dell’interdipendenza tra i due campi).103 Le diverse declinazioni nazionali del concetto di distensione sono analizzate anche nel contributo di Irwin M. Wall
“The United States and two Ostpolitiks. De Gaulle and Brandt”.104 In tale saggio si sottolinea come l’obiettivo della distensione statunitense fosse essenzialmente il mantenimento di uno stabile status quo e pertanto fossero presenti frizioni e sospetti nei confronti dei partner europei che ‐ secondo l’Amministrazione Nixon
‐ si cominciavano a rapportare con il campo comunista in modo eccessivamente indipendente e pericolosamente “sovversivo” rispetto alla gestione bipolare dell’equilibrio internazionale. Nelle relazioni transatlantiche erano peraltro inevitabili fasi di scarsa coesione e di relativa indipendenza europea, che gli USA ‐ potenza “imperiale” liberale ‐ dovevano necessariamente tollerare.105
dalla distensione attuata dalle superpotenze, che fu un fenomeno non stabile e di durata limitata, il processo avviatosi parallelamente nel contesto regionale europeo riuscì – secondo Loth ‐ a superare effettivamente la Guerra Fredda, permettendo contatti culturali e commerciali che contribuirono alla liberazione dell’Europa dell’Est dai regimi totalitari.107
Loth interpreta tutto l’arco della Guerra Fredda focalizzandosi sui principali tentativi di de‐escalation della conflittualità, operati da entrambi i campi dagli anni ’50 fino alla fine degli anni ’80. Rifiutando decisamente la tesi che considera la fine della Guerra Fredda come il risultato di un’efficace politica di forza occidentale, l’autore sostiene che il sistema sovietico collassò a causa di pressioni eminentemente interne. Il campo occidentale ebbe tuttavia un ruolo fondamentale nel promuovere tale evoluzione sovietica, nell’ottica di una filosofia di “change through rapprochement” basata sull’incremento di contatti tra i campi nemici.108 La cooperazione che fu avviata soprattutto negli anni ’70 tra stati di diversi schieramenti rispondeva all’interesse comune di limitare la conflittualità, ma divenne nel tempo un prerequisito della trasformazione del sistema comunista. La fine della Guerra Fredda – secondo Loth ‐ non fu pertanto dovuta solo a causa di una serie di circostanze favorevoli e contingenti, ma fu anche preparata dai profondi cambiamenti che investirono il contesto internazionale negli anni ’70 e condussero al conseguente declino della disciplina interna in entrambi i campi.
Un ruolo di primaria importanza in questo processo di trasformazione di lungo periodo – secondo l’interpretazione di Loth – lo ebbero sicuramente le relazioni economici‐commerciali tra i due campi. Anche Jussi Hanhimäki, nella sua
107 Saki Dockrill, preface in: W. Loth, Overcoming the Cold War, cit.
108 W. Loth, Overcoming the Cold War, cit.
lettura del processo di erosione dell’impero sovietico, accorda un peso significativo all’incremento dei contatti tra le due alleanze nell’ambito economico e commerciale.109 Tale questione è del resto presente anche nell’analisi di Gaddis, che enfatizza il ruolo svolto nello sgretolamento del blocco comunista dalla crescente dipendenza economica del Patto di Varsavia nei confronti degli stati capitalisti.110 Secondo invece un’altra interpretazione di segno del tutto opposto ‐ quella di Werner Lippert111 ‐ l’incremento dei contatti (specialmente economico‐
commerciali) tra i due blocchi non minò le fondamenta del regime sovietico ma anzi ebbe l’effetto di prolungarne la sopravvivenza, attraverso una
“stabilizzazione artificiale” del suo sistema economico.
La distensione si dimostrò comunque un assetto fragile delle relazioni tra le superpotenze. Nel periodo compreso tra la fase di détente e i drastici cambiamenti nel sistema internazionale della fine degli anni ’80 le relazioni tra i due blocchi furono caratterizzate infatti da una rinnovata conflittualità, che diede luogo ad uno dei periodi più pericolosi dell’intera Guerra Fredda (’75‐’85) che alcuni autori giungono a definire “Seconda Guerra Fredda”.112 A partire dalla
109 J. Hanhimäki, “Détente in Europe”, cit., pp.212‐216.
110 J. L. Gaddis, “Grand strategies in the Cold War”, cit., pp.17‐19.
111 W. Lippert, “Economic diplomacy and East‐West trade during the era of Détente”, in L. Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe, cit., p.200.
