interessi nazionali e desiderosa invece di attuare una nuova politica estera più dinamica, che le consentisse di partecipare alla distensione in modo attivo.60
3. SUPERARE LA DIVISIONE EUROPEA ATTRAVERSO IL SUPERAMENTO DELLA
Ovest ‐ fu molto colpito dai drammatici eventi del 1961 e rimase notevolmente amareggiato dalla (a suo giudizio) tiepida reazione occidentale alla costruzione del Muro di Berlino. La crisi del Muro non provocò infatti una più generale crisi dei rapporti Est‐Ovest e sembrava dunque circoscrivere la drammaticità dell’evento e delle relative conseguenze al solo popolo tedesco e al suo governo.
Le Amministrazioni statunitensi continuavano, dalla fine degli anni ’40, a proclamare il proprio impegno per una riunificazione tedesca ma di fatto non perseguivano una politica coerente a questo scopo e soprattutto non erano disposte a rischiare una guerra sulla questione di Berlino.64 La classe politica della Germania occidentale ne stava contemporaneamente prendendo coscienza manifestando un calo di fiducia nei confronti della superpotenza egemone, da cui si sentiva in parte tradita.65 La crisi di Berlino sembrava dunque essersi risolta in un modo che poteva essere accettabile per gli Stati Uniti66 e gli stati europeo‐
occidentali ma in nessun modo ammissibile per la Repubblica Federale Tedesca.
In questa fase cruciale della storia tedesca una parte della classe politica di Bonn si rese conto pertanto in modo drammatico di quanto gli interessi della Germania occidentale non corrispondessero più con quelli statunitensi.
La crisi di Berlino del 1961 e quella di Cuba del 1962 determinarono peraltro come principale conseguenza la consapevolezza da parte di Stati Uniti e URSS di quanto fosse per essi imprescindibile trovare un qualche modus vivendi con l’avversario, nel segno di una coesistenza pacifica che potesse evitare un loro annientamento reciproco. Come si è già detto, all’inizio degli anni ’60 il rapporto strategico tra le superpotenze consisteva infatti in un “equilibrio del terrore”,
64 La posizione britannica era a tal riguardo molto simile alla linea degli Stati Uniti: G. R. Hughes, Britain, Germany and the Cold War, cit., p.40.
65 M. Trachtenberg, A Constructed Peace, cit., pp.322 e segg.
66 Sono da citare al riguardo le parole del Presidente degli USA John Kennedy pronunciate in occasione della crisi di Berlino: ”It’s not a very nice solution but a wall is a hell of a lot better than a war.”, citate in H. M. Harrison, “The Berlin Wall, Ostpolitik and Détente”, cit., p.5.
ovvero in una situazione in cui gli USA e l’URSS erano entrambi ugualmente vulnerabili rispetto ad un attacco nucleare nemico e rischiavano una mutua distruzione totale (il rischio di devastazione comprendeva in realtà l’intero pianeta). Secondo le superpotenze era necessario di conseguenza cercare di mettere in pratica una co‐gestione dei rischi derivanti dalla proliferazione dei nuovi tipi di armamenti, fermo restando il rispetto delle rispettive sfere d’influenza (confermato ad esempio con i tragici eventi della Primavera di Praga del 1968). Poiché gli Stati Uniti erano impegnati nella difficile situazione indocinese67 e i sovietici invece in un più o meno latente conflitto con la Cina, era per entrambi fondamentale garantirsi soprattutto una stabilità nello status quo europeo, che implicava l’allontanamento ad oltranza di una qualsiasi opzione di riunificazione tedesca.
