La presenza di maltrattamento in età evolutiva è considerata uno dei fattori di rischio per la comparsa di deficit nella competenza emotiva, cognitiva e sociale del bambino (Fabes, Gaertner, e Popp, 2006). La consapevolezza di tali aspetti ha orientato gli sforzi dei professionisti nel campo dell’educazione verso l’implementazione di programmi di prevenzione ed intervento mirati alla promozione di competenze cognitive, sociali ed emotive in bambini considerati a rischio (Izard, 2002; Nelson, Westhues, e MacLeod, 2003).
Sebbene in letteratura, non vi siano riscontri in merito a training specifici, mirati al potenziamento dell’abilità di perspective taking in bambini vittime di maltrattamento, è stato possibile individuare complessi ed articolati programmi psicoeducativi definiti da alcuni autori programmi di apprendimento sociale ed emotivo (social and emotional learning program- SEL), (Bar-On e Parker 2000; Bar-On, Maree, e Elias 2007). Essi sono finalizzati alla promozione, nei bambini di età prescolare, di differenti abilità socio-cognitive ed emotive, di cui il perspective taking viene considerato parte. Tali procedure, riadattate anche al contesto prescolare normativo, sono state originariamente create per bambini considerati a rischio di sviluppo socio-emotivo, in particolare per bambini appartenenti a contesti familiari maltrattanti o svantaggiati da un punto di vista socio-economico (Lösel e Beelmann 2005, 2006). Alla base di tali interventi vi è l’idea che la competenza socio-emotiva sia multidimensionale e trasversale rispetto ai domini di sviluppo emotivo, cognitivo e comportamentale (Domitrovich, Cortes, e Greenberg, 2007). Anch’essi, come alcuni dei training study presentati in precedenza, vengono condotti all’interno delle scuole dell’infanzia e prevedono il coinvolgimento dell’intera classe. Avendo come obiettivo l’incremento di differenti abilità, prevedono l’utilizzo di vari strumenti psicoeducativi mutuati direttamente dal contesto naturalistico in cui i bambini crescono come lettura e completamento di storie, narrazione e drammatizzazione, manipolazione di materiale, disegno, canto e danza.
È possibile notare come la maggior parte di questi programmi che includono procedure volte alla promozione del perspective taking, lo considerino unicamente nella sua dimensione emotiva, programmando infatti attività mirate all’incremento della capacità di comprendere le emozioni dell’altro (Bar-On e Parker 2000).
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Nonostante gli esiti positivi ottenuti dai primi interventi di questo tipo (Domitrovich et al., 2007; Shure, 1997; Shure e Spivak, 1982), essi sono stati soggetti ad alcune critiche, dovute alla mancanza di effetti positivi consistenti sui problemi esternalizzanti mostrati dai bambini (Stoolmiller, Eddy, e Reid, 2000) e alla scarsa generalizzazione e mantenimento nel tempo delle abilità acquisite (Hughes, Cavell, Meehan, Zhang, e Collie, 2005).
Sulla base di tali critiche, gli interventi successivi sono stati modificati in modo da poter coinvolgere non solo i bambini ma anche figure per loro significative (insegnanti e genitori).
Tra questi, uno dei più citati è rappresentato dall’“Incredible Years Dinosaur Social Skill and Problem Solving Child Training Program” (Stratton, 2000 2005, 2006; Webster-Stratton e Reid, 2004;) che si configura come un intervento ad ampio spettro che prevede il coinvolgimento non solo dei bambini dai 3 agli 8 anni ma anche di genitori ed educatori, ai quali vengono insegnate strategie educative positive che possano rinforzare le abilità apprese dai bambini durante le sessioni di training a scuola. Strategie che essi possano continuare ad utilizzare a casa ed in classe, anche dopo la fine del percorso, per favorire il mantenimento nel tempo delle abilità acquisite.
