della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale dei cittadini ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in uno Stato membro a causa dell’impossibilità di mantenere tali funzioni.
Direttiva europea 2008/114 (disponibile online)16
Il Decreto Legislativo 61/2011 che ha recepito la Direttiva stabilisce una serie di criteri e procedure per l’identificazione di infrastrutture critiche nei settori dell’energia e dei trasporti. All’art. 4 vengono specificate la composizione e le funzioni del Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione (NISP) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, al quale il Decreto Legislativo affida compiti di individuazione e designazione delle infrastrutture critiche. Collaborano a stretto contatto con il NISP i Ministeri dell’Interno, degli Affari Esteri, dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché il Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il NISP è incaricato di determinare il limite del criterio di valutazione settoriale oltre il quale un’infrastruttura nazionale può essere definita critica. In seguito, lo stesso nucleo interministeriale sarà chiamato ad individuare le infrastrutture critiche europee (ICE),
16http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:345:0075:0082:IT:PDF
ovvero quelle infrastrutture critiche nazionali “il cui danneggiamento o la cui distruzione potrebbe avere un significativo impatto su almeno due stati membri”.
In base a quanto stabilito dal Decreto Legislativo n. 61, il processo di individuazione e designazione delle infrastrutture critiche va riesaminato almeno ogni 5 anni, mentre il Decreto Legge n. 21 prevede che i decreti del Presidente del Consiglio per l’individuazione delle attività strategiche vengano aggiornati almeno ogni 3 anni.
2.4 Conclusioni
Nel processo di individuazione e definizione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave, non è previsto alcun coinvolgimento formale dell’industria. Tuttavia, risulta evidente il sostanziale interesse di quest’ultima, soprattutto in rapporto alla selettività di tale processo: essere considerati all’interno di questa area significa dover sottostare a maggiori obblighi, ma anche, in teoria, vedere valorizzate le attività che sono considerate di rilevanza strategica.
È importante, innanzitutto, riconoscere che industria e Forze Armate si muovono secondo traiettorie diverse, anche se non dovrebbero diventare divergenti. Troppo spesso, invece, si assiste ad una quasi inversione dei ruoli, con l’industria che vorrebbe esprimere le esigenze delle Forze Armate e queste ultime che vorrebbero decidere scelte e strategie industriali. Presupposto di un sistema efficiente è anche quello di essere equilibrato: come
“sistema” deve tenere collegate insieme le sue diverse componenti, ma senza confusione dei ruoli. Il punto di equilibrio dovrebbe essere assicurato dalla comune ricerca dell’interesse nazionale, soprattutto a livello strategico. La decisione finale dovrebbe poi essere trovata a livello governativo e politico che dovrebbe assicurare il perseguimento degli interessi generali nel quadro di una prospettiva complessiva e di medio-lungo periodo.
La logica delle Forze Armate privilegia l’individuazione di aree strategiche che rispondano alla piena e soddisfacente operatività in uno scenario di medio e lungo termine; per il mondo industriale le attività strategiche corrispondono più che altro alle capacità industriali attuali e quindi alle aree di eccellenza tecnologica e produttiva esistenti e/o in via di realizzazione. L’interesse delle Forze Armate è assicurarsi capacità pienamente
rispondenti alle proprie esigenze operative attuali e future. L’interesse dell’industria è assicurare la massima ottimizzazione della propria capacità industriale. Si tratta, quindi, di due prospettive diverse.
Chiaramente il mondo dell’industria, grazie al suo patrimonio di conoscenze, tecnologie, capacità produttive e manageriali, rappresenta un interlocutore naturale nel processo di definizione di attività strategiche per verificare la fattibilità dei requisiti sul piano tecnologico e delle capacità produttive e per discutere la compatibilità di tempi e costi dei programmi di produzione. Oltretutto, al di là dell’operatività delle Forze Armate, anche altre esigenze entrano in campo come, ad esempio, la valorizzazione e la crescita delle capacità tecnologiche e delle eccellenze produttive nazionali, la salvaguardia dei livelli di occupazione, l’equilibrio della bilancia commerciale e più in generale il ruolo internazionale dell’Italia in materia di politica estera e di sicurezza. Tuttavia, le logiche di produzione industriale, nonché la tutela dell’interesse industriale nazionale, non dovrebbero prevalere sul soddisfacimento delle esigenze operative attuali e future delle Forze Armate.
