Germania occidentale e di cui questa, divenuta uno stato ormai maturo e indipendente, fu pronta a servirsi.
Uno dei principali dilemmi che Bonn si trovò a dover affrontare era la difficile scelta tra una politica estera strettamente ancorata agli Stati Uniti e soluzioni improntate invece ad una linea più vicina alla Francia di de Gaulle (Presidente dal 1959 al 1969).36 Tale alternativa si rendeva in un certo senso disponibile poiché la coesione del campo occidentale stava nel frattempo diminuendo, messa a dura prova da numerose tensioni. Se negli anni ’50 l’aspetto atlantico e quello europeo della politica estera della BRD erano stati complementari, nel decennio successivo quest’equilibrio cominciò ad incrinarsi, rendendo persino immaginabile una sorta di decoupling negli interessi transatlantici nell’ambito ad esempio della politica estera, dell’economia e della sicurezza. Per quanto riguarda la situazione tedesco‐occidentale, le preoccupazioni di Bonn relative alla propria sicurezza furono caratterizzate da una notevole continuità durante tutto l’arco temporale della Guerra Fredda, subendo tuttavia significative ripercussioni a causa delle revisioni strategiche degli Stati Uniti e dell’emergere di un serio problema di credibilità concernente la garanzia dell’ombrello nucleare statunitense nei confronti degli alleati europei.
Come si è già accennato nel capitolo precedente, dopo le crisi internazionali dei primi anni ’60 (Berlino e Cuba), il contesto internazionale sembrava uscito dalla fase più conflittuale della Guerra Fredda per entrare in un periodo di trasformazione verso una sistemazione globale più stabile. Le origini di
36 Eckart Conze, “Expectations of dominance and partnership rhetoric: The Federal Republic of Germany in the crossfire of American and French policy, 1945‐1990”, in: Detlef Junker, (ed.) The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vo.2, 1968‐1990 (New York:
Cambridge University Press, 2004) pp.54‐61; sullo stesso punto si veda anche W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., pp.11 e segg.
tale processo si possono probabilmente far risalire al 1963.37 Questa data può essere infatti considerata come uno spartiacque nella storia del conflitto Est‐
Ovest, in ragione di alcuni fondamentali elementi: la Guerra Fredda aveva spostato il suo epicentro fuori dal continente europeo, le due superpotenze sembravano aver sostanzialmente cessato di sfidare le proprie rispettive sfere di influenza e la finestra di vantaggio strategico americano si stava rapidamente chiudendo, mostrando agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica una crescente necessità di lavorare ad accordi per un auspicabile controllo degli armamenti. Il sistema internazionale che stava prendendo forma intorno alla metà degli anni
’60 consisteva pertanto non in uno scioglimento del conflitto Est‐Ovest, ma in un tentativo da parte delle maggiori potenze di regolarizzarlo e stabilizzarlo, al fine di renderlo meno pericoloso.38
Per quanto riguardava il cruciale aspetto della sicurezza, durante gli anni
’60 i progressi tecnologici sovietici avevano ridotto considerevolmente il gap USA‐
URSS nel settore degli armamenti nucleari e stavano rapidamente provocando un calo di credibilità degli Stati Uniti nei confronti dei propri alleati dell’Europa occidentale.39 La vulnerabilità degli stessi USA metteva in crisi il valore della garanzia della deterrenza nucleare americana nell’ambito degli stati membri della NATO, causando le maggiori preoccupazioni proprio ai cittadini tedesco‐
37 Gerald Hughes sostiene che nel 1963 si concluda la fase di “prima Guerra Fredda”: G. R.
Hughes, Britain, Germany and the Cold War, cit., p.115. Sul significato dell’anno 1963 come spartiacque nel conflitto Est‐Ovest si veda anche M. Trachtenberg, A constructed peace, cit., pp.352; 377 e segg. Un interessante articolo relativo alla “piccola distensione”, che considera il 1963 come una svolta nella storia della Guerra Fredda è poi: Jennifer W. See, “An uneasy truce: John F. Kennedy and Soviet‐American Détente, 1963”, in Cold War History, vol.2, n.2 (2002), pp.161‐194; specifico invece sul Limited Test Ban Treaty del 1963 è il volume: Marilena Gala, Il paradosso nucleare. Il Limited Test Ban Treaty come primo passo verso la distensione (Firenze: Polistampa, 2002).