Dal punto di vista del Partito Socialdemocratico tedesco‐occidentale ‐ all’opposizione fin dalla nascita della BRD ‐ si rendeva dunque necessaria una svolta nella politica estera della Germania occidentale, che permettesse a Bonn di perseguire in modo più determinato i propri interessi anche a costo di esprimere un disaccordo con gli Stati Uniti. Tale svolta era imperniata essenzialmente su un forte realismo, che doveva comportare una progressiva accettazione dello status quo (almeno in via provvisoria) e la presa di distanza da posizioni illusorie fondate su uno sterile formalismo giuridico. Se i successi più evidenti della nuova Ostpolitik ebbero luogo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, gli studiosi sono piuttosto
67 E’ peraltro da notare come la guerra in Vietnam stesse diventando un tema conflittuale nelle relazioni transatlantiche e soprattutto tedesco‐americane: T. Michael Ruddy, “A limit to Solidarity.
Germany, the United States, and the Vietnam War”, in Detlef Junker, (ed.) The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), pp.126‐132.
concordi tuttavia nell’affermare che la gran parte delle caratteristiche fondamentali di tale politica fosse stata elaborata già all’inizio degli anni ’60.68
A partire dai primi anni ’60 infatti una parte piuttosto eterogenea della classe politica della Germania occidentale aveva cominciato a prendere le distanze dalla rigidità della Dottrina Hallstein e a promuovere una linea più flessibile di parziale apertura nei confronti degli stati del Patto di Varsavia.69 Tale approccio fu concretizzato nella cosiddetta “politica dei piccoli passi” o
“Bewegungspolitik” (politica di movimento), attuata sotto il governo Erhard (coalizione CDU‐CSU/FDP) in carica dal 1963 al 1966 e ben accolta dagli alleati anglo‐americani.70 Il cardine di tale approccio era l’utilizzo del grande potere economico di Bonn come leva politica per accrescere il peso contrattuale della Germania occidentale e al contempo promuovere una graduale disgregazione del blocco comunista. L’Ostpolitik di Ludwig Erhard veniva dunque attuata essenzialmente per mezzo di un’apertura commerciale nei confronti del campo comunista, che poteva avere benefici sia per le industrie tedesche che per le deboli economie del Patto di Varsavia.71 Questa politica di “Osthandel”
68 Andreas Wilkens, “New Ostpolitik and European integration. Concept and policies in the Brandt era”, in N. Piers Ludlow (ed.), European Integration and the Cold War. Ostpolitik‐ Westpolitik, 1965‐1973 (New York: Routledge, 2007), pp.67‐80; T. G. Ash, In Europe’s name, cit., p.67. Per un approfondimento sull’elaborazione dell’Ostpolitik e sulle sue radici intellettuali si veda il volume di Arne Hofmann, The emergence of Détente in Europe. Brandt, Kennedy and the formation of Ostpolitik (New York: Routledge, 2007).
69 Sul contributo delle varie forze politiche della BRD alla formazione di una nuova Ostpolitik si veda: O. Bange, “Ostpolitik‐ Etappen und Desiderata der Forschung”, cit., pp.716.729. L’autore sottolinea come si debba cercare di evitare un’interpretazione semplicistica che ‐ per quanto riguarda la Ostpolitik ‐ si focalizzi eccessivamente sulla personalità di Willy Brandt, sostenendo piuttosto come sia necessario indagare anche tutti i molteplici ed eterogenei apporti che contribuirono alla formazione e alla realizzazione di tale “nuova” linea e alla preparazione di un terreno fertile nell’opinione pubblica affinché questa politica potesse venire accolta dalla società tedesco‐occidentale.
70 G. R. Hughes, Britain, Germany and the Cold War, cit., p.115‐117; 131‐133.
71 Benedikt Schoenborn, “Bargaining with the bear: Chancellor Erhard’s bid to buy German reunification, 1963‐1964”, in Cold War History, vol.8, n.1 (2008), pp.23‐53.
(commercio con l’Est con obiettivi anche politici) rimase anche in seguito un aspetto molto importante della Ostpolitik.
Il governo formatosi dalle elezioni del 1966, che vedeva per la prima volta i socialdemocratici partecipare al potere nell’ambito di una Grande Coalizione CDU‐CSU/SPD, continuò in modo molto più deciso a modificare la politica nei confronti del blocco comunista che la BRD aveva intrapreso fino a quel momento.
