Type of course
2.3 Stato dell’arte sull’EM
2.3.2 Studi sui problemi dello staff accademico
Dagli studi condotti in questi anni sulle conseguenze derivanti dal passaggio ai programmi EMI sono emerse alcune problematiche, i cui aspetti generali sono stati trattati nel paragrafo 2.1.3. In particolare, nell’ambito dell’insegnamento, sono state rilevate una serie di difficoltà, talvolta espresse dai docenti stessi e talvolta dagli studenti, che verranno analizzate qui di seguito. Dal punto di vista dei docenti, i problemi riscontrati riguardano principalmente: a) l’uso della lingua, sia in classe per insegnare che al di fuori, nelle comunicazioni con gli studenti; b) l’impegno che richiede il passaggio dei materiali didattici da una lingua all’altra, inclusa la pianificazione delle lezioni; c) il tipo di impatto che la lingua ha sugli studenti, con ripercussioni anche sulla metodologia.
Airey (2011), in uno studio in cui ha monitorato e intervistato i docenti durante un corso di formazione, ha rilevato nove tematiche ricorrenti che riguardavano i problemi percepiti dai docenti. I primi tre problemi, che Airey denomina: “short notice, no training, more preparation” (p. 43) sono di tipo organizzativo, e talvolta sono collegati l’uno all’altro. Infatti, i docenti lamentano la mancanza di un preavviso sufficiente da parte delle amministrazioni nel momento in cui viene chiesto loro di insegnare in inglese. Le tempistiche ristrette, in alcuni casi, fanno parte del mondo accademico ma quando devono preparare un corso in inglese, i docenti affermano di aver bisogno di più tempo per creare i materiali e le lezioni. Lo stesso problema era stato riportato in uno studio di Vinke, Snippe e Jochem (1998), in cui il 67% dei docenti “need (much) more preparation time when they conduct an English-medium course for the first time” (p. 387). Da qui nasce anche la necessità di forme di supporto che possano aiutarli a prepararsi (v. Martin del Pozo, 2017; Fortanet, 2008).
I temi centrali “less detail, less flexibility, less fluency” (Airey, 2011, pp. 44-47) riguardano i problemi linguistici dei docenti, che si sono resi conto di fornire meno dettagli e di essere meno precisi quando spiegano in inglese. Ciò è dovuto a una minore competenza linguistica nella LS, che li porta ad usare il linguaggio in maniera meno flessibile, evitando esempi complessi, riducendo l’interazione in classe e la riformulazione dei concetti, anche a causa delle loro maggiori incertezze nell’uso delle parole. A conseguenza di ciò, i docenti non si sentono in grado di correggere gli errori linguistici dei loro studenti, come invece avrebbero fatto nella loro lingua materna. Le note positive finali indicano però che dopo essersi osservati nelle registrazioni delle mini-lezioni che avevano preparato durante il corso, i docenti hanno notato
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che c’erano poche differenze fra il loro modo di insegnare in svedese e in inglese, e ciò li ha aiutati a rafforzare un po’ la fiducia nelle proprie competenze (Airey, 2011 pp. 47-48).
Al contrario, Thøgersen (2013), in uno studio in cui mette a confronto le registrazioni di lezioni tenute da docenti danesi sia nella loro lingua che in inglese, ha trovato una serie di differenze fra le modalità in cui le due lingue vengono utilizzate durante le spiegazioni. Ad esempio, il linguaggio delle lezioni in inglese è risultato molto più formale e simile alle forme dei registri scritti, invece che a quelli del parlato. Inoltre, il registro delle lezioni in inglese assume dei tratti che lo fanno assomigliare a “larger, more monologic English L1 lectures” (2013, p. 195). Una maggiore formalità del registro delle lezioni in inglese non è interpretata positivamente da Thøgersen, che vede nello stile più informale utilizzato nelle lezioni in danese uno strumento pedagogico per aiutare gli studenti a colmare il gap tra il discorso scientifico e quello quotidiano (p. 196). Tuttavia, Thøgersen riconosce anche che se il focus delle lezioni è quello di fornire agli studenti il linguaggio appropriato per esprimere concetti in una certa disciplina, allora è necessario essere più formali, mentre se lo scopo è quello di guidare gli studenti nella comprensione dei concetti, allora una modalità più discorsiva ed argomentativa risulta più appropriata (pp. 196-197). Il suo studio vuole puntare l’attenzione sul fatto che nel cambiamento da una lingua di insegnamento all’altra, i docenti si trovano a dover cambiare il registro linguistico delle loro lezioni, con conseguenze sul loro modo di insegnare.