Per consentire il più efficace funzionamento del sistema di individuazione di tecnologie critiche e di attività strategiche, un raccordo tra le esigenze delle Forze Armate e del mondo industriale dovrebbe essere raggiunto tramite un vero e proprio rapporto di partenariato con l’industria, superando logiche puramente aziendali e di breve periodo per proiettarsi in una dimensione più settoriale e di lungo periodo. Se l’industria riuscisse ad esprimere una visione più generale e strategica e meno corrispondente all’attuale capacità industriale, ulteriormente frammentata a livello aziendale, si realizzerebbe un funzionamento più efficace dell’intero sistema. In quest’ottica un contributo importante potrebbe venire anche dall’associazione industriale di settore, a condizione che le imprese la valorizzino nei loro rapporti con le Istituzioni.
Un cambiamento di approccio è necessario, oltre che da parte dell’industria, anche da parte del Governo e delle Amministrazioni interessate, compresa la Difesa.
Fino ad ora l’ampia partecipazione pubblica al settore industriale della difesa ha consentito allo Stato il controllo di gran parte delle capacità tecnologiche e industriali. Alle imprese storicamente controllate dall’IRI si sono, infatti, aggiunte nel dopoguerra quelle controllate dalla Finanziaria Ernesto Breda e quelle finite poi nel calderone dell’EFIM.
Successivamente (anche nell’ultimo decennio) si sono aggiunte quelle abbandonate dai
privati a volte perché in condizioni disastrose, a volte per monetizzare le loro partecipazioni. Si stima che circa l’80% delle attività industriali siano oggi controllate/partecipate dallo Stato.
Anche di questo bisogna tener conto quando si esaminano i possibili cambiamenti della struttura industriale italiana perché trovare investitori privati nazionali nel campo della difesa è stato fino ad ora un esercizio quasi impossibile. Di qui, molto più probabilmente, deriverà la trasformazione di alcune imprese (le maggiori) in public companies (quando le condizioni del mercato finanziario lo consentiranno) o l’acquisizione di altre (quelle che non hanno una dimensione tale da poter affrontare autonomamente la competizione internazionale) da parte di gruppi esteri o la costituzione di joint-ventures a livello settoriale. E’ questo il processo di ristrutturazione e riorganizzazione dell’industria che, attraverso la nuova normativa, bisognerà cercare di gestire.
L’obiettivo della nuova normativa italiana non è, quindi, quello di impedire acquisizioni estere, come semplicisticamente hanno sostenuto alcuni giornali, ma di renderlo possibile, limitando le potenziali conseguenze negative per gli interessi nazionali.
I rischi maggiori sono legati alla sicurezza degli approvvigionamenti e ai trasferimenti tecnologici. L’operatività delle Forze Armate dipende dal mantenimento in efficienza e dall’aggiornamento dei mezzi in servizio; la loro efficienza, inoltre, dipende anche dalla capacità di padroneggiare l’evoluzione tecnologica. Un livello minimo di sovranità operativa dipende, a sua volta, dalla possibilità di veder soddisfatte alcune esigenze. In altri termini, il mantenimento di determinate capacità tecnologiche e industriali è un fattore indispensabile per mantenere un minimo di capacità militari. A questo si aggiunge una considerazione che riguarda il livello tecnologico dell’industria nazionale: dopo aver via via perso pezzi importanti nel settore delle tecnologie di punta (informatica, comunicazioni, chimica, farmaceutica, nucleare, etc.), l’aerospazio-sicurezza-difesa resta una delle poche aree ancora presidiate. L’inevitabile processo di ristrutturazione che si sta profilando a livello europeo ed internazionale non deve, quindi, trasformarsi nell’ennesimo arretramento italiano. Per questo le capacità, così faticosamente sviluppate (oltretutto con ingenti finanziamenti pubblici), devono essere mantenute, al di là della loro proprietà.
A questo servirà la nuova normativa, consentendo di conoscere e valutare la strategia industriale dell’investitore e fissando, se necessario e caso per caso, condizioni e impegni
per approvare il suo intervento. Anche in questo campo, Governo e Amministrazione dovranno muoversi con cautela (per non “ingessare” il mercato) e con competenza (adeguando le richieste alle reali esigenze). Non esiste in Italia una tradizione in questo campo e non sarà, quindi, facile sviluppare un approccio pragmatico (basato su competenze economiche e industriali), evitando le trappole del formalismo giuridico e della burocratizzazione dei processi decisionali, di cui siamo maestri. Buoni esempi potranno venire dall’esperienza inglese e americana, ma bisognerà adattarli al nostro sistema giuridico e amministrativo. Infine, bisognerà monitorare nel tempo gli impegni sottoscritti dagli investitori, verificando che non restino sulla carta e dimostrando che all’identificazione delle attività strategiche corrisponde un reale interesse al loro mantenimento e sviluppo. Le strutture preposte dovranno, quindi, essere capaci di esercitare un controllo sistematico e prolungato nel tempo.