Il training si compone di molteplici parti (64 lezioni), caratterizzate dall’organizzazione di diverse attività e dall’utilizzo di determinati materiali, specifici per le singole abilità da promuovere. Viene condotto congiuntamente da sperimentatore e insegnanti, durante le ore curricolari per l’intero anno scolastico e prevede il coinvolgimento dell’intera classe due o tre volte alla settimana. Per la promozione del perspective taking emotivo, l’obiettivo è quello di aiutare i bambini a comprendere ed identificare adeguatamente le emozioni altrui. Le attività consistono essenzialmente in esercitazioni pratiche guidate finalizzate al riconoscimento delle emozioni sulla base di indicatori quali: l’espressione facciale, il comportamento ed il tono della voce per riconoscere come una persona si senta e riflettere sul perché di tali stati emotivi. Alle esercitazioni pratiche seguono giochi, canzoni, lettura di storie e drammatizzazione in cui a turno i bambini devono assumere diversi ruoli, identificandosi quindi con i differenti stati emotivi sperimentati dai personaggi delle storie.
Studi condotti sulla base di tale protocollo hanno mostrato come i bambini, alla fine del percorso, siano diventati più abili a riconoscere le emozioni su di sé e sugli altri, manifestando quindi migliori abilità di perspective taking emotivo ed in generale migliori abilità sociali e minori condotte aggressive, determinando quindi un’atmosfera più positiva all’interno della classe (Stratton e Reid 2003; Stratton, Reid e Hammond 2004; Webster-Stratton, Reid e Stoolmiller, 2008) che sembra mantenersi nel tempo, come dimostrato da follow-up condotti a distanza di un anno (Webster-Stratton, Rinaldi e Reid, 2009).
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Sui medesimi principi è basato un altro progetto di intervento chiamato Second Step, un complesso programma di prevenzione dei comportamenti aggressivi, creato con l’obiettivo di ridurre lo sviluppo di problematiche sociali, emotive e comportamentali attraverso la promozione di specifiche competenze socio-emotive (Committee for Children 1991, 1992, 1997; Conner e Fraser 2011). Anche in questo caso l’attenzione degli autori è focalizzata sulla dimensione emotiva del perspective taking, che viene considerato una componente dell’empatia; le attività cui i bambini prendono parte riguardano l’identificazione degli indici fisici, verbali e situazionali delle emozioni sperimentate dagli altri, lettura di storie dal contenuto emotivo seguita da role-playing in cui sperimentare differenti ruoli (Frey, Hirschstein e Guzzo 2000). I risultati ottenuti fino ad ora si sono mostrati essere particolarmente promettenti (Conner e Fraser 2011; Frey Edstrom, Hirschstein; 2005,).
Infine, è opportuno citare un ulteriore programma di intervento denominato School Matters In Lifeskills Education (SMILE), programma di intervento inglese (Harrison e Paulin, 2000), creato per aiutare i bambini dai 4 ai 12 anni a sviluppare la loro comprensione della natura e delle cause delle emozioni, l’abilità di regolazione e controllo emotivo e l’attenzione ai propri ed altrui stati emotivi (Pons, Harris e Doudin 2002).
I risultati positivi ottenuti da tali interventi sono stati replicati da ulteriori programmi, di prevenzione, come il Triple P (Sanders, Markie-Dadds, Tully e Bor, 2000), il Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS) (Domitrovich et al., 2007), l’Emotion Based Prevention Program (EBP) (Izard, King, Trentacosta, Morgan, Laurenceau, Krauthamer-Ewing, Finlon, 2008), il Parent Management Training (Pearl 2009), o ancora il Social Emotional Prevention Program (SEP) (Ştefan e Miclea, 2013).
