Alcuni autori, tra i quali soprattutto Lawrence Freedman e McGeorge Bundy, evidenziano come – ai fini di una comprensione del fenomeno della détente – sia assolutamente centrale l’analisi della situazione strategica di quel periodo.9 L’enorme crescita della capacità nucleare di Stati Uniti e Unione Sovietica e il raggiungimento di un parità strategica da parte dell’URSS indussero entrambe le superpotenze a ricercare l’avvio di un dialogo politico mirante ad evitare lo scoppio di un conflitto che – a causa dei progressi sopraggiunti nel campo militare e tecnologico ‐ sarebbe stato tremendamente distruttivo per ognuna delle parti in causa.
Da questo punto di vista la Crisi dei missili di Cuba del 1962 rappresenta indubbiamente uno spartiacque nella Guerra Fredda, poiché rese evidenti i rischi
überleben?”, in Europa Archiv, Folge 10/1971, pp.341‐353, che ripropone in modo integrale un intervento tenuto da Brosio presso la Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) di Bonn.
9 McGeorge Bundy, Danger and survival. Choices about the bomb in the first fifty years (New York;
Toronto: Random House, 1988); Lawrence Freedman, The evolution of nuclear strategy (London: The International Institute for Strategic Studies, Macmillan Press, 1989).
smisurati che derivavano dalla diffusione degli armamenti nucleari e la potenziale instabilità internazionale insita nella mancanza di una comunicazione tra i due blocchi su tali temi. Uno dei principali elementi del processo di distensione è infatti quello della ricerca di un modus vivendi tra i due campi avversari, che doveva passare innanzitutto per degli accordi relativi alla gestione degli enormi arsenali di cui disponevano le due alleanze.10 Il tema del controllo degli armamenti divenne così il primo oggetto del dialogo tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica a partire dal periodo immediatamente successivo alla Crisi di Cuba, come testimonia la firma del Limited Test Ban Treaty (LTBT) nel 1963.11
Un contributo fondamentale per analizzare le radici della distensione è stato dato poi dallo storico americano Marc Trachtenberg. Nel suo volume “A constructed peace”12 egli indaga il periodo compreso tra l’immediato dopoguerra e il 1963, anno di inizio di un – seppure ancora timido e parziale – disgelo nelle relazioni internazionali. Secondo Trachtenberg il nodo fondamentale del conflitto Est‐Ovest risiedeva nella questione tedesca e specificatamente nella controversia inerente lo status della Germania occidentale relativamente alla dimensione nucleare, di cui si parlerà diffusamente nel quarto capitolo di questa ricerca.
Anche nell’interpretazione del periodo successivo e dunque dell’arco temporale inteso comunemente come di distensione, Trachtenberg sostiene la centralità dell’elemento nucleare nelle relazioni internazionali.13 La parte dedicata alla
10 Su tale aspetto si veda: Hal Brands, “Progress unseen: U.S. Arms Control policy and the origins of Détente, 1963‐1968”, in Diplomatic History, vol.30, n.2 (April 2006), pp.253‐285.
11 Si veda a tal proposito il volume di Marilena Gala che ha per oggetto proprio il Trattato internazionale per la messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (LTBT o PTBT), stipulato nel 1963 a Mosca su proposta di Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna: Marilena Gala, Il paradosso nucleare. Il Limited Test Ban Treaty come primo passo verso la distensione (Firenze: Polistampa, 2002).
12 Marc Trachtenberg, A constructed peace. The making of the European settlement 1945‐1963 (Princeton: Princeton University Press, 1999)
13 Tale centralità della questione nucleare nella fase di distensione della Guerra Fredda è sottolineata anche in: Hal Brands, “Non‐Proliferation and the dynamics of the Middle Cold War: the Superpowers, the MLF, and the NPT”, in Cold War History, vol.7, n.3 (2007), pp.389‐423.
détente all’interno del suo volume “The Cold War and after”14 si concentra infatti essenzialmente sul modo in cui la NATO si trovò a dover affrontare una vera e propria crisi intorno alla questione nucleare e su come il campo occidentale riuscì, insieme al Patto di Varsavia, a dare vita ad un sistema solo apparentemente stabile durante gli anni 1963‐1975.