Nello studio di Tange (2010) compare inoltre un altro aspetto che riguarda il registro linguistico. Dalle sue interviste a 21 docenti danesi è risultato che il fatto di insegnare in un’altra lingua abbia modificato il modo in cui i docenti si rapportano agli studenti. Da un lato, i docenti “will stick to a purely academic discourse” (p. 143), limitando il numero delle informazioni che usualmente accompagnano il discorso accademico nella spiegazione di modelli e concetti teorici (p. 143). Il fatto di insegnare in inglese ha ridotto l’uso di aneddoti, esempi e battute semplicemente perché spesso non si possiede la stessa varietà lessicale che permette di spaziare da un argomento formale e tecnico ad un argomento più generale, che appartiene ad un registro meno formale:
Several respondents ascribe this to a lack of subtleties and details in the second language, which confines them to a linguistic space that is too narrow for their purposes. However, the lecturers’ situation is more complex than this as many will possess a very sophisticated English terminology in relation to their field of academic expertise and yet miss the words and phrases that enable them to engage in casual exchanges. (Tange, 2010, p. 142)
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La mancanza del lessico adatto per esprimere humor oppure comunicare in maniera più colloquiale è stata rilevata anche dallo studio di Klaassen e De Graaff (2001). Si tratta di un aspetto che influisce sia nell’ambiente interno che in quello esterno alla classe. All’interno perché, come è stato notato anche da Thøgersen (2013), il linguaggio sembra essere ingabbiato in una cornice puramente formale ed accademica. All’esterno della classe invece le ripercussioni si avvertono nelle situazioni più informali, come ad esempio nelle relazioni con gli studenti internazionali, che fanno più fatica a mettersi in contatto con i docenti (Gundermann, 2014), oppure nelle situazioni “sociali” come nei convegni all’estero, e nelle conversazioni con i colleghi di altri paesi.
Il problema del registro viene probabilmente avvertito anche dallo staff amministrativo, che nelle comunicazioni a studenti o docenti stranieri potrebbe avere delle indecisioni sul livello di formalità di certi vocaboli, oppure non saper utilizzare quella gamma di “espressioni di cortesia” che regolano le interazioni sociali sia scritte che orali. Il fatto di operare in un ambiente internazionale richiede infatti di saper acquisire nuove competenze (van der Werf, 2012), anche linguistiche. In connessione a questa minore flessibilità di registro, vi è il problema della mancanza di spontaneità, varietà di vocabolario ed improvvisazione che può essere dovuta alla competenza linguistica, ma anche ad altre cause, se anche i parlanti più esperti incontrano difficoltà (Tange, 2010, p.143). La preoccupazione per una perdita di spontaneità e di controllo sulla situazione comunicativa è stata osservata anche nello studio di Helm e Guarda (2015, p. 363) e da Airey (2011).
Sulla base di queste problematiche linguistiche, ci si domanda come si possa stabilire quale sia il livello di competenza nella lingua inglese che i docenti dovrebbero possedere per poterla utilizzare nell’insegnamento. Come osservato da Lavelle (2008), nel momento in cui ci si pone questa domanda diventa necessario trattare anche questioni come gli standard di qualità, e i faculty development, ossia come fornire al personale accademico gli strumenti per potersi migliorare (p. 138). Due aspetti in particolare risultano essere essenziali secondo Lavelle (2008, p. 143) al fine di migliorare gli standard linguistici: padronanza della lingua (fluency) e correttezza nell’uso (accuracy). Questi due aspetti sono considerati anche da Klaassen (2008, p. 195), nel cui studio si afferma che la competenza linguistica ideale per un docente universitario dovrebbe raggiungere almeno il livello C1 del CEFR (p. 194), perché a quel livello un parlante è in grado di:
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Can express him/herself fluently and spontaneously, almost effortlessly. Has a good command of abroad lexical repertoire allowing gaps to be readily overcome with circumlocutions. There is little obvious searching for expressions or avoidance strategies; only a conceptually difficult subject can hinder a natural, smooth flow of language.