Alla base di alcuni di questi percorsi è possibile ritrovare la teoria dell’apprendimento sociale, che si esplica nel fornire rinforzi positivi ai comportamenti dei bambini, o dei genitori, ritenuti socialmente desiderabili, e rinforzi negativi a quelli considerati non socialmente adattivi (Stefan e Miclea, 2009). In questi programmi di intervento, rivelatisi per la maggior parte efficaci (Dretzke, Davenport, Frew, Barlow, Stewart-Brown, Bayliss, Rod, Taylor, Sandercock e Hyde, 2009; Nowak e Heinrichs 2008), il focus specifico sui comportamenti determina assenza di attenzione alla dimensione meta-emotiva (Gottman, Katz e Hooven 1997), ovvero alla modifica dei pensieri, delle idee e delle credenze sulle emozioni che muovono le condotte sociali. Tuttavia, da un interessante studio di meta-analisi è emerso come i programmi di intervento sui genitori dimostratisi maggiormente efficaci siano quelli che comprendono anche il livello della comunicazione emotiva tra genitori e figli (Kaminski, Valle, Filene e Boyle 2008). In questa direzione alcuni studi hanno evidenziato l’efficacia di
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interventi finalizzati a promuovere la sintonizzazione e la consapevolezza emotiva dei genitori (Bakermans-Kranenburg, van IJzendoorn e Juffer 2003; Coatsworth, Duncan, Greenberg e Nix 2010; Salmon, Dadds, Allen e Hawes 2009), anche se molti di essi sono stati condotti in ambito clinico.
Un programma di intervento interessante e validato su una popolazione non clinica è rappresentato dal Tuning in to kids (TIK) (Havighurst, Wilson, Harley, Kehoe, Efron e Prior, 2013; Havighurst, Wilson, Harley e Prior, 2009) finalizzato a promuovere la capacità dei genitori di sintonizzarsi con le emozioni proprie e dei bambini. In particolare, l’intervento si propone di modificare le credenze sulle emozioni e i comportamenti di regolazione emotiva delle figure di riferimento con l’idea di incoraggiare le modalità di emotion coaching dei genitori rispetto alle emozioni dei figli, e indirettamente promuovere una maggiore competenza emotiva dei bambini medesimi in termini prevalentemente di regolazione delle emozioni. Il programma di intervento condotto da “facilitatori esperti” secondo procedure strutturate (Havighurst e Harley, 2007), si suddivide in 6 sessioni settimanali di due ore ciascuna per un tempo complessivo di sei settimane. In tali incontri i genitori vengono aiutati a sensibilizzarsi rispetto alle emozioni dei figli, a riconoscerle, etichettarle e a riflettere sul loro significato; inoltre l’obiettivo è quello di lavorare sulle strategie di problem-solving e sulla gestione di emozioni più intense, come la rabbia propria e dei figli, con una particolare attenzione alle modalità di regolazione esterna ed interna. Il programma, condotto in gruppi di 8-14 genitori, prevede discussioni, condivisione delle esperienze, ripresa di esempi tratti dalle situazioni reali raccontate dai membri stessi del gruppo e la presentazione di modelli alternativi di socializzazione, attraverso l’impiego di metodologie attive, quali: video, role-playing e altri metodi psico-educativi. L’efficacia dell’intervento è stata valutata in diversi studi condotti prevalentemente con genitori di bambini in età prescolare, attraverso disegni pre-test, post-test e follow-up, dopo sei mesi. I risultati hanno mostrato un miglioramento delle strategie di regolazione emotiva dei genitori e delle loro modalità di socializzazione emotiva, rilevate sia attraverso strumenti self-report che tramite osservazioni dirette condotte da osservatori esterni. Inoltre il training si è dimostrato essere efficace anche rispetto ai comportamenti dei bambini, in particolare in relazione alle loro strategie di regolazione delle emozioni, rilevate da genitori e insegnanti e osservate direttamente nel contesto familiare e scolastico.
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4.6.1 Le comunità di accoglienza mamma-bambino
Le comunità mamma-bambino hanno un’origine molto recente e sono nate con lo scopo di tutelare, promuovere e ricostruire la relazione all’interno della diade madre-figlio, ove sia stata compromessa o rischi di esserlo (Tomisich e Zucchinali, 2009).
Punto di partenza per l’istituzione di tali strutture è stata la Legge 285 del 1997, “Disposizioni per la promozione dei diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”. Prima legge nazionale ad occuparsi globalmente dell’infanzia, prevede, all’articolo 4, la realizzazione di case di accoglienza per donne in difficoltà in stato di gravidanza o con figli minori.