Vi sono, però, tre aspetti generali che sembrano essere stati sottovalutati, non cadendo nell’illusione che la regolamentazione della proprietà nel mercato della difesa rappresenti la soluzione di tutti problemi:
1. Lo Stato deve essere coerente e credibile. Se definisce un’attività “strategica” o, ancor più “strategica chiave”, deve tenerlo presente nel definire la sua politica industriale, della ricerca, delle acquisizioni e del supporto alle esportazioni. Lo Stato si è assunto una precisa e grande responsabilità nel momento in cui ha ritenuto di definire una normativa specifica per il controllo degli investimenti nell’industria della difesa e della sicurezza. Questo approccio non basta poiché lo Stato non può solo intervenire sull’assetto proprietario. Se vi è un interesse generale a tutelare il mantenimento di determinate capacità tecnologiche e industriali sul territorio nazionale, questo stesso interesse deve pesare anche nelle attività di governo coinvolte;
2. Per quanto perfetta, nessuna normativa può imporre di mantenere un’attività economica in perdita. Le imprese restano e crescono se sono efficienti e competitive.
Questo significa che devono poter operare in condizioni di parità con i concorrenti. In termini generali è riconosciuto da tutti che il mercato italiano è ancora lontano dal livello di efficienza dei principali paesi europei. Nel caso della difesa e sicurezza il distacco è ancora maggiore: basti pensare alla nostra normativa sul controllo delle
esportazioni o alla mancanza di una pianificazione a lungo termine delle spese per la difesa o ai ritardi nei pagamenti delle commesse militari;
3. Poiché questo settore è fortemente condizionato dai finanziamenti pubblici (acquisizioni e partecipazione ai programmi internazionali di armamento da parte della Difesa e sostegno alla Ricerca e Tecnologia (R&T) da parte dei Ministeri della Difesa, dello Sviluppo Economico e della Ricerca), solo la certezza di un livello adeguato di spese per la difesa e, in particolare, per gli equipaggiamenti può rassicurare gli investitori e garantire il mantenimento delle imprese. Le stesse possibilità di esportazione ne sono condizionate perché è l’utilizzo da parte delle Forze Armate che qualifica i prodotti italiani di fronte ai potenziali clienti esteri. Solo se la Difesa potrà continuare a finanziare i suoi programmi di ammodernamento, le imprese resteranno in vita, indipendentemente dalla bandiera.
3.1 Sulla definizione delle attività strategiche chiave in Francia
In Francia non esiste una lista propriamente detta di attività strategiche chiave. Tale scelta è rivendicata dai responsabili governativi che preferiscono parlare, più che di attività strategiche chiave, di “intérêts essentiels de sécurité”, ovvero di interessi essenziali per la sicurezza del paese. Di contro, esiste un complesso sistema di mapping - effettuato dalla Délégation Générale pour l’Armement (DGA) del Ministero della Difesa - delle tecnologie della Base Industriale e Tecnologica di Difesa (BITD) nazionale ritenute “critiche”. Questo sistema di monitoring, che include anche le PMI, serve principalmente ad assicurare alle Forze Armate francesi la sicurezza degli approvvigionamenti – intesa come assenza di restrizioni nell’utilizzo di equipaggiamenti militari. Passando in rassegna il complesso dei documenti di analisi strategica nazionale, si possono identificare, in modo tuttavia imperfetto, alcune capacità che possono essere considerate come “Key Strategic Activities” (KSA), e capire come il Ministero della Difesa francese, e in particolare la DGA, identifichino tali tecnologie (e le industrie che le detengono) per realizzare una sorveglianza sulla loro disponibilità e sul loro controllo.
Questa situazione potrebbe tuttavia evolvere nel 2013. Infatti la redazione, da parte di una commissione governativa, del nuovo Libro Bianco sulla difesa e la sicurezza nazionale, che dovrà fare i conti con l’austerity che s’imporrà anche alla Francia, potrebbe portare all’elaborazione di una metodologia che identifichi in modo più preciso quali sono le attività strategiche chiave da salvaguardare nonostante le riduzioni del budget nazionale. Da ciò risulterebbe un chiaro impulso politico, top-down, che definirebbe precisamente entro quali limiti la DGA possa esercitare la sua autonomia in termini di identificazione e protezione di tecnologie e attività chiave.