112 Si veda ad esempio Fred Halliday, The making of the Second Cold War (London: Verso, 1983).
Nella propria periodizzazione dell’intero periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 1983 (anno in cui Halliday pubblicò il suo studio) l’autore, esperto irlandese in Relazioni Internazionali, definiva come “Seconda Guerra Fredda” il periodo che iniziava nel 1979 e che non si era ancora concluso nel 1983, caratterizzato da una “erosione della fiducia” tra Est e Ovest, una crisi nel processo di controllo degli armamenti e l’esistenza di numerose “guerre per procura” tra le due superpotenze, che avevano luogo in contesti extra‐europei e prevalentemente nel Terzo Mondo. Lo stato di rinnovate tensioni delle relazioni internazionali tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 è stato efficacemente descritto anche da Beatrice Heuser, in un saggio focalizzato sulla dimensione militare‐strategica delle relazioni Est‐
Ovest: Beatrice Heuser, “The Soviet Response to Euromissiles crisis”, in Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London; New York: Routledge, 2008), pp.137‐
149. In questo contributo l’autrice sostiene che in quegli anni il pericolo maggiore fosse lo scoppio di una guerra per errore, dovuto ad un’interruzione del processo di distensione e comunicazione tra i due campi.
In tale periodo si registrava infatti, in gran parte degli stati della comunità internazionale, un’allerta
seconda metà degli anni ’70 l’intera architettura della distensione cominciò a vacillare per una serie congiunta di ragioni, tra le quali vi erano l’assenza di una condivisa nozione di legittimità e di valori comuni tra le varie potenze, l’incapacità del sistema di contenere la spinta delle superpotenze ad ottenere vantaggi unilaterali nella “periferia” del contesto internazionale, oltre ad un (non secondario) calo del consenso interno negli Stati Uniti nei confronti della stessa politica di distensione.113 Come evidenziano i già citati studi di Litwak e Leffler, la distensione costruita dalle due superpotenze si dimostrò essenzialmente un precario e soltanto temporaneo accordo tra USA e URSS per una stabilizzazione dello status quo esistente al centro della competizione bipolare (dunque soprattutto nel continente europeo), che lasciava paradossalmente immutati gli obiettivi globali delle stesse superpotenze, consistenti in primo luogo nella volontà di influenzare i contesti periferici dello scenario mondiale.114
Le crisi che interessarono il contesto extra‐europeo in tale periodo sono state affrontate soprattutto dallo storico norvegese Odd Arne Westad nel suo
“The global Cold War”.115 In questa analisi della Guerra Fredda, l’autore concentra la propria attenzione sull’interventismo delle due superpotenze nel cosiddetto
“Terzo Mondo”, indagando sulle interconnessioni presenti tra il processo di decolonizzazione e il conflitto bipolare e dando particolare spazio al periodo degli anni ’70. In tale fase si riscontra – secondo Westad – il picco dell’interventismo di Stati Uniti e Unione Sovietica nei contesti extra‐europei e, al contempo, la
elevatissima circa una possibile catastrofe nucleare ed era difficile riuscire ad analizzare le reali intenzioni dell’avversario, spesso nascoste dietro un’ostentata retorica di stampo aggressivo.
113 Per un approfondimento di quest’ultimo tema si rimanda qui a: Giordana Pulcini, L’opposizione al SALT II: controllo degli armamenti e politica interna negli Stati Uniti, 1974‐1980 (Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, Facoltà di Scienze Politiche, 2008).
114 R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.116.
115 Odd Arne Westad, The global Cold War. Third World interventions and the making of our times (New York: Cambridge University Press, 2005).
complessa evoluzione delle relazioni bipolari tra fasi di distensione e di confronto.
