radici intellettuali della distensione sono pertanto individuate da Arne Hofmann nell’approccio ‐ dinamico, pragmatico e visionario insieme ‐ di Kennedy e di Brandt, che all’inizio degli anni ’60 cominciarono a preparare, in modo non sempre coincidente, il terreno per gli sviluppi del decennio successivo.39
2. LA DISTENSIONE DELLE SUPERPOTENZE: UN DIALOGO “STATUS QUO ‐
talvolta anche estremamente intenso e comunque sempre presente nelle relazioni bipolari.
Incentrato anch’esso sulle relazioni tra le due superpotenze è il volume di Melvyn Leffler: “For the soul of mankind”.41 Leffler, evitando di analizzare in modo approfondito gli anni della distensione vera e propria, focalizza la sua attenzione invece sul periodo immediatamente precedente (’62‐’65) e successivo (dal ’75 in poi). L’autore intende in tal modo investigare più le radici e l’eredità del processo di distensione, rispetto al fenomeno stesso della détente. La distensione sarebbe stata originata – secondo Leffler – in primo luogo dall’accresciuta consapevolezza dei leader delle superpotenze di vivere sulla soglia di un “annientamento globale”, derivante dai pericoli delle crisi internazionali in un’era nucleare.
Nonostante gli storici generalmente collochino i più spettacolari eventi della distensione tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo, Leffler sottolinea come sia possibile rintracciare i primi segni di tale processo già nel periodo immediatamente successivo alla Crisi di Cuba.42 Una spinta non secondaria in direzione della distensione derivava inoltre a suo avviso dalla crescente necessità della leadership sovietica di concentrare maggiori risorse nel settore dei beni di consumo, per risollevare le drammatiche condizioni di vita dei cittadini del Patto di Varsavia e dunque riequilibrare il problematico sistema economico comunista. Khrushchev e poi soprattutto il suo successore Brezhnev ritenevano che tale processo sarebbe stato attuabile solo nel quadro di una riduzione delle spese militari e di un aumento dei contatti economico‐
41 Melvyn P. Leffler, For the soul of mankind. The United States, the Soviet Union and the Cold War (New York: Hill and Wang, 2007)
42 M. P. Leffler, For the soul of mankind, pp.151‐233.
commerciali con l’Occidente e dunque nel contesto di una distensione internazionale.43
Alcuni autori hanno poi affrontato lo studio della Guerra Fredda focalizzando la propria attenzione sulla politica estera di una delle due superpotenze. Per quanto riguarda la prospettiva statunitense, un’analisi imprescindibile che copre tutto l’arco temporale della Guerra Fredda ‐ utile anche per contestualizzare il periodo della distensione ‐ è quella elaborata dall’americano John Lewis Gaddis in “Strategies of Containment”.44 L’autore reinterpreta infatti con una chiave originale la politica di sicurezza degli Stati Uniti, focalizzando la propria attenzione sul concetto di “containment”, la preoccupazione centrale della politica estera statunitense dal dopoguerra in poi.
Gaddis, analizzando dunque la storia della Guerra Fredda da una prospettiva strategica, applica una propria periodizzazione esaminando come il concetto di containment sia stato formulato ed attuato in diversi modi dalle amministrazioni americane. Nella sua analisi, che si basa sull’individuazione di alcuni distinti
“paradigmi strategici”, la fase del conflitto Est‐Ovest definita di “distensione”
occupa tutti gli anni ’70, dall’entrata in carica dell’amministrazione Nixon (1969) all’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979).45 Tale decennio vide ‐ secondo Gaddis ‐ i cambiamenti più rilevanti nella politica estera americana della seconda metà del Novecento.46
Nella concezione del Presidente repubblicano Richard Nixon e del suo National Security Advisor Henry Kissinger, la politica estera statunitense doveva
43 M. P. Leffler, For the soul of mankind, pp.165‐166; 234‐242.
44 John Lewis Gaddis, Strategies of Containment. A critical appraisal of postwar American National Security Policy (New York: Oxford University Press, 1982).