Determinante ai fini del successo elettorale dell’SPD fu un previo processo di revisione della linea politica dei socialdemocratici, che giunsero ad abbracciare le basi della Westpolitik dei precedenti governi cristiano‐democratici, consistente nella stretta relazione con gli Stati Uniti e nella partecipazione tedesca a pieno titolo nella NATO.72
Willy Brandt, in qualità di Ministro degli Esteri, si impegnò insieme ad Egon Bahr ‐ che lavorava con lui dai tempi del governo di Berlino Ovest ‐ a “pensare l’impensabile per rendere possibile l’impossibile”.73 L’idea era quella di attuare una nuova Ostpolitik che permettesse alla Germania occidentale di uscire dall’isolamento politico e di farsi invece promotrice in prima linea di una distensione europea, che avrebbe favorito in primo luogo la stessa BRD. La Grande Coalizione – guidata dal Cancelliere della CDU Kurt Kiesinger e in carica dal 1966 al 1969 ‐ era tuttavia troppo divisa dal punto di vista della politica estera, cercando un difficile equilibrio tra conservatori e socialdemocratici che non le consentiva azioni realmente innovative. Il suo operato rimase di conseguenza
72 Il Partito Socialdemocratico ‐ in occasione del congresso di Bad Godesberg del 1959 ‐ aveva abbandonato ogni legame con il comunismo marxista, trasformandosi in un moderno partito socialdemocratico progressista di stampo nord‐europeo, pronto per assumere responsabilmente incarichi governativi in Germania occidentale.
73 Carsten Tessmer, ““Thinking the Unthinkable” to “Make the Impossible Possible”: Ostpolitik, Intra‐German Policy, and the Moscow Treaty, 1969‐1970”, in David C. Geyer, Bernd Schaefer (eds.), American Détente and German Ostpolitik, 1969‐1972 (German Historical Institute, Washington D.C., Bulletin n. 34 – Supplement 1, 2004), pp.53‐66.
inevitabilmente legato alle proprie caratteristiche di governo di transizione, mentre i maggiori risultati dell’Ostpolitik furono raggiunti sotto il successivo governo, in cui Willy Brandt divenne Cancelliere a capo di una coalizione con il piccolo partito dei liberali (FDP).
Senza modificare la posizione giuridica della BRD quale stabilita nella Legge Fondamentale del 1949, Brandt ‐ in qualità prima di Ministro degli Esteri e poi dal 1969 di Cancelliere ‐ sostenne una linea più flessibile e meno dogmatica, che consentisse un parziale disgelo nelle relazioni della Germania occidentale con gli stati del campo comunista e specialmente con l’altro stato tedesco. Il concetto che era alla base di questa auspicata apertura nei confronti degli stati del Patto di Varsavia era stato definito nel 1963 dalla fortunata formula del discorso di Tutzing di Egon Bahr: “Wandel durch Annäherung”, ovvero “cambiamento attraverso il riconoscimento” (della realtà post‐bellica).74 Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo la Germania occidentale, mediante un non facile processo di emancipazione e di adattamento al clima generale di distensione75 si trasformò rapidamente da uno stato che ostacolava la détente al più deciso promotore di tale politica, nella peculiare versione tedesca di Entspannungspolitik.76 Al centro
74 “Wandel durch Annäherung” significa “cambiamento attraverso il riavvicinamento”; tale concetto, che divenne poi il più noto slogan della Ostpolitik, fu formulato pubblicamente per la prima volta da Egon Bahr in occasione di un suo discorso alla Evangelische Akademie di Tutzing (cittadina vicino a Monaco) nel luglio del 1963 e indicava che l’unica strada per raggiungere un cambiamento dello status quo europeo e una riunificazione nazionale tedesca sarebbe stata non quella di “aspettare un miracolo”, bensì quella di passare “con pazienza e perseveranza” attraverso un processo di avvicinamento graduale (“con molti passi e molte stazioni”) nei confronti degli stati del campo avversario. Tale concezione rappresentava – nel contesto tedesco‐occidentale dell’inizio degli anni ’60 ‐ una prospettiva politica radicalmente innovativa rispetto al passato. Per il testo di tale discorso si rimanda a: “Wandel durch Annäherung (1963)”, in E. Bahr, Sicherheit für und vor Deutschland, cit., pp.11‐17.