Per quanto riguarda lo studio delle origini della distensione sono poi fondamentali due pubblicazioni alquanto diverse ma in un certo senso collegate tra loro: “NATO and the nuclear revolution. A crisis of credibility. 1966‐1967” di Helga Haftendorn e “The emergence of Détente in Europe. Brandt, Kennedy and the formation of Ostpolitik” di Arne Hofmann.15 Dal punto di vista della presente ricerca, questi due contributi possono essere definiti in una certa misura
“complementari” tra loro, in quanto – pur analizzando entrambi le origini della distensione e focalizzandosi tutti e due sul contesto occidentale ‐ approfondiscono aspetti totalmente differenti: la ricerca di Haftendorn tratta infatti l’argomento dal punto di vista strategico‐militare e quella di Hofmann affronta invece il tema da una prospettiva di storia delle idee politiche, dando risalto alla dimensione intellettuale.
Il volume della Haftendorn si focalizza dunque sugli aspetti strategico‐
militari che condussero l’Alleanza Atlantica ad intraprendere, a partire dalla fine degli anni ’60, una generale linea di distensione nei confronti del blocco comunista.16 La prima formulazione ufficiale del concetto di détente si trova
14 Marc Trachtenberg, The Cold War and after. History, theory, and the logic of International Politics (Princeton, New Jersey: Princeton University Press, 2012), cap.6, pp.154‐182.
15 Helga Haftendorn, NATO and the nuclear revolution. A crisis of credibility, 1966‐1967 (New York: Oxford University Press, 1996); Arne Hofmann, The emergence of Détente in Europe. Brandt, Kennedy and the formation of Ostpolitik (New York: Routledge, 2007).
16 Per quanto riguarda le complesse trasformazioni che investirono la NATO in questa fase della Guerra Fredda si rimanda qui anche a quest’articolo di Andreas Wenger e al volume collettaneo dedicato a tale tema curato tra gli altri dallo stesso Wenger: Andreas Wenger, “Crisis and opportunity: NATO’s transformation and the multilateralization of détente, 1966‐1968”, in Journal of Cold War Studies, vol.6,
infatti nel “Rapporto Harmel”, un documento prodotto da un gruppo di studio interno alla NATO nel 1967.17 Tale rapporto vide la luce dopo un ampio dibattito sul futuro dell’Alleanza Atlantica e propose due principali compiti per l’Alleanza: il mantenimento della sicurezza occidentale e l’avvio di una politica di distensione.
Nella seconda metà degli anni ’60 la percezione di una diminuzione della minaccia sovietica rendeva infatti possibile ed auspicabile ‐ secondo gli autori del Report ‐ la sperimentazione di una cooperazione politico‐economico‐culturale con il campo nemico.18 L’espansione dei compiti della NATO con la formulazione del concetto di “distensione politica”, da affiancare alla tradizionale deterrenza militare, evidenziava la volontà occidentale di avviare un dialogo tra i due blocchi, anche al fine di evitare pericolosi errori di percezione delle intenzioni degli avversari che potevano condurre ad incontrollabili escalations militari.19 Il Rapporto Harmel si pose dunque come uno spartiacque nella storia dell’Alleanza Atlantica,20 stabilendo la possibile complementarietà dei principi di difesa e di distensione. Sebbene questa prima formulazione occidentale del concetto di détente fosse vaga nell’indicare le modalità con le quali si sarebbe dovuta attuare la stessa distensione, il Rapporto Harmel rappresentò tuttavia un utile riferimento generale per lo sviluppo delle varie politiche di distensione nel decennio
n.1 (Winter 2004), pp.22‐74; Andreas Wenger, Christian Neunlist, Anna Locher (eds.), Transforming NATO in the Cold War: challenges beyond deterrence in the 1960s (USA and Canada: Routledge, 2007).