45 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.IX.
46 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.274.
essere depurata dalla sua componente ideologica, per focalizzarsi invece sul riconoscimento di precisi interessi geopolitici.47 Nell’epoca di un condiviso pericolo nucleare sembrava infatti possibile riscontrare interessi comuni anche tra stati considerati nemici. La détente, nell’interpretazione dell’Amministrazione Nixon, doveva rappresentare dunque un processo di cooperazione internazionale basato sulla coesistenza di diversi centri di potere ugualmente interessati a contribuire alla formazione di un equilibrio mondiale più stabile e sicuro di quello sperimentato nei precedenti decenni della Guerra Fredda.48 Un punto centrale nella politica americana degli anni ’70 era poi quello di evitare umiliazioni e situazioni che avrebbero potuto provocare negli avversari la percezione della debolezza americana.49 La distensione era pertanto ‐ nell’ottica di Nixon e Kissinger ‐ un nuovo tentativo di contenere il potere e l’influenza dell’Unione Sovietica, da attuarsi con un approccio pragmatico e realista. La strategia perseguita da Nixon (e poi in parte dal suo successore Gerald Ford), di cui Kissinger era il maggiore artefice, aveva lo scopo di integrare l’URSS in uno stabile ordine mondiale, rendendola più partecipe e responsabile della formazione e regolazione di tale nuovo equilibrio.
Un contesto internazionale stabile e pacifico ‐ secondo questa concezione politica ‐ avrebbe potuto essere costruito solamente attraverso una collaborazione tra le maggiori potenze, da attuarsi per via diplomatica. Gli anni della distensione furono infatti caratterizzati proprio da una generalizzata pratica
47 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp.279; 284‐285.
48 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.283.
49 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.277. Gaddis sottolinea come ‐ in quel periodo ‐ fosse aumentata la rilevanza della dimensione “psicologica” nel contesto delle relazioni internazionali, la quale aveva l’effetto di rendere la “percezione” del potere importante quanto il potere stesso. Per quanto riguarda l’importanza di “perceptions and misperceptions” si vedano anche: M. P. Leffler, For the soul of mankind, cit., p.336; e John Lewis Gaddis, “Grand strategies in the Cold War”, in Melvyn P. Leffler, Odd Arne Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War (Cambridge University Press, 2010), vol. 2, p.12.
di negoziati tra le grandi potenze.50 Nel portare avanti tali trattative, l’Amministrazione Nixon sviluppò il peculiare approccio del “linkage”, che rifletteva una visione strategica complessiva in cui tutte le maggiori questioni che gli Stati Uniti dovevano affrontare venivano considerate correlate e interdipendenti.51 La pratica dei negoziati si allargò a comprendere anche un riavvicinamento sino‐americano, avviato abilmente da Kissinger nella consapevolezza che il permanente isolamento della Cina comunista sarebbe stato prima o poi pericoloso per un equilibrio mondiale stabile e favorevole alla sicurezza degli Stati Uniti.
Il riconoscimento dei limiti presenti nelle risorse americane imponeva inoltre una ridefinizione degli interessi e degli impegni esteri degli Stati Uniti, distinguendoli tra “vitali” e “periferici”, al fine di evitare una pericolosa sovraesposizione degli stessi USA.52 L’Amministrazione Nixon, desiderando pertanto abbandonare le oscillazioni statunitensi tra un isolazionismo e un eccessivo allargamento dei propri interessi, era piuttosto incline ad applicare
50 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.289. Kissinger era infatti convinto che la stabilità del sistema internazionale dipendesse dalla relativa “soddisfazione” dei vari stati della comunità internazionale e che andasse pertanto perseguita attraverso dei negoziati. La pratica negoziale ‐ se ben condotta e preparata ‐ non era dunque secondo Kissinger una manifestazione di debolezza per gli Stati Uniti, ma anzi avrebbe potuto costituire il mezzo principale tramite il quale portare avanti gli stessi interessi statunitensi.