75 Werner Link, “Ostpolitik: Détente German‐style and adapting to America”, in Detlef Junker, (ed.) The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), pp. 33‐39.
76 Per quanto riguarda il concetto di Entspannungspolitik si veda: T. G. Ash, In Europe’s name, cit., p.36. Sul rapporto tra l’Ostpolitik e il più generale fenomeno della distensione internazionale si vedano soprattutto le pubblicazioni di Mary Elise Sarotte: Dealing with the Devil. East Germany, Détente, and Ostpolitik, 1969‐1973 (Chapel Hill; London: The University of North Carolina Press, 2001), e M. E. Sarotte,
dell’Entspannungspolitik vi era il crescente convincimento di una parte della classe politica tedesco‐occidentale che una politica di dialogo non ideologico con gli avversari (ciò che Mary Elise Sarotte definisce “speaking civilly face‐to‐face”) fosse per Bonn molto più vantaggiosa rispetto alla Politik der Stärke portata avanti fino a quel momento.77
La nuova Ostpolitik si basava essenzialmente sull’accettazione (seppure temporanea) dello status quo post‐bellico, sulla convinzione che la riunificazione tedesca dovesse avvenire nel contesto pacifico di una più generale distensione europea78 e sul principio che ogni mossa in direzione di una modificazione dei rapporti della BRD con gli stati del Patto di Varsavia dovesse necessariamente passare prima per Mosca.79 L’Unione Sovietica infatti era comprensibilmente preoccupata per la coesione del blocco comunista e pertanto non avrebbe tollerato facilmente che i propri alleati intrattenessero relazioni diplomatiche ed economiche “pericolose” con la Germania occidentale, senza assicurarsene prima uno stretto potere di controllo.80 Speculare a questa preoccupazione sovietica vi era quella degli Stati Uniti, potenza egemone desiderosa di controllare uno junior
“The frailties of grand strategies. A comparison of détente and Ostpolitik”, cit.; e D. C. Geyer, B. Schaefer (eds.), American Détente and German Ostpolitik, cit.
77 M. E. Sarotte, Dealing with the devil, cit., p.37 e segg.
78 Wolfram Hanrieder a questo proposito parla di una “europeizzazione” della questione tedesca:
W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., pp.177; 196‐197.
79 Un approccio “Moscow first” era stato peraltro già avviato da Konrad Adenauer nella propria politica con il campo comunista. Emblematico al riguardo fu il suo viaggio in Unione Sovietica nel 1955, si veda: T. G. Ash, In Europe’s name, cit., pp.50‐51.
80 M. E. Sarotte, Dealing with the devil, cit., pp.31‐35. Sarotte approfondisce proprio la complessa strategia di Brezhnev nel cercare di controllare il riavvicinamento intra‐tedesco e la generale distensione tra i due blocchi in modo da preservare la compattezza del Patto di Varsavia e contemporaneamente intrattenere bilateralmente una vantaggiosa relazione con la Germania occidentale. Per quanto riguarda la coesione del blocco comunista, si deve qui menzionare il fatto che ‐ nonostante uno stretto controllo sovietico sulla politica estera dei propri alleati ‐ l’Ostpolitik contribuì in modo significativo ad una parziale
“emancipazione diplomatica” degli stati del Patto di Varsavia nei loro rapporti politici ed economici con gli stati del campo occidentale.