17 Un ampio spazio all’analisi del Rapporto Harmel viene dato in questa ricerca nel terzo capitolo (paragrafo 3).
18 H. Haftendorn, NATO and the nuclear revolution, cit., pp.397‐402.
19 H. Haftendorn, NATO and the nuclear revolution, cit., p.401.
20 Lawrence S. Kaplan, The long entanglement. NATO’s first fifty years (Westport: Praeger, 1999), p.115. Secondo la periodizzazione di Kaplan, il Rapporto Harmel si pone proprio all’inizio della fase di
“seconda generazione” della NATO, che corrisponderebbe agli anni 1968‐1989. In tale periodo l’elevata conflittualità Est‐Ovest della “prima generazione” (che ‐ a suo avviso ‐ terminava nel 1967) sembrava essersi progressivamente attenuata e i maggiori problemi che la NATO si trovava a dover affrontare erano, secondo Kaplan, le relazioni interne all’Alleanza Atlantica stessa.
successivo.21 Le discussioni interne alla NATO relative al Rapporto Harmel procedettero parallelamente a quelle concernenti il nuovo concetto strategico dell’Alleanza.22
Queste ultime si erano rese necessarie in seguito alla crescente crisi di credibilità della strategia NATO di “Rappresaglia Massiccia”, che stava dando luogo ai timori europei di un decoupling nella sicurezza transatlantica e ad un calo di coesione interna (reso evidente dalla scelta francese di abbandonare le strutture militari integrate dell’Alleanza nel 1966).23 Il raggiungimento della parità nucleare sovietica aveva indebolito la credibilità della deterrenza statunitense e la fiducia degli europei nella relativa garanzia di protezione degli Stati Uniti. I progressi tecnologico‐militari dell’Unione Sovietica determinavano infatti una sopraggiunta vulnerabilità per gli USA e dunque il pericolo di una rappresaglia che si sarebbe potuta ripercuotere sullo stesso territorio statunitense, rischio che gli Stati Uniti erano comprensibilmente restii a correre e che fu alla base della ricerca di una dottrina strategica alternativa da parte dell’Amministrazione americana. La strategica di Rappresaglia Massiccia venne pertanto sostituita ufficialmente nel 1967 da quella di “Risposta Flessibile”, che sembrava poter essere maggiormente adatta a rinsaldare il legame transatlantico nel contesto strategico e militare della fine degli anni ’60.24
21 Helga Haftendorn, “The Harmel Report and its impact on German Ostpolitik”, in W. Loth, G. H.
Soutou (eds.), The Making of Détente, cit., p.109.
22 A questo argomento è dedicata un parte importante di questa ricerca, nel capitolo terzo (paragrafo 2).
23 H. Haftendorn, NATO and the nuclear revolution, cit., pp.24 e segg; sul caso della Francia si vedano: Frédéric Bozo, La France et l’OTAN: de la Guerre froide au nouvel ordre européen (Paris: Masson, 1991); Laurent Cesari, “France and NATO from 1966 to 1976”, in Wilfried Loth, Georges‐Henri Soutou (eds.), The making of Détente. Eastern and Western Europe in the Cold War. 1965‐1975 (London; New York: Routledge, 2008), pp.91‐102.
24 Per quanto riguarda la dottrina strategica della Risposta Flessibile si veda soprattutto: Jane E.
Stromseth, The origins of flexible response. NATO’s debate over strategy in the 1960s (London: Macmillan Press, 1988).
Secondo Helga Haftendorn nel 1966‐1967 l’Alleanza Atlantica riuscì pertanto a superare con successo una delle sue crisi più profonde, dalla quale uscì rinnovata negli intenti e rafforzata nella propria coesione. In particolare fu riaffermata la credibilità della leadership degli Stati Uniti che, nonostante il crescente multipolarismo (manifestatosi in modo evidente con le indipendenti politiche di de Gaulle e di Brandt), riuscivano a presentarsi ancora come coloro che potevano provvedere un’affidabile e necessaria garanzia per i propri alleati europei. Per quanto riguarda gli europei, essi dalla fine degli anni ’60 cominciarono ad ottenere un maggior peso negoziale all’interno dell’Alleanza Atlantica e ad essere più influenti nella definizione delle nuove strategie collettive (attraverso forum negoziali come il Nuclear Planning Group).25 L’autrice sostiene infatti che nel periodo della distensione il sistema di sicurezza occidentale cominciò ad evolversi in direzione di un regime multipolare e cooperativo che rendeva più tollerabili le asimmetrie interne esistenti tra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale.26
Un punto di vista diverso in merito a quest’aspetto lo fornisce invece Lawrence Kaplan nel suo volume “The long entanglement. NATO’s first fifty years”.27 In tale pubblicazione Kaplan mette maggiormente in risalto gli aspetti di relativa conflittualità che ‐ nonostante la felice risoluzione della crisi della NATO del 1966‐1967 ‐ caratterizzarono i rapporti interni all’Alleanza Atlantica durante gli anni ’70 (tra i quali spiccavano la spinosa questione del “burden sharing”,28 la