51 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.294. Il “linkage” era infatti molto più di uno strumento negoziale, rappresentando esso stesso il sinonimo di una generale visione strategica e geopolitica delle relazioni internazionali. L’abilità degli Stati Uniti doveva essere pertanto quella di saper prendere attivamente l’iniziativa nel contesto internazionale e mantenere una concezione globale dei propri interessi, nella quale un aspetto di debolezza degli USA nei confronti dell’Unione Sovietica riscontrato in un dato settore negoziale avrebbe potuto essere compensato da un punto di forza statunitense in un altro ambito del dialogo tra le superpotenze.
52 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.278. Per quanto riguarda la consapevolezza dell’Amministrazione Nixon dei limiti nella capacità americana di contenere la sfida del comunismo a livello globale, consapevolezza peraltro implicita nella cosiddetta “Dottrina Nixon” resa pubblica nel 1969, si veda anche: L. S. Kaplan, The long entanglement. NATO’s first fifty years, cit., pp.116; 150‐161. Un’analisi specifica della Dottrina Nixon è presente poi nel volume: Robert S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine.
American foreign policy and the pursuit of stability, 1969‐1976 (Cambridge University Press, 1984), di cui si dirà più avanti.
quella che Gaddis identifica come “risposta asimmetrica” alle minacce percepite.
Tale strategia rifiutava la logica di un confronto bipolare in cui ogni ambito di controversia si dovesse considerare come un “gioco a somma zero”, privilegiando invece una “ottimizzazione dei punti di forza americani” in una visione della realtà più integrata, nella quale era opportuno valutare gli aspetti della politica estera statunitense tenendo conto delle loro interconnessioni in vista di un bilancio complessivo.53
L’approccio degli Stati Uniti alla distensione fu connesso inoltre ad un particolare stile della politica estera statunitense di quel periodo, caratterizzato da un forte centralismo decisionale nella Casa Bianca, che implicava l’isolamento e il depotenziamento della burocrazia e del Congresso oltre ad una marcata segretezza nella gestione diplomatica.54 La politica di distensione ‐ dal punto di vista americano ‐ non mirava dunque al superamento della conflittualità alla base della Guerra Fredda, ma alla costituzione di un ambiente internazionale dove gli stati potessero regolare la propria relazione competitiva negoziando i diversi interessi in modo cooperativo.55 Tale politica, favorevole ad una stabilità mondiale, era peraltro funzionale anche a limitare i danni che il conflitto in Vietnam aveva causato alla posizione internazionale degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda la politica di distensione nella declinazione statunitense si devono qui menzionare poi alcuni altri importanti contributi della storiografia sul tema. Un volume dedicato specificatamente all’analisi della
“Dottrina Nixon” e all’approccio peculiare della politica estera statunitense tra il
53 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., p.304.
54 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp.302‐303. Su tale aspetto si veda anche: William Bundy, A tangled web. The making of foreign policy in the Nixon Presidency (New York: Hill and Wang, 1999), che mette in luce sia il sistema politico‐diplomatico del linkage sia lo stile specifico della politica estera dell’Amministrazione Nixon.
55 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp.311; 318.
1969 e il 1976 è “Détente and the Nixon Doctrine” di Robert S. Litwak.56 Seppure piuttosto datato, tale libro offre un’utile ricostruzione della politica estera degli USA durante il periodo della distensione. L’autore evidenzia come la strategia di Nixon e Kissinger si basasse sul perseguimento di un equilibrio stabile considerato
‐ dai due protagonisti ‐ un imperativo necessario stante l’era nucleare in cui ci si trovava alla fine degli anni ’60.57 L’esigenza di cooptare l’altra superpotenza in un
“global diplomatic framework” derivava dunque dalla volontà di condividere la responsabilità della costruzione di una nuova stabile architettura internazionale.