Proprio mentre in Europa si registrava una relativa fase di pace e stabilità, le superpotenze furono infatti estremamente attive in molte zone periferiche del sistema internazionale, nel tentativo di sperimentare e dimostrare una globale applicabilità delle rispettive ideologie, per accelerare un supposto “naturale corso storico” che avrebbe dovuto infine sancire la vittoria del proprio sistema politico‐
economico‐sociale.116 Gli stati di nuova indipendenza divennero pertanto un terreno fertile per questa competizione bipolare avente per oggetto la presunta universalità di un sistema o dell’altro. Westad sostiene come tale politica non solo ebbe conseguenze tragiche nei molteplici contesti locali coinvolti, ma finì per produrre anche un significativo indebolimento di entrambe le superpotenze.117 Reinterpretando dunque la Guerra Fredda in modo diverso dalla tradizionale lettura euro‐centrica, l’autore accorda inoltre una grande rilevanza ‐ nella sua analisi sull’avvio della distensione ‐ alla debacle statunitense in Indocina.118 Westad ritiene infatti che il nuovo approccio perseguito in politica estera dall’Amministrazione Nixon fosse dovuto in primo luogo all’impatto della Guerra del Vietnam sugli Stati Uniti in termini di crisi economica e problemi di consenso interno e internazionale.
L’autore sottolinea pertanto come le superpotenze non intesero mai la distensione come un processo che avesse dovuto implicare una loro astensione
116 O. A. Westad, The global Cold War, cit., p.4; Per quanto riguarda la Guerra Fredda e le sue ripercussioni nel cosiddetto “Terzo Mondo”, con un’attenzione particolare agli anni della distensione, si deve qui menzionare anche l’articolo: Michael E. Latham, “The Cold War in the Third World, 1963‐1975”, in Melvyn P. Leffler and Odd Arne Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War (Cambridge University Press, 2010), vol. 2 pp.258‐280. Latham evidenzia come durante tale periodo il processo di attenuazione della tensione tra le due superpotenze paradossalmente rese più probabili e dunque frequenti i conflitti negli scenari periferici e comunque extra‐europei.
117 O. A. Westad, The global Cold War, cit., p.7; 396. Westad sottolinea come entrambe le ideologie delle superpotenze, nonostante fossero in origine anti‐coloniali, divennero invece parte di un disegno improntato alla dominazione, con ripercussioni pesanti sia per i paesi in via di sviluppo sia per gli stessi Stati Uniti e Unione Sovietica.
118 O. A. Westad, The global Cold War, cit., p.194.
nei confronti di interventi politico‐militari in varie parti del mondo. Se gli Stati Uniti abbracciarono – seppure parzialmente ‐ per un periodo l’idea di una
“indivisibilità della distensione”, la leadership di Mosca considerò invece costantemente separati il contesto europeo e quello extra‐europeo nella formulazione della propria politica estera.119 Nell’interpretazione di Westad la distensione finì poi per collassare per il combinato effetto della sovraesposizione internazionale del fragile regime sovietico (si pensi alle crisi africane della seconda metà degli anni ’70 e all’invasione dell’Afghanistan del 1979) e dell’inesorabile deterioramento del consenso interno negli Stati Uniti nei confronti della politica avviata che era stata avviata da Nixon e Kissinger.
La crisi della distensione è analizzata nei suoi molteplici aspetti nel volume curato da Leopoldo Nuti “The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev, 1975‐1985”, che nasce dai lavori di un convegno internazionale organizzato dal CIMA (Centro Interuniversitario “Machiavelli” per lo studio della Guerra Fredda) nel 2006 ad Artimino (Firenze).120 Mettendo insieme i contributi di numerosi studiosi, il libro esamina la fase della crisi della distensione allontanandosi dal tradizionale paradigma bipolare che si focalizza eccessivamente sul ruolo delle superpotenze, per accordare invece un peso maggiore alle scelte degli attori europei. Da tale volume collettaneo si evince come la distensione europea si dimostrò solida e duratura e pertanto fu in una certa misura indipendente dal percorso avviato invece a livello di superpotenze, che entrò irrimediabilmente in crisi nella seconda metà degli anni ’70 e fu ripreso solo con l’avvento della leadership di Gorbachev in Unione Sovietica nel 1985.
119 Robert Litwak definisce tale atteggiamento come “the Soviet ‘compartmentalizated’ view of détente”, R. S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine, cit., p.111.
