bipolarismo percepito da essi come eccessivamente rigido. Alcuni stati europei (soprattutto la Francia del Generale de Gaulle e la BRD di Brandt) vollero tentare di sviluppare una politica estera più attiva e autonoma dalla superpotenza egemone rispetto agli anni precedenti, sentendosi frustrati da una gestione di
“condominio” delle superpotenze che aveva palesato la sua pericolosità nella prima metà del decennio. Durante la crisi di Berlino del 1961 e quella di Cuba dell’anno seguente, gli stati europei (che erano i più esposti ai pericoli di queste stesse crisi) erano sembrati infatti essere privi di ogni potere decisionale e in balìa delle decisioni di Stati Uniti e Unione Sovietica.95 All’indomani degli “anni delle crisi” ‐ e durante tutti gli anni ’60 e ’70 ‐ le politiche portate avanti da alcuni stati europei resero pertanto evidente un significativo grado di multipolarismo che stava emergendo progressivamente nel contesto internazionale.
Per quanto concerne l’Alleanza Atlantica, in quel periodo si manifestò una graduale erosione della “docilità” europea nell’accettare la linea politico‐militare dettata da Washington. Come è stato evidenziato anche da Piers Ludlow ‐ in un volume collettaneo e in alcune sue pubblicazioni96 – nel periodo della distensione si può registrare una sensibile crescita nella self‐confidence dell’Europa occidentale, che condusse alcuni governi europei a perseguire dei percorsi politici più autonomi per tentare di proteggere meglio i propri specifici interessi nazionali. Entrambi i blocchi sperimentarono del resto durante la distensione delle tendenze centrifughe dovute ai molteplici tentativi da parte degli stati europei di trovare un maggior spazio di manovra per la propria politica estera. Le
95 J. M. Hanhimäki, “Détente in Europe, 1962‐1975”, cit., pp.199; 216.
96 N. Piers Ludlow (ed.), European Integration and the Cold War. Ostpolitik‐ Westpolitik, 1965‐
1973 (New York: Routledge, 2007), si veda qui soprattutto il contributo di Loth: Wilfried Loth, “Détente and European integration in the policies of Willy Brandt and Georges Pompidou”, in N. P. Ludlow (ed.), European Integration and the Cold War, cit., pp.53‐66; Piers Ludlow, “European integration and the Cold War”, in Melvyn P. Leffler, Odd Arne Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War (Cambridge University Press, 2010), vol. 2, pp.179‐197.
superpotenze erano di conseguenza costantemente preoccupate che i processi in atto durante la distensione avrebbero potuto mettere in difficoltà il proprio ruolo nel gestire il contesto internazionale.
In generale, un’analisi della distensione a livello europeo permette inoltre di indagare i differenti destini che la distensione tra gli USA e l’URSS e quella europea si trovarono ad affrontare alla fine degli anni ’70. Come si dirà anche più avanti, la détente europea non subì lo stesso declino e collasso che invece caratterizzò quella tra le superpotenze e il processo di miglioramento dei contatti tra i due blocchi nel continente europeo continuò – nonostante alcune crisi e interruzioni – per tutta la “fase finale” della Guerra Fredda.
Un’analisi specificatamente europea della distensione si trova nel volume di Angela Romano dedicato alla Conferenza di Helsinki: “From Détente in Europe to European Détente”.97 L’autrice, infatti, analizzando l’evento diplomatico che spesso viene considerato dagli storici come l’apice della distensione, propone un’interpretazione di quel periodo in chiave di un progressivo superamento delle dinamiche della Guerra Fredda. Nonostante le diffuse critiche ai risultati della conferenza avanzate in quel periodo da parte dell’opinione pubblica occidentale e dei dissidenti nel campo comunista, Romano sostiene che l’Atto Finale di Helsinki presentasse una carica rivoluzionaria, che avrebbe mostrato tuttavia i suoi effetti solo nel lungo periodo.98 Secondo l’autrice infatti il campo occidentale (e soprattutto la sua componente europea) fu in grado di sfruttare l’interesse sovietico per una conferenza paneuropea, al fine di favorire la promozione di una trasformazione interna al blocco comunista. Quest’approccio, attuato tramite una meticolosa azione diplomatica, si esplicò nell’inserimento all’interno dell’Atto
97 Angela Romano, From Détente in Europe to European Détente. How the West shaped the Helsinki CSCE, (Brussels: Peter Lang, 2009)
98 Tale argomento sarà affrontato nel capitolo quinto di questa ricerca.
Finale della CSCE del cosiddetto “Terzo Paniere”, che poneva a livello internazionale la questione dei diritti umani e trasformava così la conferenza in una sfida ai regimi comunisti.
