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2011), mentre altri hanno considerato rispettivamente prescolari di 3-4 anni (Esteban et al., 2010; Ornaghi et al., 2011) e 4-5 anni (Cigala e Fangareggi, 2011; Ornaghi et al., 2015).
Per quanto riguarda la provenienza geografica, è possibile distinguere tre diverse nazionalità:
italiani (Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Cigala e Fangareggi, 2011; Cigala, Mori e Fangareggi, 2015; Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2011; Ornaghi et al., 2011; Ornaghi et al., 2015) spagnoli (Esteban et al., 2010) e anglo-americani (Tenenbaum et al., 2008).
3.4.1.3 Procedure e metodi
Seguendo un approccio linguistico di tipo conversazionale, tutti gli studi hanno utilizzato il linguaggio, in termini di lettura di storie seguita da conversazioni, come metodologia principale nella fase di intervento.
Tutte le ricerche hanno previsto un unico gruppo sperimentale con relativo gruppo di controllo, ad eccezione dello studio di Tenenbaum et al. (2008), che ha programmato due differenti condizioni sperimentali. I bambini del gruppo di controllo sono stati coinvolti in alcuni casi in attività di gioco libero a seguito del coinvolgimento in attività di lettura insieme al gruppo sperimentale (Ornaghi et al., 2015), mentre in altri non è stata presentata loro alcuna attività da svolgere (Esteban et al., 2010; Cigala e Fangareggi, 2011; Cigala, Mori e Fangareggi, 2015).
Per la valutazione della baseline in fase di pre-test e degli effetti del training sulla dimensione emotiva in fase di post-test è stato somministrato il TEC (Test of Emotion Comprehension) (Pons e Harris, 2000), nella sua versione standardizzata di Albanese e Molina (2008) per gli studi italiani. Solo la ricerca spagnola di Esteban et al. (2010) ha previsto l’utilizzo di una versione modificata del compito del desiderio-credenza-emozione (Harris et al. 1989).
Gli interventi sono stati guidati solitamente da uno o due sperimentatori o dalle insegnanti, dopo aver ricevuto adeguate istruzioni da parte dei ricercatori (Esteban et al., 2010).
I training, condotti individualmente (Tenenbaum et al., 2008), in piccoli gruppi (Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Cigala e Fangareggi, 2011; Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2011;
Ornaghi et al., 2011) o sull’intera classe (Esteban et al., 2010), hanno avuto una durata da un minimo di due settimane (Cigala e Fangareggi, 2011) ad un massimo di due mesi (Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2011; Ornaghi et al., 2011; Ornaghi et al., 2015) con incontri pianificati circa due o tre volte alla settimana.
Pochi, tra gli interventi di questo tipo presenti in letteratura hanno programmato una fase di follow-up dopo quattro (Ornaghi et al., 2015) o sei mesi dalla fine del post-test (Cigala e Fangareggi, 2011; Cigala, Mori, e Fangareggi, 2015).
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3.4.1.4 Variabili oggetto del training
Tutti gli studi esaminati sono stati condotti all’interno del contesto naturalistico della scuola dell’infanzia e si sono basati sul precedentemente citato approccio “conversazionale” (Hutto, 2007; Siegal, 2008) che sottolinea come la possibilità di poter partecipare a scambi comunicativi su stati mentali, non solo legati a pensieri e credenze ma anche a sentimenti ed emozioni, favorisca lo sviluppo del perspective taking, in questo caso però nella sua dimensione emotiva (de Rosnay e Hughes, 2006; Laible e Song, 2006).
Alcuni autori sottolineano infatti l’importanza dell’utilizzo del lessico emotivo in quanto esso assolve a due funzioni principali: prima di tutto consente la comunicazione dell’esperienza emotiva agli altri attraverso i discorsi sui propri sentimenti, ed in secondo luogo, dato che il linguaggio permette non solo di codificare ma anche di comunicare simbolicamente le proprie emozioni, facilita un incremento della consapevolezza e dell’elaborazione dell’esperienza emotiva. Pertanto, il linguaggio emotivo può essere considerato una manifestazione del perspective taking, inteso come progressiva consapevolezza degli stati interni propri ed altrui (Taumoepeau e Ruffman, 2006; Harris, 2008).
I training study hanno previsto pertanto l’utilizzo di conversazioni a seguito della lettura di una singola storia (Esteban et al., 2010) o di più racconti raffigurati su libri illustrati (Tenenbaum et al., 2008; Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Cigala e Fangareggi, 2011;
Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2011; Ornaghi et al., 2011; Ornaghi et al., 2015) in cui vengono enfatizzate le emozioni dei protagonisti. In particolare, una di queste ricerche ha previsto, dopo la lettura di differenti storie e relativa discussione di gruppo, il coinvolgimento dei bambini in attività di drammatizzazione e disegno al fine di descrivere attivamente i diversi stati emotivi sperimentati dai personaggi all’interno dei differenti scenari in cui sono coinvolti (Cigala e Fangareggi, 2011; Cigala, Mori, e Fangareggi, 2015; Ornaghi et al., 2015).
Nello specifico la ricerca di Grazzani Gavazzi e Ornaghi (2011) ha avuto l’obiettivo di analizzare se coinvolgere i bambini in conversazioni riguardanti l’uso attivo di linguaggio riferito a stati emotivi potesse giocare un ruolo significativo nell’incremento, sia della conoscenza di termini emotivi sia, più in generale, della comprensione delle emozioni altrui.