partner come la BRD, considerato troppo indipendente.81 A partire dagli anni ’60 tuttavia il potere di controllo di entrambe le superpotenze sui rispettivi blocchi stava diminuendo considerevolmente, lasciando spazio a tentativi di politiche nazionali più autonome in entrambi i campi.82
La volontà di Bonn di intraprendere una politica più dinamica e aperta nei confronti degli stati del Patto di Varsavia si incontrò intorno alla metà degli anni
’60 con l’ambizione sovietica di ottenere finalmente il riconoscimento internazionale della propria sfera d’influenza e dello status quo politico‐
territoriale postbellico in Europa.83 Tale considerazione conferma la constatazione quasi paradossale che la détente, termine con cui si identificano le eterogenee politiche nazionali concretizzatesi negli anni ‘60/’70, avrebbe dovuto rappresentare una stabilizzazione dello status quo secondo il punto di vista delle superpotenze e nello stesso tempo un’opposta spinta a modificare e persino superare la divisione dell’Europa, secondo l’opinione di alcuni protagonisti europei.84
Nella complessa rete diplomatica che prese forma in quel periodo ogni parte aveva i propri interessi per dialogare con l’avversario, tuttavia questi erano spesso diametralmente opposti. Intrattenere relazioni diplomatico‐economiche
81 Emblematica al riguardo è una frase che Henry Kissinger disse nel 1970 a Paul Frank, Segretario di Stato tedesco per gli Affari Esteri: “se ci deve essere una distensione, allora la facciamo noi.”, citata in W. Brandt, Memorie, cit., p.201. Su tale tema si vedano: M. E. Sarotte, Dealing with the devil, cit., pp.56;
168; Gottfried Niedhart, “Ostpolitik and its impact on the Federal Republic’s relationship with the West”, in Wilfried Loth, Georges‐Henri Soutou (eds.), The making of Détente. Eastern and Western Europe in the Cold War. 1965‐1975 (London; New York: Routledge, 2008), pp.117‐132; O. Bange, „Ostpolitik as a source of intra‐bloc tensions“, cit.
82 John Lewis Gaddis, “Grand strategies in the Cold War”, in Melvyn P. Leffler, Odd Arne Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War (Cambridge University Press, 2010) vol. 2, p.12.
83 Andrey Edemskiy, “Dealing with Bonn. Leonid Brezhnev and the Soviet response to West German Ostpolitik”, in Carole Fink, Bernd Schaefer (eds.), Ostpolitik, 1969‐1974: European and global responses (Cambridge University Press, 2009) pp. 15‐38.
84 Jussi M. Hanhimaki, “Conservative goals, revolutionary outcomes: the paradox of détente”, in Cold War History, vol.8, n.4 (2008), pp.503‐512.
con stati nemici poteva pertanto rivelarsi pericoloso per la coesione del proprio campo e per il raggiungimento di un bilanciamento di interessi che fosse realmente favorevole alla propria parte. L’engagement negoziale con gli avversari
‐ caratteristico della détente ‐ in alcuni casi poteva essere più pericoloso di una relazione conflittuale, tuttavia tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 la maggior parte degli stati europei e le due superpotenze ritennero conveniente tentare di percorrere tale opzione.