Mediante un uso accorto della già citata tecnica del linkage, l’Amministrazione Nixon intendeva sfruttare i punti deboli del regime sovietico e ottenere un
“balance of power” complessivamente vantaggioso per gli Stati Uniti.58 Da tali elementi Litwak mette in luce come la détente fosse, nella declinazione statunitense, essenzialmente una politica “status quo ‐ oriented” operante a livello di relazioni tra le grandi potenze e destinata pertanto ad entrare talvolta in conflitto con la distensione concepita invece dagli alleati europei (de Gaulle e Brandt soprattutto).
La drammatica evoluzione della guerra del Vietnam imponeva poi alla leadership statunitense un dilemma di politica estera, dovendosi necessariamente tentare di riconciliare la competizione manichea in cui gli USA si sentivano ‐ dal dopoguerra in poi – ingaggiati, consistente nell’esigenza di contenere la sfida comunista ovunque essa si manifestasse, con il sopraggiunto imperativo di un “retrenchment” militare, date le difficili condizioni della fine degli anni ’60.59 La crisi indocinese accentuava inoltre la sensazione degli USA di
56 Robert S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine. American foreign policy and the pursuit of stability, 1969‐1976 (Cambridge University Press, 1984)
57 R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.62.
58 R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., pp.89‐90.
59 R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.4.
essere “sotto attacco” in modo sempre più complessivo dal punto di vista geografico, stanti le sfide poste dalla parità strategica sovietica e ‐ sotto un altro punto di vista ma ugualmente fonte di pressione ‐ dalla crescita di autonomia politica ed economica degli alleati europei (a cui si aggiungeva la tensione provocata dai movimenti di protesta interni, il cui apice si ebbe proprio alla fine degli anni ’60).60 Il concetto centrale della Dottrina Nixon era pertanto l’abbandono del ruolo di “night‐watchman state” esercitato dagli Stati Uniti nei primi decenni della Guerra Fredda, che stava diventando insostenibile, in favore di una globale riduzione degli impegni diretti degli USA, che tuttavia non avrebbe dovuto condurre in alcun modo ad un loro disengagement politico.61
Il conflitto del Vietnam, essendosi trasformato in un test per la forza e credibilità degli Stati Uniti nel contesto internazionale, rappresenta comprensibilmente un tema al centro di numerose analisi storiche ed è comunque lo sfondo delle ricerche che vertono su altri aspetti della politica estera statunitense durante lo stesso periodo. Tra queste ultime si devono qui citare soprattutto i volumi di Massimiliano Guderzo, “Interesse nazionale e responsabilità globale”62 e quello di Thomas Schwartz, “Lyndon Johnson and Europe”.63 Entrambi gli autori prendono in esame il periodo dell’Amministrazione Johnson (ovvero gli anni 1963‐1969) analizzando dunque la politica estera statunitense durante la fase dei prodromi della distensione, mettendo in luce soprattutto la complessità dei rapporti transatlantici.
60 A tal riguardo Litwak sostiene che le condizioni internazionali esistenti alla fine degli anni ’60 esigessero un profondo “psychological readjustment” da parte degli Stati Uniti; R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.112.
