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2.2.2 EMI in relazione a CLIL/ICLHE

Nel paragrafo precedente è stato descritto l’approccio CLIL e la sua denominazione accademica, ICLHE perché vi è un’apparente somiglianza fra CLIL o ICL ed EMI, e anche nella letteratura spesso i due termini vengono usati in maniera intercambiabile (Smit & Dafouz, 2012b), oppure uno dei due come sottoinsieme dell’altro (es. Greere & Räsänen, 2008, p. 4). Ciononostante, se messi a confronto (v. Costa, 2015; Airey, 2016; Brown & Bradford, 2017),

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vi sono una serie di differenze tra i due approcci, che in particolare riguardano la scelta della lingua, il suo ruolo nell’insegnamento e gli scopi per cui è utilizzata. Di seguito, verranno presi in esame gli elementi che li caratterizzano e permettono quindi di distinguerli l’uno dall’altro nei vari contesti d’uso.

Innanzitutto, il concetto di EMI implica sempre che la lingua prescelta nei corsi in cui viene attivato sia l’inglese (Dearden, 2015, p. 4), come testimonia la prima lettera del suo acronimo, mentre il CLIL viene talvolta utilizzato per promuovere l’apprendimento di lingue seconde e minoritarie (European Commission, 2006, p. 14), oppure LOTE (Languages Other Than English) come vengono definite nel libro di Coyle, Hood e Marsh (2010, p. 9). È stato anche osservato che: “whilst English is explicitly represented in the EMI acronym, this is not the case with CLIL and ICLHE, even if in reality most of the projects following these approaches are carried out in English” (Costa, 2015, p. 128). Infatti, spesso il CLIL, e soprattutto l’ICLHE vengono messi in pratica attraverso la lingua inglese, che risulta essere la prima lingua straniera insegnata nella maggioranza delle scuole primarie e secondarie (European Commission, 2017, pp. 71-73) e la lingua d’uso nei corsi universitari internazionali (v. cap. 1, par. 1.1.1).

Il modello d’inglese di riferimento deve però ancora essere stabilito, poiché in alcuni dei casi in cui viene implementata una English-only policy (cfr. Tange, 2012), l’inglese dei programmi EMI si basa ancora sul modello del parlante nativo (v. Macaro, 2015) e “thus ignores the development of new varieties of English and the crucial role of English as a lingua franca” (Kirkpatrick, 2014, p. 6). In altri contesti invece, soprattutto nel centro e nord Europa (Björkman, 2016), sono stati condotti una serie di studi che mostrano come l’inglese utilizzato nei programmi EMI con studenti internazionali sia principalmente ELF (English as a Lingua Franca) poiché, come verrà spiegato nel dettaglio al paragrafo 2.2.3, gli studenti provengono da background linguistici diversi fra loro e la lingua viene utilizzata allo scopo di farsi capire e trasmettere contenuti, dando quindi priorità alla fluency rispetto all’accuratezza grammaticale (Jenkins, 2014).

Sempre a proposito dei contesti in cui CLIL, ICLHE e EMI vengono impiegati, il primo si contraddistingue proprio perché si riferisce alle scuole primarie e secondarie in Europa, anche se in alcuni studi viene usato anche in Asia (Robertson & Adamson, 2013) o nel Sud America (Banegas, 2011). L’acronimo ICLHE è stato creato specificatamente per l’ambito accademico, a partire dalla prima, omonima conferenza tenutasi nel 2003 a Maastricht (Wilkinson, 2004).

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L’EMI invece è utilizzato in Europa per indicare il contesto accademico (Wilkinson, 2017), mentre in Asia ad esempio compare anche nell’ambito scolastico (Wannagat, 2007).