120 Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London; New York: Routledge, 2008)
CONCLUSIONI
Non è semplice provare a definire la distensione nel quadro generale delle relazioni internazionali durante la Guerra Fredda, né valutarne l’impatto sul contesto storico del periodo successivo. Le possibili definizioni attribuibili alla fase storica della distensione sono infatti numerose e il dibattito storiografico è in tal senso molto vivace, anche grazie all’analisi sempre più approfondita delle fonti d’archivio resesi disponibili che aggiungono nuovi punti di vista e chiavi interpretative alla letteratura esistente.
Nonostante la mole di ricerche al momento prodotte, vi sono molteplici questioni ancora aperte all’interpretazione storiografica e prospettive di ricerca tuttora parzialmente inesplorate. La distensione fu effettivamente una strategia volta alla promozione di una coesistenza pacifica tra i due blocchi e all’accettazione di un contesto globale in cui fossero ammissibili sistemi politico‐
economico‐sociali diversi o fu piuttosto un disegno occidentale per vincere la Guerra Fredda? E’ controverso anche in che misura il processo di distensione abbia presentato vantaggi maggiori per una o l’altra parte della Guerra Fredda. La distensione ha favorito una legittimazione dell’impero comunista, contribuendo a determinare una presunta debolezza del campo occidentale manifestatasi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, o al contrario ha promosso una graduale erosione del sistema sovietico?121 Come si è avuto modo di osservare in questo capitolo, è possibile interpretare la distensione come un processo avente un fondamento essenzialmente conservatore, originato dalla necessità rendere più stabile e pacifico l’ordine esistente, e al contempo individuare
121 Tra gli autori che evidenziano come la distensione rappresenti una questione aperta dal punto di vista dell’interpretazione storiografica, si rimanda qui soprattutto a: M. P. Leffler, For the soul of mankind, cit., p.191; J. M. Hanhimäki, “Détente in Europe, 1962‐1975”, cit., pp.198‐212.
peraltro in tale fenomeno anche un impulso straordinariamente innovatore, che contribuì ad aprire la strada ad una trasformazione del sistema internazionale.122 Si ritiene qui in parte condivisibile la definizione di distensione elaborata dallo studioso inglese Michael Cox subito dopo la fine della Guerra Fredda, conflitto che – a giudizio di Cox ‐ sarebbe stato in realtà “meno pericoloso e più controllato di quanto poteva apparire in superficie”.123 Cox interpreta la détente come un periodo di transizione tra due epoche ben delimitate della storia del conflitto Est‐Ovest, ovvero la Guerra Fredda vera e propria (che andrebbe dal dopoguerra alla fine anni ’60) e una “Seconda Guerra Fredda” (che l’autore fa risalire alla fase compresa tra la fine degli anni ’70 e la fine della prima Amministrazione Reagan nel 1984). Per quanto riguarda infine una valutazione del carattere più o meno innovativo o conservatore dei progetti politici che furono alla base della distensione – ferme restando tutte le differenti declinazioni nazionali di cui si è già detto – una felice interpretazione è quella di Jussi Hanhimäki, secondo il quale il fenomeno della détente rappresenta nella sua stessa essenza un paradosso.124 Sebbene infatti alcuni dei suoi principali architetti avessero elaborato tale politica al fine di ottenere una almeno parziale stabilizzazione e normalizzazione del sistema internazionale, la distensione finì per innescare un processo di cambiamento costante che – seppure lentamente e non senza crisi ricorrenti – contribuì ad esiti rivoluzionari che andavano ben oltre la capacità di immaginazione dei suoi stessi protagonisti.
122 Per quanto riguarda l’individuazione di cesure significative nella storia della Guerra Fredda si rimanda qui anche a: Vojtech Mastny, “Was 1968 a strategic watershed of the Cold War?”, in Diplomatic History, vol. 29, N. 1 (January 2005), pp.149‐177.
123 Michael Cox, “From the Truman Doctrine to the Second Superpower Détente. The Rise and Fall of the Cold War”, in Journal of Peace Research, vol. 27, n.1 (feb.,1990), pp.25‐41.
124 Jussi M. Hanhimäki, “Conservative goals, revolutionary outcomes: the paradox of Détente”, in Cold War History, vol.8, n.4 (2008), pp.503‐512; Jussi M. Hanhimäki, The rise and fall of détente. American foreign policy and the transformation of the Cold War (Washington D.C.: Potomac Books, 2013).