Il caso dei rapporti della Germania occidentale con gli stati del Patto di Varsavia era particolarmente emblematico al riguardo, tanto da essere definito da Mary Elise Sarotte “dealing with the devil”.85 Tale concetto può essere adoperato sia dal punto di vista della Repubblica Federale Tedesca sia dalla prospettiva degli stati del campo sovietico (e specialmente della DDR) in quanto entrambe le parti, intrattenendo relazioni con l’avversario, rischiavano conseguenze dannose. Il pericolo per la Germania occidentale era soprattutto di carattere elettorale e di consenso interno, in quanto la coraggiosa scelta di cominciare ad entrare in relazione con l’altro stato tedesco e di smorzare l’importanza della Dottrina Hallstein poteva non essere bene accolta e premiata dagli elettori. Bisogna a tal riguardo ricordare il grande potere di influenza che aveva nella Repubblica Federale Tedesca, almeno fino a tutti gli anni ’60, la “Vertriebenenbund”, ovvero la lobby dei cittadini tedeschi espulsi e rifugiati provenienti dai territori che erano precedentemente appartenuti alla Germania. Gli alleati della BRD mettevano inoltre in dubbio la sua capacità di riuscire a controllare dei cambiamenti potenzialmente rischiosi per la tenuta stessa dell’Alleanza Atlantica. Dal punto di vista dei regimi del campo comunista il rischio era invece maggiore, in quanto
85 Quest’espressione dà il titolo al volume di M. E. Sarotte, Dealing with the devil, cit. Secondo l’autrice entrambe le parti erano consapevoli delle “evil‐intentions” dell’avversario, ciononostante reputavano conveniente correre il rischio di una “relazione pericolosa”, al fine di ottenere da questa vantaggi politici, economico‐commerciali, umanitari o di altro tipo.
l’approfondimento delle relazioni con la forte Repubblica Federale Tedesca avrebbe potuto aprire la strada ad una penetrazione politica, economica ed ideologica destabilizzante per l’esistenza stessa di tali stati.
L’argomento chiave della nuova Ostpolitik era il ribaltamento del principio centrale dell’era‐Adenauer (che si era rivelato fallimentare), che stabiliva il superamento della divisione tedesca come presupposto necessario per un superamento generale della divisione europea. Il governo Brandt si poneva infatti come obiettivo in primo luogo un’ampia distensione europea, che avrebbe avuto come conseguenza di lungo periodo anche una progressiva risoluzione della questione tedesca.86 Questa politica implicava dunque un riconoscimento dello status quo nel presente, rimandando ad un periodo più lontano il tradizionale obiettivo del suo superamento e della tanto ambita riunificazione nazionale. La differenziazione netta tra obiettivi di breve e di lungo periodo, oltre ad immettere una dose di necessario realismo nella politica estera della BRD, era anche funzionale ad un impegno nel presente per alleviare i costi umani della divisione della Germania.87 Accettare le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale era tuttavia alquanto difficile per i governi di Bonn, anche a causa della già citata lobby dei rifugiati tedeschi che spingeva le amministrazioni di ogni colore a non abbandonare del tutto posizioni irredentiste nei confronti degli ex‐territori tedeschi.88
86 Non c’è una valutazione unanime tra gli studiosi circa le conseguenze dell’Ostpolitik sullo status quo europeo: destabilizzazione del blocco comunista mediante un incremento dei contatti di Bonn con gli stati dell’Europa orientale, oppure consolidamento dei regimi dittatoriali del Patto di Varsavia attraverso un loro riconoscimento? Tale quesito è del resto parte del più ampio dibattito ‐ di cui si è già parlato nel primo capitolo ‐ relativo agli effetti della détente come fenomeno globale, nell’ambito del quale la storiografia appare divisa.
87 Nelle memorie di Brandt viene dato un particolare risalto all’aspetto umanitario della Ostpolitik (a partire dalla “politica dei piccoli passi” e dall’esperienza berlinese): W. Brandt, Memorie, cit.
88 T. G. Ash, In Europe’s name, cit., p.29‐30.
Una mossa simbolicamente molto rilevante da parte del governo Brandt fu la firma nel 1969 del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, promossa dall’SPD.
Sebbene pochi politici tedeschi sostenessero un’acquisizione dello status nucleare per il proprio paese, rinunciare formalmente al diritto di ogni possibile opzione nucleare era comunque difficile sotto il profilo politico.89 Negli anni precedenti, il dibattito relativo al TNP aveva aspramente polarizzato la classe dirigente tedesca e tale firma fu un segno importante dell’intento del nuovo governo socialdemocratico di porsi in modo costruttivo nel contesto internazionale e di cercare di attenuare i diffusi timori (di alleati e nemici) di una Germania occidentale nucleare (il cosiddetto “German finger on the nuclear trigger”).