61 R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.42.
62 Massimiliano Guderzo, Interesse nazionale e responsabilità globale. Gli Stati Uniti, l’Alleanza atlantica e l’integrazione europea negli anni di Johnson, 1963‐1969 (Firenza: Aida, Il Maestrale, 2000)
63 Thomas Alan Schwartz, Lyndon Johnson and Europe. In the shadow of Vietnam (Cambridge, Massachusetts; London: Harvard University Press, 2003)
Nelle ricerche di Guderzo e di Schwartz vengono ricostruite le principali problematiche che l’Alleanza Atlantica si trovò a dover affrontare durante gli anni
’60, in un quadro in cui sono approfonditi con la dovuta attenzione, oltre alla politica estera statunitense durante la prima fase di disgelo con l’Unione Sovietica (con il “bridge‐building” della concettualizzazione johnsoniana), anche il livello transatlantico delle relazioni internazionali e quello specifico dell’integrazione europea. In un periodo in cui entrarono in crisi i presupposti di una gestione delle relazioni internazionali strettamente bipolare – quale si era sperimentata durante i primi due decenni della Guerra Fredda – si registrava infatti una crescente autonomia delle posizioni europeo‐occidentali, che inevitabilmente metteva in crisi il rapporto dell’Europa occidentale con la superpotenza egemone. Se pure dunque l’ombra della Guerra del Vietnam incombeva in tutta la politica estera e interna statunitense di quel periodo, soprattutto il volume di Guderzo mostra come gli USA di Johnson non si fossero occupati “solo” di Indocina o delle riforme di politica interna del progetto di “Great Society”, come talvolta può apparire dallo studio di tale periodo. L’analisi del rapporto tra gli Stati Uniti e gli
“interlocutori litigiosi” europei,64 che negli anni ’60 si muoveva tra aspetti di partnership, di competizione e talvolta di aperto confronto e di sfida, è dunque un elemento imprescindibile per qualsiasi ricerca che verta sulla distensione del periodo successivo.
Per quanto riguarda la politica estera statunitense della presidenza Nixon vanno infine citati anche la monografia di William Bundy “The tangled web”,65 e il volume collettaneo curato da Frederik Logevall e Andrew Preston “Nixon in the
64 M. Guderzo, Interesse nazionale e responsabilità globale, cit., pp.145 e segg.
65 William Bundy, A tangled web. The making of foreign policy in the Nixon Presidency (New York:
Hill and Wang, 1999)
world”.66 Una pubblicazione dedicata invece interamente alle relazioni transatlantiche, che prende in esame un arco temporale parzialmente differente dai volumi già citati ‐ ovvero tutto il decennio degli anni ’70 –, è quella curata da Matthias Schulz e Thomas Schwartz, dal titolo “The strained Alliance”, che trae origine da una conferenza internazionale tenutasi alla Vanderbilt University (Nashville, Tennessee) nel 2004.67 In tale testo l’analisi dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa occidentale nel periodo compreso tra l’Amministrazione Nixon e l’Amministrazione Carter è affrontata mediante una serie di contributi di autori diversi, che mettono in luce aspetti e temi specifici, quali la “sfida” alla leadership statunitense portata avanti da Parigi e da Bonn, la questione dell’ “Anno dell’Europa” lanciato nel 1973 da Kissinger, che si sovrappone al periodo del
“breve sogno dell’unità politica europea”,68 e la competizione economica tra Washington e gli alleati europei con i relativi problemi economico‐monetari.
Se dunque gli autori di cui si è discusso affrontano la distensione dal punto di vista statunitense, per quanto riguarda invece la prospettiva sovietica il contributo più interessante per una migliore comprensione della politica estera dell’URSS è probabilmente il volume di Vladislav Zubok “A Failed Empire. The Soviet Union in the Cold War from Stalin to Garbachev”.69 L’autore approfondisce lo studio della Guerra Fredda considerandola soprattutto come storia dei leader e dei relativi comportamenti. Per quanto riguarda gli anni ’70, attraverso
66 Fredrik Logevall and Andrew Preston (eds.), Nixon in the world. American foreign relations, 1969‐1977 (Oxford; New York: Oxford University Press, 2008)
67 Matthias Schulz, Thomas Alan Schwartz (eds.), The strained Alliance. U.S.‐European relations from Nixon to Carter (German Historical Institute of Washington D.C.; Cambridge, New York: Cambridge University Press: 2010)
68 Si è ripreso qui il titolo del seguente volume di Möckli, dedicato proprio al tema della cooperazione politica dell’Europa occidentale in tale periodo: Daniel Möckli, European foreign policy during the Cold War. Heath, Brandt, Pompidou and the short dream of political unity (London; New York: I.
B. Tauris, 2009); sullo stesso tema si veda anche: Maria Eleonora Guasconi, L’Europa tra continuità e cambiamento. Il vertice dell’Aja del 1969 e il rilancio della costruzione europea (Firenze: Polistampa, 2004).