CAPITOLO SECONDO
L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA DELLA REPUBBLICA FEDERALE TEDESCA DAL SECONDO DOPOGUERRA ALLA DISTENSIONE
INTRODUZIONE: LA QUESTIONE TEDESCA NEL SECONDO DOPOGUERRA, “THE DIVIDED CENTER OF EUROPE”1
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al termine della Guerra Fredda la “questione tedesca” rappresentò costantemente negli anni un tema dominante nel dibattito politico‐diplomatico internazionale. La Germania, anche se aveva perso tragicamente la guerra, rimaneva infatti l’epicentro della politica europea.2 Il tradizionale interesse diffuso sia in Europa che negli Stati Uniti (e condiviso peraltro dai sovietici) a prevenire l’emergere di una forte potenza egemone nel continente europeo e l’impossibilità per le potenze vincitrici di trovare un accordo sulla sistemazione da dare alla Germania sconfitta portarono alla soluzione di una “provvisoria” partizione del territorio tedesco. Tale assetto finì dunque per rappresentare la conseguenza naturale e il simbolo stesso dello smembramento della coalizione che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale.
La divisione dello stato responsabile di due conflitti mondiali negli ultimi cinquanta anni sembrava del resto essere conveniente ad entrambi gli schieramenti che si stavano costituendo nel dopoguerra. Ambedue infatti consideravano pericolosa una Germania unita e indipendente con un’incerta
1 Timothy Garton Ash, In Europe’s name: Germany and the divided continent (London: Vintage, 1994), p.14.
2 Wolfram F. Hanrieder, Germany, America, Europe. Forty years of German Foreign Policy, (New Haven; London: Yale University Press, 1989), p.2.
collocazione internazionale ed una possibile tentazione di attuare una politica oscillante tra Est e Ovest (la cosiddetta “Schaukelpolitik”).3 La Germania nel dopoguerra era pertanto divenuta essa stessa l’emblema e la concretizzazione più evidente di quella divisione del mondo in due blocchi che caratterizzò la seconda metà del ventesimo secolo e dei drammatici costi umani imposti dal conflitto Est‐
Ovest.4 L’importanza centrale della questione tedesca nel generale contesto internazionale derivava ‐ oltre che dalla condizione della Germania quale potenza sconfitta e occupata ‐ soprattutto dalla sua particolare posizione geopolitica, che comportava persino che il confine tra i due blocchi della Guerra Fredda dividesse in modo quasi impermeabile anche lo stesso suolo tedesco, rendendolo un
“centro diviso”.5
Dopo una fase di occupazione congiunta da parte delle Quattro Potenze vincitrici, la mancanza di un accordo tra queste relativo alla sistemazione da dare al territorio tedesco ne rese inevitabile la sua stessa divisione, che ‐ da provvisoria organizzazione post‐bellica quale avrebbe dovuto essere ‐ si trasformò in breve tempo in un assetto di fatto permanente.6 La costituzione nel dopoguerra di due zone di amministrazione separate ‐ una occidentale e una sovietica (in realtà quella occidentale nasceva dalla fusione delle tre zone di controllo precedentemente assegnate a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) ‐ avviò infatti un processo che condusse nel 1949 alla nascita di due diverse entità statali: la Repubblica Federale Tedesca (Bundesrepublik Deutschland, o BRD), controllata
3 Gerald R. Hughes, Britain, Germany and the Cold War: the search for a European Détente (London; New York: Routledge, 2007), p.36.
4 Helga Haftendorn, Coming of age. German foreign policy since 1945 (Lanham: Rowman &
Littlefield, 2006).
5 T. G. Ash, In Europe’s name, cit., p.14.
6 Sul concetto di “inevitabilità” della divisione tedesca si veda: Marc Trachtenberg, A Constructed Peace. The making of the European settlement 1945‐1963 (Princeton: Princeton University Press, 1999), p.59.