Esistono due principali categorie di strutture di questo tipo; in particolare comunità di accoglienza e comunità terapeutiche.
Le prime hanno l’obiettivo di aiutare e supportare madri e figli in situazioni di difficoltà, sia concrete che relazionali. Ospitano pertanto una tipologia di utenza particolarmente variegata che comprende donne vittime di maltrattamenti da parte del partner, madri inserite per essere aiutate nella gestione di pratiche genitoriali (accudimento e salute dei figli), o ancora donne con problematiche di tipo familiare, difficoltà economiche e/o abitative o altre problematicità di carattere psico-sociale e relazionale (esclusione dal mondo del lavoro, basso livello di istruzione, isolamento, richiesta di asilo politico). Spesso definite “multiproblematiche” o
“con bisogni complessi”, queste famiglie presentano solitamente diverse tipologie di problemi (Malagoli Togliatti e Tofani, 2010), che possono incidere significativamente sulle pratiche genitoriali adottate da queste madri, non sempre adeguate rispetto ai reali bisogni di sviluppo dei figli. L’altra tipologia riguarda le comunità terapeutiche, che ospitano mamme con problemi di abuso o dipendenza che vengono quindi inserite in percorsi di disintossicazione.
Anche in questi casi, al problema di dipendenza si associano solitamente svariate difficoltà che richiedono supporto e sostegno. L’utenza con la quale gli operatori devono confrontarsi quotidianamente è quindi particolarmente complessa. Non essendo l’ingresso, frutto di una scelta volontaria, richiede in molti casi, una trasformazione della motivazione di queste mamme da estrinseca a intrinseca, per far comprendere loro l’importanza del percorso che dovranno intraprendere all’interno della comunità, al fine di diventare protagoniste del percorso di crescita proprio e dei loro figli. Tali strutture si pongono generalmente un doppio mandato: l’accoglienza ed il sostegno di ciascuna ospite, unito alla valutazione delle capacità genitoriali, ponendo al centro l’osservazione ed il sostegno della diade mamma-bambino.
Dopo un iniziale periodo di osservazione congiunta ad opera di tutti i professionisti coinvolti (educatori, psicologi, assistenti sociali), volto a far emergere caratteristiche della madre, in termini di punti di forza e di debolezza, viene formulato un progetto individualizzato per
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ciascun nucleo. Le aree su cui le madri vengono seguite riguardano principalmente la gestione della propria stanza/appartamento e della vita domestica in generale (pulizie, preparazione dei pasti, rispetto di orari e tempi), gli aspetti economici ed il rapporto con il proprio bambino.
L’obiettivo infatti è quello di favorire la formazione di regolari routine quotidiane, per consentire alle donne l’apprendimento di corrette modalità organizzative nella gestione dei figli e dell’ambiente domestico. Molte comunità prevedono il coinvolgimento delle madri in attività laboratoriali, propedeutiche alla valutazione delle madri, al fine di un adeguato reinserimento sociale e lavorativo alla fine del percorso.
L’attività di accoglienza è spesso rafforzata e completata da altre attività come la consulenza psicologica e legale, i progetti di accompagnamento e orientamento al lavoro e di supporto alla genitorialità. Il tempo di permanenza varia da una struttura all’altra ma generalmente va da un minimo di due-tre mesi, permanenza minima affinché l’ingresso in comunità abbia un significato terapeutico e non solo emergenziale, ad oltre due anni. Nella maggior parte delle strutture comunitarie, il lavoro è effettuato da educatori/operatori, mentre la presenza di altre figure professionali è spesso occasionale e avviene per lo più nella forma di un consulente esterno per i casi più complessi o per il monitoraggio dell’équipe. Questo lavoro esterno svolto dal professionista corre però il rischio di centrare tutto l’intervento svolto dalla comunità sulla madre, trascurando il bambino o la relazione madre-figlio. La maggior parte delle comunità centra infatti la propria attenzione o sulla madre o sul bambino, mentre difficilmente vengono svolti programmi paralleli su entrambi.
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CAPITOLO 5
IL PROGETTO DI RICERCA: IMPIANTO SPERIMENTALE