Dal punto di vista delle abilità linguistiche richieste in entrambi i paradigmi, “[CLIL] differs from simple English-medium education in that the learner is not necessarily expected to have the English proficiency required to cope with the subject before beginning study” (Graddol, 2006, p. 86). Una delle principali differenze consiste nel fatto che l’approccio CLIL non dà per assodata la conoscenza linguistica degli studenti, come avviene per l’EMI: “This is because EMI, unlike its European, largely secondary education, counterpart ‘Content and Language Integrated Learning’ […] does not have, either in its title or clearly articulated in its educational policy, an aim to ‘teach English’ – merely that the subject content will be taught through English” (Dearden, Macaro & Akincioglu, 2016, p. 52). Infatti, in questi programmi si tende a considerare che gli studenti abbiano già una preparazione sufficiente a comprendere una disciplina in inglese (Unterberger, 2012, p. 93), sia a causa della loro età che del loro livello di conoscenza della lingua straniera acquisito a scuola nel corso degli anni (Costa & Coleman, 2012, p. 3; v. Dafouz & Smit, 2012b). In molti casi inoltre viene somministrato un test d’ingresso in cui vengono valutate le competenze di partenza (Unterberger, 2012), oppure viene richiesto un attestato che le certifichi. È stato comunque suggerito che tutti gli studenti dovrebbero sostenere un test d’ingresso poiché i loro livelli di conoscenza dell’inglese possono variare molto a seconda anche del paese di provenienza (p.88).

Nei programmi CLIL invece, è insito nelle teorie alla base di questo approccio il fatto di prevedere forme di progressione linguistica in cui le difficoltà inerenti al contenuto e alla lingua vengono calibrate in base ai bisogni degli studenti (es. Coyle et al., 2010, p. 38). Esempi di questo tipo sono la didattizzazione di materiali autentici (v. Wolff, 2003, p. 4), che vengono così adattati alle capacità degli studenti, e forme di supporto come lo scaffolding (Coyle et al., 2010). Quando la componente linguistica viene resa più evidente, è possibile ottenere una maggiore consapevolezza, perché si passa dalla semplice acquisizione incidentale dell’EMI (Brown & Bradford, 2017, p. 330) al più strutturato apprendimento linguistico del CLIL (Sisti, 2017, p. 181). Alcuni studi intravedono nel focus-on-form (Pérez-Vidal, 2007; Costa, 2012) una modalità con cui promuovere una maggiore attenzione verso la lingua nelle classi CLIL e ICLHE.

Un’altra delle proprietà che differenziano l’EMI dal CLIL è l’approccio alla metodologia, che nel caso dell’EMI, come è stato accennato nel paragrafo 2.1.3, è ancora in fase di evoluzione

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perché il fenomeno si è diffuso senza che vi fosse una pianificazione a monte (Denver et al., 2016), e solo successivamente la ricerca si è occupata di investigarne la dimensione didattica (Wilkinson, 2017). Inoltre, proprio la varietà di contesti in cui si è sviluppato aggiunge complessità ad un fenomeno che presenta molte sfaccettature (v. Dafouz & Smit, 2014). Il CLIL al contrario si è affermato come approccio anche grazie al sostegno del suo impianto teoretico (cfr. Coyle et al., 2010), i cui principi pedagogici sono stati descritti nel paragrafo 2.2.1. Tuttavia, se l’EMI è criticabile in quanto non propone una vera e propria pedagogia, anche le concezioni CLIL non sono esenti da critiche (v. Dalton-Puffer, Nikula & Smit, 2010, p. 284). Il processo di implementazione del CLIL è partito sia per iniziativa dei docenti, con una prospettiva bottom-up, che attraverso politiche europee (Nikula, Dalton-Puffer, & Llinares, 2013); in particolare in Italia, dove il Ministero dell’Istruzione lo ha reso obbligatorio con un decreto (par. 2.2.1). I programmi EMI sono solitamente il risultato di politiche top-down (Wächter & Maiworm, 2015; Wilkinson, 2017; cfr. Costa & Coleman, 2012, p. 3), ad eccezione di alcuni casi (Dafouz, Camacho & Urquía 2014, p. 227), soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale, in cui si vuole stare al passo con i programmi in inglese proposti nei paesi dell’Europa settentrionale e centrale (cfr. Björkman, 2016).