L’adesione di Bonn al regime del TNP contribuì in modo decisivo alla fine dell’ostruzionismo tedesco nei confronti della nascente epoca di distensione e fu il segnale del desiderio della BRD di trovare finalmente un modus vivendi con il campo comunista.
L’Ostpolitik si concretizzò nella straordinaria azione diplomatica90 che condusse ai cosiddetti “Ostverträge” della Germania occidentale: il Trattato con l’Unione Sovietica e quello con la Polonia del 1970, l’Accordo Quadripartito su Berlino del 1971, il Trattato di Base tra i due stati tedeschi del 1972 e quello con la Cecoslovacchia del 1973. Il contenuto essenziale comune a questi trattati era la mutua rinuncia all’uso della forza, il riconoscimento dell’integrità territoriale degli stati secondo i confini post‐bellici e l’abbandono di posizioni tedesche di stampo revanscistico. Non secondaria era anche una progressiva riabilitazione morale
89 William Glenn Gray, “Abstinence and Ostpolitik. Brandt’s government and the nuclear question”, in Carole Fink, Bernd Schaefer (eds.), Ostpolitik, 1969‐1974: European and global responses (Cambridge University Press, 2009), pp.244 e segg.
90 Per una ricostruzione dettagliata delle trattative in cui fu impegnata la BRD durante gli anni della distensione si vedano soprattutto: M. E. Sarotte, Dealing with the devil, cit. (che riserva particolare attenzione ai negoziati intra‐tedeschi); H. Haftendorn, Coming of age, cit., e W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit.
della Germania, la cui tappa fondamentale fu l’emozionante visita di Brandt a Varsavia nel dicembre del 1970 per la firma del Trattato con la Polonia. In tale occasione il Cancelliere riconobbe il confine Oder‐Neiße (e quindi la perdita dei territori appartenuti alla Germania nazista) e fece in modo che la Repubblica Federale Tedesca si assumesse pubblicamente il peso del proprio drammatico passato e dei crimini nazisti commessi in primo luogo contro il popolo polacco.91
Un settore fondamentale della Ostpolitik era poi la cosiddetta
“Deutschlandpolitik”, che consisteva nel rapporto della BRD con l’altro stato tedesco ed era improntata alla speranza di Bonn di rendere sempre più permeabile il Muro di Berlino. Willy Brandt aveva riconosciuto l’utilità di avviare un dialogo con le autorità della Germania comunista già dall’inizio degli anni ’60 (come dimostrava il “Passierscheinabkommen” di Berlino del 1963),92 ma allo stesso tempo non riteneva opportuno intrattenere normali relazioni diplomatiche con la DDR, come se questa fosse un qualsiasi altro stato estero. La politica di Brandt metteva dunque in pratica un delicato approccio di riconoscimento “de facto” e non “de jure” della Germania comunista, tenendo saldo il concetto di un’unica nazione tedesca (sebbene temporaneamente divisa in due stati).93 Dal punto di vista del governo della Germania occidentale era fondamentale approfondire un rapporto con l’altro stato tedesco, cercando al contempo di non far nascere nella DDR un movimento popolare di protesta che
91 Douglas Selvage, “The Treaty of Warsaw: The Warsaw Pact Context”, in David C. Geyer, Bernd Schaefer (eds.), American Détente and German Ostpolitik, 1969‐1972 (German Historical Institute, Washington D.C., Bulletin n. 34 – Supplement 1, 2004), pp.67‐79.
92 Il “Passierscheinabkommen” ‐ stipulato nel 1963 dall’amministrazione di Berlino Ovest e dal governo della DDR ‐ fu il primo accordo intra‐tedesco, che permetteva ai cittadini di Berlino Ovest di visitare nel periodo di Natale i propri parenti che abitavano nella parte orientale della città.
93 Richard Wiggers, “Two States, One Nations: The international legal basis of German‐American relations from Ostpolitik to Unification”, in Detlef Junker, (ed.) The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), pp‐
76‐81.