25 Di questo organo si parlerà diffusamente nel capitolo dedicato al nucleare (capitolo quarto).
26 H. Haftendorn, NATO and the nuclear revolution, cit., p.411.
27 Lawrence S. Kaplan, The long entanglement. NATO’s first fifty years (Westport: Praeger, 1999)
28 Per “burden‐sharing” si intende la ripartizione degli oneri relativi alla sicurezza e alla difesa dell’Alleanza Atlantica.
competizione economica29 e la critica europea alla gestione statunitense del conflitto indocinese).30
Tornando a Helga Haftendorn, mentre la sua ricerca ha analizzato dunque le origini strategico‐militari della distensione occidentale, il già citato volume di Arne Hofmann “The emergence of Détente in Europe” si focalizza invece sulla dimensione intellettuale della stessa distensione.31 L’autore individua le radici della distensione nella concettualizzazione politica di due protagonisti di spicco degli anni ’60: il presidente americano John Fitzgerald Kennedy e il Cancelliere tedesco Willy Brandt. L’Ostpolitik del socialdemocratico Brandt fu il principale motore della distensione europea e Hofmann ne approfondisce lo studio cercando di accordare il giusto peso alle influenze esterne che la stessa politica estera tedesco‐occidentale subì. L’abbandono da parte di Brandt della rigidità dei precedenti governi tedesco‐occidentali e la sua disponibilità a fondare la propria innovativa politica estera su un’accettazione provvisoria dello status quo furono le chiavi del progressivo allentamento delle tensioni nel continente europeo.
L’approccio più pragmatico e flessibile di Brandt nei confronti della questione tedesca, unito ad una carica ideale nel proporre sviluppi radicali da realizzare
29 Sulla “sfida” economica europea all’interno del contesto transatlantico e le relative difficoltà nell’Alleanza Atlantica sotto tale punto di vista si vedano soprattutto: Geir Lundestad, “Empire” by integration. The United States and European Integration, 1945‐1997 (Oxford University Press, 1998), pp.82 e segg.; Fiorella Favino, “Washington’s economic diplomacy and the reconstruction of the US leadership”, in Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London;
New York: Routledge, 2008), pp.165‐176; Duccio Basosi, “Helsinki and Rambouillet. US attitudes towards trade and security during the early CSCE process, 1972‐1975“, in Andreas Wenger, Vojtech Mastny, Christian Neunlist (eds.), Origins of the European Security System. The Helsinki process revisited, 1965‐
1975 (New York: Routledge, 2008), pp.222‐236; Maria Eleonora Guasconi, “Europe and the EMS challenge.
Old and new forms of European integration in the ‘70s”, in L. Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe, cit., pp.177‐189.
30 L. S. Kaplan, The long entanglement, cit., pp.149‐160. Kaplan scrive a p.159: “il fattore più importante per mantenere la NATO compatta fu in quel periodo l’assenza stessa di alternative possibili”.
31 Arne Hofmann, The emergence of Détente in Europe. Brandt, Kennedy and the formation of Ostpolitik (New York: Routledge, 2007)
però in un futuro più lontano, trovavano somiglianze nella politica del Presidente democratico degli Stati Uniti John Kennedy.