69 V. M. Zubok, A failed empire, cit.
un’indagine rigorosa e ben documentata, Zubok sostiene che la leadership sovietica non intendeva proseguire sulla linea della pericolosa politica di
“brinkmanship” sperimentata da Khrushchev.70
Una volta raggiunta la parità nel campo degli armamenti strategici, l’Unione Sovietica aveva infatti interesse ad evitare il rischio di una guerra con gli Stati Uniti e a cercare di costituire un più stabile ordine internazionale. In questo senso l’approccio pragmatico e meno ideologico‐rivoluzionario del nuovo leader Brezhnev trovava notevole convergenza con quello dell’Amministrazione Nixon. Il leader sovietico era convinto che l’avvio di una nuova fase di relazioni internazionali, caratterizzata da una distensione, avrebbe potuto favorire una legittimazione della posizione sovietica e l’affermazione del proprio prestigio personale come politico impegnato nella costruzione di un ordinamento pacifico.71 Brezhnev intendeva convertire infatti il crescente potere militare sovietico in un mezzo per attuare un’azione diplomatica vantaggiosa e di successo. Una forte spinta alla politica di regolamentazione degli interessi nazionali dell’Unione Sovietica con gli stati occidentali era rappresentata inoltre dall’importanza degli scambi economico‐commerciali, necessari per sopperire alle crescenti difficoltà dei sistemi comunisti.72 La rilevanza delle relazioni commerciali Est‐Ovest nelle dinamiche del processo di distensione è stata analizzata con precisione anche in un saggio di Werner Lippert, nel quale il legame tra politica
70 V. M. Zubok, A failed empire, cit., p.203. Per un approfondimento del concetto della politica di
“brinkmanship” si vedano le pp.137 e segg.
71 V. M. Zubok, A failed empire, cit., p.207.
72 Su questo punto si veda anche: Oliver Bange, “ ‘Keeping détente alive’. Inner‐German relations under Schmidt‐Honecker 1974‐1978”, in Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London; New York: Routledge, 2008), p.231.
estera ed esigenze commerciali dell’Unione Sovietica appare particolarmente stretto.73
L’apice della distensione – come ricorda Zubok ‐ si riscontra nella prima metà degli anni ’70, con i Trattati tra la BRD e alcuni stati del Patto di Varsavia, i Trattati SALT e ABM tra le superpotenze, gli accordi commerciali tra stati dei due campi e la Conferenza di Helsinki, fortemente voluta dalla stessa Unione Sovietica. L’autore sostiene che questo rapido declino delle tensioni della Guerra Fredda non fu però inevitabile né preordinato.74 Se è vero infatti che la percezione della pericolosità della proliferazione degli armamenti favorì una nuova fase di relazioni internazionali di coesistenza pacifica tra i due blocchi, si deve tuttavia sottolineare anche come fu fondamentale in quegli anni il ruolo delle personalità di spicco. Zubok riduce quindi il peso tradizionalmente accordato dagli storici alle componenti strategiche ed economiche delle origini della distensione, per spostarlo sul coinvolgimento personale di Brezhnev, che decise intenzionalmente di investire il proprio capitale politico in tale missione stabilizzatrice.
Nell’ottica del leader sovietico, la détente rispondeva vantaggiosamente a molteplici interessi: l’ottenimento di un riconoscimento interno e internazionale per la propria carriera politica, l’oscuramento del declino generale del sistema comunista nei confronti dell’attenzione pubblica e l’allontanamento del pericolo di una guerra nucleare. Secondo questa interpretazione che dà particolare rilievo alle personalità, la distensione era strettamente connessa con i protagonisti della scena politica internazionale della prima metà degli anni ’70, e pertanto destinata
73 Werner D. Lippert, “Economic diplomacy and East‐West trade during the era of Détente.
Strategy or obstacle for the West?”, in Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London; New York: Routledge, 2008), pp.190‐201.
74 V. M. Zubok, A failed empire, cit., pp.222 e segg.