dagli occidentali e con Bonn per capitale, e la Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik, o DDR), satellite di Mosca, che elesse invece Berlino Est a propria capitale. A partire da quella data dunque la comunità internazionale comprendeva due distinti stati tedeschi e la “questione tedesca”
sembrava essere temporaneamente congelata. Tuttavia il contesto politico non si poteva definire in alcun modo stabile, dato che mancava una comune accettazione dello status quo proprio da parte delle due Germanie.7
Il contenuto del dibattito mirante a trovare una soluzione alla più spinosa questione rimasta aperta con la fine della guerra, ossia la sistemazione da dare al territorio rientrante negli ex‐confini della Germania nazista, era perciò il cuore stesso della “questione europea” e dei tentativi di costituire nel dopoguerra uno stabile e duraturo ordine di pace nel continente. Questa intersezione evidente tra questione tedesca e questione europea diede poi modo alla classe politica della Germania occidentale (sia quella di ispirazione conservatrice sia quella socialdemocratica) di cercare spesso di presentare i propri interessi nazionali come invece interessi generali dell’Europa, nell’intento di aumentarne la rilevanza internazionale.8
La Germania del dopoguerra era del resto una nazione sconfitta moralmente e politicamente che – proprio a causa dell’eredità di un passato drammatico ‐ aveva perso del tutto la propria integrità territoriale e la propria
7 M. Trachtenberg, A Constructed Peace, cit., p.95.
8 T. G. Ash, In Europe’s name, cit., pp.19‐20; 24. L’intenzionale presentazione degli interessi tedeschi quali interessi essenzialmente europei, attuata dalla maggioranza della classe politica della BRD, è un’interpretazione formulata dal giornalista e studioso britannico Timothy Garton Ash, concetto che compare proprio nel titolo del suo volume sulla storia della Germania occidentale. Ash riconosce che il fenomeno dell’abuso della proclamazione di interessi europei per avallare più incisivamente quelli nazionali sia comune in realtà alla storia contemporanea di molti stati‐nazione europei, ma sostiene che esso acquisti una rilevanza particolare per quanto riguarda il caso tedesco. Scrive Ash a pag.20: “That the German and European questions were very closely related is obvious. That there was such a sublime harmony of interests is not. (…) There was a strong element of using “Europe”‐ both semantically and diplomatically – as a means to the achievement of national ends.”
sovranità. Il percorso della BRD mirante alla riconquista di una dignità nazionale e di un’autonomia istituzionale esigeva dunque uno stretto inquadramento della politica tedesco‐occidentale in un contesto più ampio, europeo in primo luogo e poi transatlantico.9 La multilateralizzazione della questione tedesca poteva infatti rendere possibile sia una ripresa tedesca sia il contemporaneo controllo su tale processo.10 Gli accordi politici e militari che legarono la Repubblica Federale Tedesca all’Alleanza Atlantica tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 furono pertanto la precondizione della ricostruzione della Germania occidentale (dal punto di vista politico ed economico) e della restaurazione di una sua sovranità.11 I governi di Bonn infatti furono essenzialmente impegnati, soprattutto nella fase che va dalla costituzione della BRD (1949) fino al 1955, nella battaglia per ottenere una riabilitazione morale e per riconquistare la sovranità e l’indipendenza necessarie a potersi confrontare in modo paritario con gli altri stati della comunità internazionale.12
Il fatto stesso che il problema tedesco fosse in un certo senso sia la causa sia il prodotto della Guerra Fredda faceva sì che questo rimanesse sempre inestricabilmente connesso alle dinamiche e agli eventi internazionali di ogni particolare fase storica.13 Lo studioso tedesco Wolfram Hanrieder, per analizzare
9 Oliver Bange, Gottfried Niedhart, “Die “Relikte der Nachkriegszeit“ beseitigen. Ostpolitik in der zweiten außenpolitischen Formationsphase der Bundesrepublik Deutschland und ihre internationalen Rahmenbedingungen 1969‐1971”, in Archiv für Sozialgeschichte, vol.44 (2004), pp.415‐448.
10 H. W. Brands, “The United States, Germany and the multilateralization of international relations”, in Detlef Junker (ed.), The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), p.50. Sullo stesso punto anche H. Haftendorn, Coming of age, cit., p.6.
11 Per quanto riguarda la funzione svolta in particolar modo dall’integrazione europea nell’ambito del percorso di riabilitazione politica della Repubblica Federale Tedesca, si veda: Piers Ludlow, “European integration and the Cold War”, in Melvyn P. Leffler, Odd Arne Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War (Cambridge University Press, 2010) vol. 2, pp.179‐197.
12 H. Haftendorn, Coming of age, cit., p.3.
13 W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., p.2.