Il rapporto tra i due leader – entrambi riconducibili ad un progressismo di sinistra ‐ non fu tuttavia sempre caratterizzato da una comunanza di intenti, anzi fu contrassegnato anche da fasi di tensione e disaccordo, soprattutto durante la crisi segnata dalla costruzione del Muro di Berlino nel 1961. In tale occasione Brandt, sindaco di Berlino ovest, si sarebbe aspettato una posizione statunitense più forte e critica nei confronti del campo comunista e invece dovette amaramente constatare l’assenza di reazioni occidentali drastiche e un’accettazione quasi passiva della nuova “sistemazione” della questione tedesca manifestata da parte degli alleati di Bonn. La percezione stessa del Muro divergeva infatti sostanzialmente, rappresentando una “crisi” per Brandt e invece una “soluzione” provvisoriamente accettabile dal punto di vista dell’Amministrazione Kennedy.32 I primi anni ’60 e soprattutto la crisi di Berlino del 1961 furono dunque fondamentali per l’impostazione di un’Ostpolitik tedesca che doveva necessariamente avere il suo punto di partenza nell’accettazione dello status quo, lavorando nello stesso tempo per un suo futuro superamento.33 La constatazione che si poteva trarre dalla reazione statunitense alla crisi del Muro di Berlino era infatti che gli Stati Uniti non intendevano spingersi fino a sfidare lo status quo europeo e la sfera di influenza sovietica e rischiare in tal modo una guerra nucleare che Kennedy non riteneva improbabile.
32 A. Hofmann, The emergence of Détente in Europe, cit., p.37.
33 Sulla crisi di Berlino del 1961 si veda soprattutto: Hope M. Harrison, Driving the Soviets up the Wall. Soviet‐East German relations, 1953‐1961 (Princeton: Princeton University Press, 2003); focalizzato proprio sul rapporto tra la crisi del Muro e la nascita della nuova Ostpolitik di Brandt è poi l’articolo della stessa autrice: Hope M. Harrison, “The Berlin Wall, Ostpolitik and Détente”, in David C. Geyer, Bernd Schaefer (eds.), American Détente and German Ostpolitik, 1969‐1972 (German Historical Institute, Washington D.C., Bulletin n. 34 – Supplement 1, 2004), pp.5‐18.
La politica di distensione ‐ sia nella “versione” di Washington che nella declinazione tedesco‐occidentale ‐ si basò pertanto su un progetto graduale di cambiamenti, implicante però un inevitabile accordo sullo status quo del presente. Hofmann, nella sua analisi, rifiuta entrambi i paradigmi tradizionali che interpretano l’Ostpolitik come adozione della politica kennediana e adattamento dunque alla linea degli alleati, o invece come una politica già coerentemente sviluppata negli anni ’50 e pertanto non influenzata dalla successiva concettualizzazione del presidente americano. La strategia di distensione della Germania occidentale (Entspannungspolitik) fu infatti ‐ a suo avviso ‐ un processo dalle radici lontane ed eminentemente tedesche, che fu tuttavia influenzato nella propria evoluzione dalla crisi del Muro di Berlino e dalla relativa politica statunitense.34
In conclusione, l’Ostpolitik di Bonn si basava proprio sulla necessità di adattare la propria politica estera ad un contesto mutato, cercando di porsi a livello internazionale come un attore ormai maturo e indipendente, che comunque intendeva preservare un rapporto molto stretto con gli Stati Uniti.
All’inizio degli anni ’60, durante la breve presidenza Kennedy, Brandt perfezionò dunque la propria concezione politica, arrivando alla fondamentale conclusione che i progressi nel campo della questione tedesca si sarebbero potuti attuare solo nell’ambito di una più generale distensione nelle relazioni bipolari. Il timore di
34 A. Hofmann, The emergence of Détente in Europe, cit., p.6. La letteratura relativa ad un confronto tra le peculiarità della Entspannungspolitik di Bonn e la distensione perseguita dagli Stati Uniti è piuttosto ampia, su tale tema si vedano soprattutto: Mary Elise Sarotte, “The frailties of grand strategies.