38 John Lewis Gaddis, La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e di speranza (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2005), p.211.
39 Helga Haftendorn, NATO and the nuclear revolution. A crisis of credibility, 1966‐1967 (Oxford:
Clarendon Press, 1996)
occidentali, i più esposti in caso di un conflitto in Europa.40 Per la prima volta dal dopoguerra nel continente europeo si temeva un disengagement statunitense e si dubitava dell’assunto dell’indivisibilità della sicurezza dell’Alleanza Atlantica.41 D’altra parte il tempo dell’emergenza post‐bellica in Europa era terminato e gli Stati Uniti, pur continuando a porsi come potenza egemone e protettrice di tutto il campo occidentale, intendevano tuttavia evitare una propria sovraesposizione e miravano pertanto ad ottenere un più equo burden‐sharing con gli alleati europei.42
Durante questi anni di crisi interna dell’Alleanza Atlantica,43 in Germania occidentale cominciarono a delinearsi due distinte linee relativamente alla politica estera e di sicurezza. Una tendenza era improntata al mantenimento di una stretta alleanza con gli Stati Uniti (orientamento che aveva i suoi maggiori esponenti in Ludwig Erhard, Ministro dell’Economia dal 1949 al 1963, e in Gerhard Schröder, Ministro degli Esteri dal 1961 al 1966), mentre l’altra ‐ cosiddetta “gollista” ‐ auspicava un avvicinamento alla Francia (e veniva
40 Christoph Bluth, “Reconciling the Irreconcilable: Alliance Politics and the Paradox of Extended Deterrence in the 1960s”, in Cold War History, vol.1, n.2 (2001), pp.73‐102.
41 M. Trachtenberg, A constructed peace, cit., pp.360 e segg; W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., p.78. Gli accordi di cooperazione bilaterale nucleare tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (conclusi a Nassau nel 1962) avevano inoltre di fatto escluso gli altri stati europeo‐occidentali da un simile vantaggioso nuclear sharing con la superpotenza egemone. Particolarmente contrariati furono, a tal riguardo, il governo francese e quello tedesco‐occidentale, che ‐ sentendosi discriminati dagli USA ‐ risposero tuttavia in modo diverso. La Francia infatti (non dovendo sottostare ai limiti di Bonn in materia) reagì al mutato equilibrio strategico tra le due superpotenze e alla “esclusione” dagli accordi di Nassau perseguendo una politica basata sull’acquisizione e il mantenimento di un proprio deterrente nazionale indipendente, mentre la BRD dovette limitarsi a criticare la politica statunitense e a premere in ambito NATO per cercare di raggiungere altre forme di nuclear sharing che potessero includere gli stessi tedeschi.
42 M. Trachtenberg, A Constructed Peace, cit., p.154.
43 Per un approfondimento sulla crisi dell’Alleanza Atlantica degli anni ’60 si vedano: H.
Haftendorn, NATO and the nuclear revolution, cit.; Lawrence S. Kaplan, The long entanglement. NATO’s first fifty years (Westport; London: Praeger, 1999); Antonio Varsori, “Gli anni sessanta: la crisi della NATO”, in Mario Del Pero, Federico Romero (eds.), Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni (Roma:
Biblioteca di Studi Americani, Edizioni di storia e letteratura, 2007), pp.26‐43; Andreas Wenger, “Crisis and opportunity: NATO’s transformation and the multilateralization of détente, 1966‐1968”, in Journal of Cold War Studies, vol.6, n.1 (Winter 2004), pp.22‐74.
propugnata soprattutto dal Cancelliere Adenauer e dal partito conservatore bavarese cristiano‐sociale CSU, guidato da Franz‐Josef Strauß). Questa seconda tendenza fu alla base della politica filofrancese portata avanti da Adenauer nei primi anni ’60 e istituzionalizzata con il Trattato dell’Eliseo firmato nel 1963 da Francia e Germania occidentale. Tale trattato avrebbe dovuto costituire, secondo de Gaulle, la base di un più stretto rapporto franco‐tedesco anche in chiave di contrasto nei confronti degli Stati Uniti. Tuttavia il preambolo che il governo tedesco aggiunse al trattato, in occasione della sua ratifica al Bundestag, ne smorzò tale aspetto ribadendo la lealtà di Bonn alla politica statunitense e il saldo ancoraggio della BRD al contesto della NATO.
