1991; Volling et al., 2008), affermando come i genitori più propensi a sentire ed agire in favore delle altre persone, influenzino lo sviluppo dell’abilità di

Perspective taking in contesti familiari normativi: SOTTOSTUDIO 1

156

decentramento emotivo e cognitivo dei figli, anche al di fuori della famiglia (Farrant et al., 2012). Non è ancora chiaro se ed in che misura questa associazione disposizionale tra genitori e figli rispetto alla propensione verso gli altri sia presente e se dipenda da similarità genetiche o dalla socializzazione durante le interazioni quotidiane a cui i bambini sono esposti (Upshaw et al., 2015).

Rispetto all’influenza degli stili di socializzazione emotiva delle figure familiari sull’abilità di perspective taking dei bambini sono invece emersi risultati molto interessanti. Innanzitutto è importante sottolineare, come la maggior parte dei genitori, indifferentemente tra padri e madri, abbia ricondotto il proprio stile genitoriale di socializzazione emotiva a due tra quelli individuati dagli autori, ovvero uno stile di tipo coaching ed uno di tipo accettante nei confronti delle emozioni dei propri figli. Essi infatti si sono definiti primariamente come genitori che normalmente consentono ai propri figli di esprimere le emozioni, che utilizzano come opportunità per insegnare loro il modo più giusto per manifestarle e regolarle. Il secondo stile maggiormente rilevato è stato quello appunto accettante, tipico di genitori che accettano l’espressione di emozioni negative dei figli, non fornendo però a questi ultimi strategie di gestione e regolazione. Anche in questo caso senza differenze tra madri e padri.

Inoltre, confrontando i valori emersi dalle singole sottoscale di entrambi i genitori, con valori presentati in letteratura, anche dagli autori del test (Gottman et al., 1997; Hakim-Larson et al., 2006; Paterson et al., 2012) emerge come essi siano in linea con quelli di genitori a sviluppo tipico. Tali risultati sono interessanti poiché innanzitutto hanno permesso di includere nell’analisi anche i padri, contrariamente alla maggior parte delle ricerche in tale ambito che hanno focalizzato la propria attenzione sugli stili di socializzazione materna, riservando scarsa attenzione a quella paterna (Denham et al., 2007; Parke e McDowell, 1998). Inoltre, da alcune di queste ricerche (Denham et al., 2007; Parke e McDowell, 1998), era emerso come i padri mostrassero minor consapevolezza delle emozioni e minore propensione all’utilizzo di uno stile coaching rispetto alle compagne (Gottman et al.,1996), utilizzando invece strategie di socializzazione maggiormente punitive e meno supportive (McElwain et al., 2007). Tali risultati sembrano essere quindi smentiti da quelli del presente studio.

Da un confronto tra padri e madri è emerso come queste ultime definiscano di utilizzare in misura maggiore, rispetto ai propri partner, stili di socializzazione sia accettanti (ERPS_PA) che rifiutanti (ERPS_PR) nei confronti delle emozioni negative dei propri figli, vissute come fonte di frustrazione, a causa della mancanza di conoscenza ed abilità rispetto ad una loro efficace gestione.

Perspective taking in contesti familiari normativi: SOTTOSTUDIO 1

157

L’interesse principale è stato però rivolto ad indagare se la filosofia meta-emotiva dei genitori, in grado di guidare le rispettive pratiche di socializzazione emotiva, potesse influenzare l’abilità dei bambini ad assumere prospettive differenti dalla propria. A tal proposito sono emerse correlazioni positive tra gli stili di socializzazioni accettanti di entrambi i genitori e il perspective taking dei figli, in special modo nella dimensione emotiva.

In linea con tali risultati, uno stile di socializzazione emotiva rifiutante, caratteristico di quei genitori che si sono definiti come evitanti rispetto alle espressioni emotive negative dei propri bambini, come la rabbia e la tristezza, ha mostrato correlazioni negative con le abilità di perspective taking emotivo dei figli.

Come per l’empatia genitoriale, anche in questo caso non sono emerse differenze significative né rispetto al genere del proprio bambino, né in condizioni di figlio unico o di più figli.

Infine, non è emersa alcuna relazione significativa tra il grado in cui i genitori incoraggiano i propri figli ad assumere prospettive altre rispetto a sé e le variabili prese in esame. Non sono state infatti rilevate influenze rispetto al genere dei bambini, dei genitori, all’avere uno o più figli e nemmeno relazioni con le abilità di decentramento e sociali dei bambini. Una plausibile spiegazione a tale andamento dei dati potrebbe risiedere nell’utilizzo di soli due item, non sufficienti per rilevare informazioni significative rispetto alle variabili prese in esame.

Dai risultati sull’analisi delle variabili intrafamiliari sembra quindi emergere come non siano tanto le caratteristiche disposizionali dei genitori ad influire sullo sviluppo sociocognitivo, emotivo e comportamentale dei figli, quanto piuttosto i pensieri, gli atteggiamenti e le azioni dei genitori, esplicitate nei loro stili educativi, all’interno delle innumerevoli interazioni quotidiane.

C’è infatti ormai accordo in letteratura nel considerare queste abilità come fortemente

“socializzate” dalle pratiche genitoriali (Denham et al., 2007; Morris et al., 2007).

È importante sottolineare come, per ricerche future, sarebbe auspicabile l’utilizzo di altre metodologie di indagine da affiancare ai test self report, come ad esempio osservazioni di alcuni momenti di interazioni diadiche e/o triadiche del nucleo familiare, al fine di raccogliere informazioni maggiormente ricche e dettagliate rispetto agli stili di socializzazione emotiva genitoriale.

158