A comparison of détente and Ostpolitik”, in Fredrik Logevall and Andrew Preston (eds.), Nixon in the world. American foreign relations, 1969‐1977 (Oxford; New York: Oxford University Press, 2008), pp.146‐
163; David C. Geyer, Bernd Schaefer (eds.), American Détente and German Ostpolitik, 1969‐1972 (German Historical Institute, Washington D.C., Bulletin n. 34 – Supplement 1, 2004); Werner Link, “Ostpolitik:
Détente German‐style and adapting to America”, in Detlef Junker (ed.), The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), pp.33‐39; Gottfried Niedhart, “U.S. détente and West German Ostpolitik: parallels and frictions“, in Matthias Schulz, Thomas Alan Schwartz (eds.), The strained Alliance. U.S.‐European relations from Nixon to Carter (German Historical Institute of Washington D.C.; Cambridge, New York: Cambridge University Press:
2010), pp.23‐44.
una gestione esclusiva delle superpotenze della nuova fase di relazioni internazionali convinse nello stesso tempo Brandt della necessità di partecipare attivamente alla détente, senza subirla. Se infatti si voleva che la distensione favorisse la causa tedesca, secondo Brandt e il suo assistente Egon Bahr, i tedeschi stessi avrebbero dovuto contribuire a portarla avanti.35 Sotto la spinta delle idee elaborate soprattutto da Brandt e da Bahr, la Repubblica Federale Tedesca passò pertanto in breve tempo dall’essere uno dei maggiori ostacoli alla distensione a rappresentarne il più convinto protagonista.36
Secondo tale punto di vista, la modalità per avviare una nuova fase di relazioni internazionali avrebbe dovuto essere la pratica negoziale, con la quale si doveva cercare di stabilire una base di interessi comuni per impostare un modus vivendi con gli avversari. La sensibilità di Brandt nei confronti delle condizioni di vita di chi subiva maggiormente la Guerra Fredda (mostrata già in occasione del raggiungimento dell’Accordo sulle visite intratedesche del Natale 1963)37 e il suo proposito di porre i diritti umani al centro della propria agenda politica anticiparono inoltre il concetto di “people first” inserito poi dagli stati della CE nel Terzo Paniere di Helsinki, di cui si parlerà diffusamente nel capitolo quinto.38 Le
35 A. Hofmann, The emergence of Détente in Europe, cit., p. 74.
36 Sulla Ostpolitik di Bonn si vedano soprattutto: Mary Elise Sarotte, Dealing with the devil. East Germany, Détente, and Ostpolitik, 1969‐1973 (Chapel Hill; London: The University of North Carolina Press, 2001), che si focalizza sui trattati stipulati dal governo Brandt durante i primi anni ’70 (i cosiddetti
“Ostverträge”); Timothy Garton Ash, In Europe’s name: Germany and the divided continent (London:
Vintage, 1994), che inserisce la questione tedesca all’interno del contesto europeo e internazionale di tutto l’arco temporale della Guerra Fredda e riserva ampio spazio al periodo dell’Ostpolitik.
37 Tale accordo fu il primo stipulato tra l’amministrazione di Berlino Ovest e il governo della DDR.
L’accordo, sottoscritto il 17 dicembre 1963, consentiva ad alcuni cittadini della parte occidentale della città di poter visitare durante il periodo di Natale i propri parenti che risiedevano a Berlino Est. Si vedano a tal proposito: T. G. Ash, In Europe’s name, cit., pp.58 e segg; Helga Haftendorn, Coming of age. German foreign policy since 1945 (Lanham: Rowman & Littlefield, 2006), pp.135‐136.
38 L’approccio generalmente denominato “people first” si riferisce alla convinzione degli stati dell’Europa occidentale che il processo di distensione Est‐Ovest dovesse in primo luogo favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini europei. In quest’ottica i rappresentati dell’Europa occidentale ritenevano che l’incremento di contatti in ogni ambito delle relazioni tra le persone che
radici intellettuali della distensione sono pertanto individuate da Arne Hofmann nell’approccio ‐ dinamico, pragmatico e visionario insieme ‐ di Kennedy e di Brandt, che all’inizio degli anni ’60 cominciarono a preparare, in modo non sempre coincidente, il terreno per gli sviluppi del decennio successivo.39
2. LA DISTENSIONE DELLE SUPERPOTENZE: UN DIALOGO “STATUS QUO ‐