Una questione che divenne negli anni ’60 spinosa nell’ambito dei rapporti interni all’Alleanza Atlantica, fu sicuramente poi quella relativa alla dimensione nucleare della sicurezza. La classe politica di Bonn non celava infatti una più o meno esplicita ambizione nucleare tedesca, da concretizzarsi necessariamente (dati i limiti esistenti per la BRD in materia)44 per mezzo di una cogestione (“nuclear sharing”) in un contesto transatlantico o europeo.45 La Germania occidentale fu pertanto tra i più convinti sostenitori del progetto di una
“Multilateral Nuclear Force” transatlantica (MLF) di cui si discusse in ambito NATO all’inizio degli anni ’60.46 Il progetto sarebbe dovuto servire agli Stati Uniti
44 Si fa qui riferimento alla già menzionata rinuncia unilaterale effettuata dal governo di Konrad Adenauer nel 1954 nei confronti della produzione di armamenti nucleari, chimici e biologici nel territorio della BRD; di tale rinuncia si parlerà meglio nel capitolo dedicato alla questione nucleare.
45 Su tale tema si vedano soprattutto: Beatrice Heuser, NATO, Britain, France and the FRG.
Nuclear strategies and forces for Europe, 1949‐2000 (Basingstoke: Macmillan, 1997); Christoph Hoppe, Zwischen Teilhabe und Mitsprache. Die Nuklearfrage in der Allianzpolitik Deutschlands, 1959‐1966 (Nuclear History Program – NHP; Baden Baden: Nomos Verlagsgesellschaft, 1993); Christian Tuschhoff, Deutschland, Kernwaffen und die NATO, 1949‐1967. Zum Zusammenhalt von und friedlichem Wandel in Bündnissen (Nuclear History Program – NHP, Internationale Politik und Sicherheit, Stiftung Wissenschaft und Politik SWP; Baden Baden: Nomos Verlagsgesellschaft, 2002).
46 Christoph Bluth, Britain, Germany and western nuclear strategy (Oxford: Clarendon Press, 1995), pp.52‐104; Catherine McArdle Kelleher, Germany and the politics of nuclear weapons (New York;
London: Columbia University Press, 1975), pp.228‐269.
per rassicurare i propri alleati circa la credibilità della garanzia nucleare statunitense, concedendo al contempo agli stessi europei un parziale controllo sulle forze nucleari dell’Alleanza. Tale idea ‐ che i tedeschi occidentali presero in seria considerazione ‐ fu poi abbandonata dall’Amministrazione Johnson nel 1965, in favore di un crescente accordo tra le superpotenze a proposito di un trattato di non proliferazione nucleare. Questa mossa aumentò il sospetto tedesco di un “accordo di condominio” tra le due superpotenze a spese dell’Europa (e soprattutto della Germania occidentale) e diede luogo ad un significativo peggioramento nelle relazioni tra gli Stati Uniti e Bonn.47
Il progressivo abbandono statunitense della dottrina di “Massive Retaliation” (Rappresaglia Massiccia) in favore di quella di “Flexible Response”
(Risposta Flessibile)48 accentuò le preoccupazioni della BRD e i suoi sospetti che gli Stati Uniti non dessero sufficiente peso alle esigenze dei propri alleati per curare invece gli interessi (in parte convergenti) delle due superpotenze.49 Tali percezioni tedesche furono peraltro confermate nel 1968 con la formulazione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), che stabiliva una rigida suddivisione della comunità internazionale tra stati nucleari e stati non‐nucleari (che si sarebbero dovuti impegnare a non modificare il proprio status in materia).50 Il nascente regime di non proliferazione nucleare sembrava essere ‐
47 Sul timore tedesco di un condominio delle superpotenze da realizzarsi a spese dei partner minori europei per mezzo di misure di controllo degli armamenti, soprattutto relative alla dimensione nucleare, si vedano soprattutto: C. Kelleher, Germany and the politics of nuclear weapons, cit.,; Matthias Küntzel, Bonn and the bomb. German politics and the nuclear option (London; Boulder, Colorado: Pluto Press, 1995).
48 Di tale argomento si parlerà diffusamente nel capitolo di questa ricerca dedicato al 1967 (terzo capitolo, paragrafo secondo sul tema della strategia della NATO). Jane E. Stromseth, The origins of flexible response. NATO’s debate over strategy in the 1960s (London: Macmillan Press, 1988).