In questo studio è stata utilizzata la medesima ed efficace procedura già sperimentata in precedenti studi condotti dalle stesse autrici sulla dimensione cognitiva del perspective taking (Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Ornaghi et al., 2011). In particolare, i bambini del gruppo sperimentale hanno partecipato al gioco linguistico del già descritto “lancio della parola”
(Ciceri, 2001) in cui sono stati esortati a conversare su termini emotivi contenuti nel racconto appena ascoltato. Durante le conversazioni, il ricercatore ha stimolato i bambini all’utilizzo
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della parola target attraverso l’uso di domande e commenti, facendo in modo che tutti prendessero parte attiva all’interazione discorsiva.
I bambini del gruppo di controllo, dopo l’ascolto della medesima storia sono stati invitati a giocare liberamente con giochi forniti dallo sperimentatore che generassero il minor numero di conversazioni possibili riferite alla storia e ai personaggi coinvolti, al fine di distogliere la loro attenzione dal contenuto degli episodi narrati.
Analogamente Tenenbaum et al. (2008) hanno programmato, dopo la lettura di racconti, l’utilizzo di conversazioni guidate dall’adulto e incentrate sul fornire una spiegazione alle diverse situazioni proposte nelle prove (explanatory conversation) già impiegate da studi sul perspective taking cognitivo (Pillow et al., 2002; Amsterlaw e Wellman, 2006). Rispetto ad un gruppo di controllo a cui è stato chiesto di riassumere gli eventi raccontati, in una prima condizione sperimentale i bambini hanno dovuto identificare e spiegare le reazioni emotive del protagonista di ciascuna storia in risposta a domande guida dello sperimentatore. In una seconda condizione sperimentale è stato invece il ricercatore a fornire una spiegazione alle diverse reazioni emotive del protagonista della storia. La scelta di queste due differenti procedure è stata finalizzata ad indagare se la conoscenza costruita in autonomia determinasse maggiore comprensione rispetto alla conoscenza fornita da interlocutori più esperti.
3.4.1.5 Efficacia dei training e discussione
I training study descritti hanno confermato la possibilità di poter incrementare l’abilità di perspective taking emotivo attraverso la partecipazione dei bambini a discorsi incentrati sulle emozioni, come già documentato da precedenti procedure empiriche (Feshbach e Cohen, 1988; Peng, Jonson, Pollock, Glasspool e Harris, 1992; Bennett e Hiscock 1993).
Dai risultati (Grazzani Gavazzi e Ornaghi, 2011; Ornaghi et al., 2015) emerge infatti come la partecipazione a conversazioni e giochi linguistici abbia favorito nei bambini, soprattutto di 4 e 5 anni, l’acquisizione di una maggiore padronanza del lessico emotivo che ha permesso una migliore comprensione degli stati emotivi altrui. Nello specifico, attraverso la discussione e la spiegazione di termini riferiti a stati mentali come desideri, credenze ed emozioni durante interazioni e conversazioni con le altre persone, i bambini hanno potuto co-costruire attivamente insieme agli adulti ed ai pari una migliore comprensione dell’altro (Garfield, Peterson e Perry, 2001; de Rosnay e Hughes, 2006; Hughes et al., 2007; Siegal, 2008).
Queste conclusioni confermano i risultati ottenuti da training study basati sulle medesime procedure di intervento, descritti in riferimento anche alla componente cognitiva del perspective taking (Ornaghi e Grazzani Gavazzi, 2009; Cigala e Fangareggi, 2011; Cigala,
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Mori e Fangareggi, 2015; Ornaghi et al., 2011), in cui i bambini appartenenti al gruppo sperimentale, oltre ad ottenere punteggi migliori nelle prove di falsa credenza, si sono dimostrati anche più abili nel riconoscimento delle emozioni altrui.
Da altri studi è stato dimostrato (Tenenbaum et al., 2008) come la comprensione di prospettive emotive differenti dalla propria sia influenzata sia dall’ascolto di spiegazioni fornite dall’adulto, sia dal dover spiegare in prima persona determinati contenuti, rispetto al mero ascolto di storie raccontate.
Tuttavia gli autori hanno sottolineato due punti di debolezza di questo intervento;
innanzitutto, sebbene le conversazioni sperimentatore-bambino siano state modellate sulla base di quelle spontanee genitore-figlio, esse risultano comunque essere maggiormente artificiali. In secondo luogo, il fatto che in una delle condizioni sperimentali le risposte del bambino fossero guidate dalle domande dello sperimentatore non ha permesso di comprendere l’efficacia di una spiegazione totalmente spontanea da parte del bambino sullo sviluppo della comprensione delle emozioni.
Per concludere risulta opportuno sottolineare alcune considerazioni comuni a tutti gli studi indagati. In ciascuno di essi sono emersi miglioramenti in aspetti delle emozioni non direttamente insegnati durante il training, indice di una generalizzazione delle abilità apprese.
Infatti, i racconti presentati durante gli interventi differivano considerevolmente dalle storie del TEC somministrato nelle fasi di valutazione di pre e post-test, sia in termini di contenuto che di modalità di risposta.
A causa della mancanza di un follow-up, non è stato però possibile fare previsioni in merito al mantenimento nel tempo delle competenze acquisite, se non nello studio di Cigala e Fangareggi (2011) in cui, anche dopo sei mesi dal termine dell’intervento, i bambini hanno continuato a mostrare le medesime abilità di perspective taking emotivo evidenziate al termine del training, testimoniando un mantenimento dell’effetto dell’intervento.