L’autrice sottolinea l’importanza delle disposizioni sui diritti umani in quanto, seppure non giuridicamente vincolanti, contribuirono ad avviare i grandi cambiamenti del decennio successivo. L’Atto Finale riuscì infatti a divenire il catalizzatore di un movimento “transnazionale” per i diritti umani, che sfidò in modo sempre più difficilmente gestibile l’ordine politico‐sociale del sistema sovietico.99 Il riconoscimento (nell’Atto Finale) dello status quo europeo da parte del campo occidentale ‐ secondo Romano ‐ non sarebbe da interpretarsi come un trionfo sovietico, poiché in occasione della stessa CSCE l’Alleanza Atlantica riuscì a porre le basi per un futuro superamento della Guerra Fredda.
L’autrice ritiene dunque che negli anni della distensione l’Europa occidentale perseguì una politica estera che deliberatamente mirava a creare le condizioni per un potenziale processo di liberalizzazione e democratizzazione nei regimi del blocco comunista. Il cuore della détente sarebbe stato pertanto – secondo la Romano – il Terzo Paniere di Helsinki, che introdusse la questione dei diritti umani in un documento ufficiale internazionale sottoscritto da trentacinque capi di governo. Secondo tale interpretazione la distensione europeo‐occidentale appare dunque una politica volta ad un superamento – seppure in modo graduale e nel lungo periodo – delle dinamiche della Guerra Fredda. In tal modo Angela Romano opera una precisa distinzione tra la détente delle due superpotenze e
99 S. Savranskaya, “Human rights movement in the URSS after the signing of Helsinki Final Act”, cit., p.26.
quella europea, nella quale la dimensione di “soft power” insita nella questione dei diritti umani avrebbe un peso decisivo.100
Nel volume di Angela Romano viene infatti messa in luce la peculiarità dell’approccio dell’Europa occidentale alla distensione, basato su un innovativo concetto di “people first”, alquanto diverso dalla concezione di distensione propria delle superpotenze quale processo di regolamentazione di interessi politici, militari ed economici tra stati nazionali.101 Anche Patrick Vaughan, nel saggio “Zbigniew Brzezinski and the Helsinki Final Act”102 dà risalto all’interesse degli stati CE per gli elementi idealistici presenti nel Terzo Paniere e alla “guida eroica” che l’Europa occidentale seppe assumersi nell’ambito delle trattative per la CSCE. Secondo Vaughan tale approccio europeo, che enfatizzava la necessità di rispetto dei diritti umani nei regimi totalitari, si distingueva da una linea diplomatica statunitense mirante piuttosto a non insistere su questioni potenzialmente destabilizzanti per il rapporto tra le superpotenze.
In ultima analisi, l’intero processo della Conferenza di Helsinki mise pertanto in luce i differenti obiettivi della distensione USA‐URSS (stabilizzazione del continente e cristallizzazione della partizione bipolare) e di quella europea (graduale allentamento dei condizionamenti bipolari e aumento
100 A. Romano, From Détente in Europe to European Détente cit., p.227. Per quanto riguarda una dimensione di “soft power” dei cambiamenti del contesto internazionale, Piers Ludlow mette in risalto poi la capacità di attrazione dell’immagine di successo che proiettava il processo di integrazione europeo‐
occidentale sugli stati del Patto di Varsavia. Secondo Ludlow questo esempio di prosperità economica contribuì in una certa misura ad una fatale destabilizzazione del blocco comunista. Si veda a tal proposito:
P. Ludlow, “European integration and the Cold War”, cit., p.195.
101 A. Romano, From Détente in Europe to European Détente cit., p.219.
102 Patrick G. Vaughan, “Zbigniew Brzezinski and the Helsinki Final Act” in Leopoldo Nuti (ed.), The crisis of Détente in Europe. From Helsinki to Gorbachev. 1975‐1985 (London; New York: Routledge, 2008), p.12. In tale saggio l’autore mette in luce i differenti approcci esistenti all’interno del campo occidentale nei confronti della CSCE, per poi approfondire il dibattito interno al mondo politico statunitense negli anni dell’Amministrazione Carter relativamente al significato da accordare all’Atto Finale di Helsinki. Vaughan, partendo dalla CSCE, analizza infine le diverse concezioni di distensione che vennero perseguite dalle Amministrazioni repubblicane di Nixon e di Ford e dal successivo governo del democratico Jimmy Carter.
dell’interdipendenza tra i due campi).103 Le diverse declinazioni nazionali del concetto di distensione sono analizzate anche nel contributo di Irwin M. Wall
“The United States and two Ostpolitiks. De Gaulle and Brandt”.104 In tale saggio si sottolinea come l’obiettivo della distensione statunitense fosse essenzialmente il mantenimento di uno stabile status quo e pertanto fossero presenti frizioni e sospetti nei confronti dei partner europei che ‐ secondo l’Amministrazione Nixon
‐ si cominciavano a rapportare con il campo comunista in modo eccessivamente indipendente e pericolosamente “sovversivo” rispetto alla gestione bipolare dell’equilibrio internazionale. Nelle relazioni transatlantiche erano peraltro inevitabili fasi di scarsa coesione e di relativa indipendenza europea, che gli USA ‐ potenza “imperiale” liberale ‐ dovevano necessariamente tollerare.105