49 Wolfgang Krieger, “German‐American Security Relations, 1968‐1990”, in Detlef Junker, (ed.) The United States and Germany in the era of Cold War, 1945‐1990. A handbook, vol.2, 1968‐1990 (New York: Cambridge University Press, 2004), pp.111‐125.
50 La posizione del governo di Bonn nei confronti dell’ipotesi di MLF e poi la sua opposizione al progetto TNP è ben spiegata da Wolfram Hanrieder: W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit.,
dal punto di vista degli stati minori ‐ un processo funzionale in primo luogo agli interessi delle superpotenze51 e segnava un duro colpo soprattutto per qualsiasi opzione nucleare della BRD, considerata del resto con timore da parte sia dei propri alleati occidentali sia degli stati del Patto di Varsavia.52
La dimensione della sicurezza cominciava a mettere in risalto negli anni ’60 un dilemma della Repubblica Federale Tedesca, poiché Bonn – pur dipendendo strettamente dagli Stati Uniti dal punto di vista della propria difesa – cominciava in quel periodo a manifestare l’ambizione di elaborare una propria politica estera più indipendente dalla superpotenza alleata, al fine di cercare di tutelare meglio i propri specifici interessi nazionali. Stava tuttavia diventando evidente che la precondizione perché Bonn potesse attuare una politica estera più dinamica ed autonoma dagli alleati sarebbe dovuta consistere nel fatto che la Germania
pp.91‐95. Hanrieder sottolinea efficacemente come la contrarietà tedesca (soprattutto da parte della CDU‐CSU) relativamente ad un regime di non proliferazione nucleare non derivasse tanto dalla volontà di acquisire un proprio deterrente nucleare, quanto piuttosto dalla riluttanza a venire privati del potere di minacciare di acquisirlo.
51 Il Trattato infatti impediva la proliferazione “orizzontale” di forze nucleari nazionali, ovvero la possibilità che altri stati acquisissero una capacità nucleare, lasciando invece più vaga la questione della proliferazione “verticale”. Il TNP era peraltro funzionale ad un processo di centralizzazione della gestione dell’arsenale nucleare occidentale, di cui si dibatteva negli Stati Uniti in forma più o meno esplicita dall’inizio degli anni ’60. Tale concezione mirava ad un maggior controllo statunitense sugli armamenti nucleari ed era dettata dal timore che le forze NATO dispiegate in Europa occidentale finissero progressivamente sotto il controllo degli stati “ospitanti”. La preoccupazione maggiore per gli Stati Uniti era relativa alla possibile acquisizione di uno status nucleare da parte di Bonn (prospettiva che avrebbe condotto ad uno scontro con i sovietici), ma ‐ dato che sarebbe stato inverosimile discriminare solo la BRD
‐ si pensava ad un regime generale da applicare a tutti gli stati non‐nucleari (alleati o nemici). Nel campo comunista, per certi versi speculare alla situazione della BRD, era il timore dell’URSS per una possibile acquisizione nucleare da parte della Repubblica Popolare Cinese. M. Trachtenberg, A constructed peace, cit., pp.321; 384. Il capitolo quarto della tesi dedicherà ampio spazio al Trattato di Non Proliferazione Nucleare.
52 Susanna Schrafstetter, “The long shadow of the past: history, memory and debate over West Germany’s nuclear status, 1954‐1969”, in History & Memory, vol. 16, n.1 (Spring/Summer 2004), pp.118‐
145.
occidentale concedesse “qualcosa in cambio” ad alleati ed avversari, e questo prezzo da pagare53 era il riconoscimento dello status quo post‐bellico.54
Se si può affermare con certezza che la Westpolitik (politica di integrazione occidentale) condotta dai governi della Repubblica Federale Tedesca durante gli anni ’50 e i primi anni ’60 fu un successo, l’efficacia della loro Ostpolitik (linea politica che guidava il rapporto della BRD con l’Europa orientale) si stava invece dimostrando quantomeno dubbia. La rigida politica di Bonn nei confronti degli stati del Patto di Varsavia non solo non sembrava infatti condurre ai tanto desiderati progressi nell’ambito della questione nazionale tedesca, ma stava anche creando essa stessa crescenti problemi nel mutato contesto politico internazionale degli anni ’60.55
Intorno alla metà degli anni ’60 la Germania occidentale, portando avanti la sua rigida posizione di rifiuto dello status quo e di chiusura diplomatica nei confronti degli stati che riconoscevano la DDR, stava rischiando un progressivo auto‐isolamento.56 L’applicazione pratica di questa strategia di ostracismo verso
53 Georg Ferdinand Duckwitz (diplomatico già durante il nazismo, che tuttavia durante la guerra aveva collaborato alla resistenza dalla sede diplomatica tedesca in Danimarca), Segretario di Stato per gli Affari Esteri dal 1967 al 1970 e vicino alle posizioni di Brandt, definì sarcasticamente proprio “Zahltag”, ovvero “giorno di paga”, il doloroso prezzo dell’accettazione della realtà postbellica da parte del governo di Bonn: era giunto infatti ‐ a suo avviso ‐ il momento in cui la Germania occidentale pagasse per il proprio passato, per potersene veramente emancipare; tale citazione è ripresa da: Oliver Bange, “Ostpolitik‐
Etappen und Desiderata der Forschung. Zur Internationalen Einordnung von Willy Brandts Außenpolitik”, Archiv für Sozialgeschichte (AfS), vol. 46 (2006), p.721.
54 Sul carattere peraltro illusorio della politica di intransigenza tedesca, un’interessante puntualizzazione è presente in G. R. Hughes, Britain, Germany and the Cold War, cit., p.126, in cui l’autore
‐ citando il Segretario di Stato americano Dean Rusk ‐ scrive: “It is no concession for the Federal Republic to abandon what (i territori della Germania del 1937) it does not have”.
55 Per un’analisi relativa alla Westpolitik e alla Ostpolitik della Repubblica Federale Tedesca durante i primi anni della propria esistenza, si veda: W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., pp.150 e segg., in cui l’autore sottolinea un’impossibilità per Bonn di conciliare l’impegno per la coesione dell’Alleanza Atlantica e la propria battaglia per la riunificazione nazionale.
56 Relativamente alla “Dottrina Hallstein” e alla sua applicazione, si veda: William Glenn Gray, Germany’s Cold War. The global campaign to isolate East Germany. 1949‐1969 (Chapel Hill; London:
University of North Carolina Press, 2003).
“la zona” e gli stati del campo comunista si rivelava infatti sempre più anacronistica e controproducente per gli stessi interessi nazionali di Bonn e perse progressivamente il sostegno degli alleati della BRD, che si stavano orientando verso posizioni più pragmatiche e flessibili.57 Nello stesso periodo si può riscontrare un parallelo isolamento tedesco‐occidentale anche per quanto riguardava la questione del controllo degli armamenti.58 Ad una crescente convergenza degli interessi delle superpotenze in questo settore corrispondeva infatti un aumento di tensioni nel rapporto tra la BRD e gli Stati Uniti sotto il profilo della sicurezza.
Furono proprio il fluido contesto internazionale della seconda metà degli anni ’60 e la crescente consapevolezza della classe politica di Bonn che la détente portata avanti dalle superpotenze (e dunque anche dal principale alleato della Germania occidentale) divergesse dagli interessi tedeschi che spinsero la BRD a modificare decisamente la propria politica nei confronti del campo comunista.
Washington mirava infatti a conservare un equilibrio con i sovietici basato su un rilassamento delle tensioni e da costruirsi principalmente intorno ad una stabilizzazione dello status quo europeo.59 Ciò non poteva ovviamente vedere d’accordo una gran parte della classe politica tedesco‐occidentale, sempre più frustrata dalle politiche dei suoi alleati che non corrispondevano più ai propri
57 W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., pp.19; 89; 174 e segg. Su questo punto si veda anche G. R. Hughes, Britain, Germany and the Cold War, cit., dove l’autore focalizza la propria attenzione soprattutto sul punto di vista britannico, in cui avevano un peso fondamentale i costi economici della politica di intransigenza tedesca.
58 W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., p.92.
59 Robert S. Litwak, Détente and the Nixon Doctrine. American foreign policy and the pursuit of stability, 1969‐1976 (Cambridge University Press, 1984); W. F. Hanrieder, Germany, America, Europe, cit., pp.98; 172.
interessi nazionali e desiderosa invece di attuare una nuova politica estera più dinamica, che le consentisse di partecipare alla distensione in modo attivo.60
3. SUPERARE LA DIVISIONE EUROPEA ATTRAVERSO IL SUPERAMENTO DELLA