Can use the language fluently, accurately and effectively on a wide range of general, academic, vocational or leisure topics, marking clearly the relationships between ideas. Can communicate spontaneously with good grammatical control without much sign of having to restrict what he/she wants to say, adopting a level of formality appropriate to the circumstances. (Council of Europe, 2002, p. 74; in Klaassen, 2008, p. 195)
Nello studio di Lavelle (2008), ad esempio, il livello di padronanza della lingua viene avvertito quando un discorso contiene delle pause notevoli, che lo rendono meno fluido, e il suo contenuto risulta meno comprensibile da assimilare. Queste pause possono essere dovute allo sforzo di dover seguire il filo conduttore dei propri pensieri e al contempo di riuscire ad esprimerli in un’altra lingua, oppure alla mancanza del vocabolo più adatto con cui esprimere tali concetti. È stato inoltre riportato (Hellekjaer, 2010; Klaassen, 2008, p. 195) come gli errori di pronuncia, con maggiore frequenza rispetto a quelli grammaticali (Lavelle 2008, p. 143) possono deviare l’attenzione dell’ascoltatore, che passa così dal discorso alla parola inesatta, e causarne il disinteresse (p. 143). In entrambi i casi, la percezione che il parlante proietta di sé stesso risulta meno efficace, e con il tempo, ciò può provocare mancanza di sicurezza o fiducia nelle proprie capacità (Tange, 2010, p. 144). Inoltre, il fatto di focalizzarsi solamente sulla lingua e sul modo in cui ci si esprime, ha delle conseguenze sul modo di insegnare:
the focus on language production influences the lecturers’ didactical skills in the sense that they are less flexible in conveying the contents of the lecture material, resulting in long monologues, a lack of rapport with students, humour and interaction. (Klaassen & De Graaff, 2001, p. 282) Perciò, l’aspetto linguistico è solo una delle componenti che devono essere considerate, poiché il linguaggio utilizzato deve innanzitutto permettere la trasmissione e la comprensione di concetti:
didactic discourse does not simply involve a change in language, but it also involves the ability to use a foreign language for didactic purposes. In other words, in EMI lecturers convey meaning ‘through’ English, rather than ‘in’ English. (Mariotti, 2013, p. 83)
Per fare in modo che la complessità delle conoscenze, concetti e idee trasmesse in ambiente accademico divengano accessibili agli studenti e siano compresi efficacemente, è necessario
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che siano accompagnati da una serie di abilità comunicative, non solo linguistiche. Infatti, per mettere gli studenti in grado di seguire “the lecturers’ line of thought” (Hellekjaer, 2010, p. 249), è importante che le lezioni siano ben strutturate attraverso l’uso di “metadiscursive devices” (Dafouz Milne & Núñez Perucha, 2010). Tali segnali metadiscorsivi servono ad organizzare il discorso (sia parlato che scritto), guidando l’ascoltatore (o lettore) grazie all’uso di una serie di espressioni (es. signposting). Nello studio di Dafouz Milne e Núñez Perucha (2010) è presente una tassonomia di queste espressioni (p. 220), ciascuna legata ad una fase specifica della lezione accademica, che è il risultato dell’analisi delle lezioni di docenti universitari sia in spagnolo che in inglese (p. 221). Dal loro confronto fra le lezioni in L1 e LS, risulta come i docenti cerchino di replicare il loro stile di insegnamento nel cambiamento da una lingua all’altra. Tuttavia, vi sono delle differenze nel grado di esplicitezza con cui segnalano le transizioni da una fase all’altra della lezione (p. 229).
L’aspetto metadiscorsivo del linguaggio accademico non viene solitamente considerato nel momento in cui si insegna nella propria lingua perché rimane spesso implicito o inconsapevole. Tale aspetto dovrebbe invece essere tenuto maggiormente presente quando il discorso accademico avviene in situazioni in cui si utilizza la lingua inglese come lingua franca (v. Mariotti, 2013, p. 83) perché i background e le abilità linguistiche degli studenti possono variare notevolmente (Björkman, 2016; Earls, 2016) e rendere più o meno difficoltosa la comprensione (Hellekjear, 2010). In base a questo ragionamento, si rende necessario il fatto che: “subject matter instructors should not only develop more effective classroom behaviour to address the deficiencies in their teaching skills, but also address the needs of these non-native-speaking students” (Klaassen & De Graaff, 2001, p. 282).
Gli studenti infatti, come osservato nello studio condotto da Klaassen e De Graaff (2001) lamentano una mancanza di chiarezza da parte dei docenti che insegnano in inglese. Il concetto di “chiarezza” utilizzato dagli studenti in questo studio comprende la capacità di mantenere l’attenzione sull’argomento, l’uso di contatto visivo e gestualità, e il saper comunicare entusiasmo ed usare specifici esempi secondo dei contesti appropriati, grazie anche al supporto di immagini, schemi e ripetizione dei concetti importanti (Klaassen & Bos, 2010, p. 63). Perciò, come affermato anche da Lavelle (2008, p. 142) la situazione ideale per un docente avviene quando riesce ad utilizzare un’ampia gamma di strategie didattiche non solo nella propria lingua, ma soprattutto nella lingua inglese.
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Queste problematiche di tipo pedagogico e linguistico tendono a rimanere in secondo piano (Helm & Guarda, 2015, p. 356), perché l’interesse per questioni riguardanti l’integrazione tra l’apprendimento linguistico e disciplinare viene espresso principalmente dai linguisti e dai docenti di lingua, mentre:
In contrast, politicians, university authorities, administrators, as well as part of the lecturing staff (i.e. content specialists) have initially engaged in this new scenario by embracing a top- down internationalisation plan alongside a chance for professional and academic development; a scenario wherein pedagogical concerns and, more specifically, language learning matters are usually of secondary importance. (Smit & Dafouz, 2012b, p. 3)
Tuttavia, sembra che la necessità di una qualche forma di pedagogia non possa essere ignorata (v. Klaassen, 2008, p. 41) perché i docenti che si trovano a dover affrontare delle sfide sempre più complesse, come quella d’insegnare nell’era della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica, avvertono con maggior forza il bisogno di una preparazione didattica mirata, che sia adeguata alle difficoltà incontrate. La natura dell’EMI, se da un lato crea un senso di disagio per le problematiche che porta con sé, dall’altro può portare a nuove riflessioni sulle pratiche d’insegnamento (Guarda & Helm, 2016, p. 13) e forse può anche servire a rimettere in questione convinzioni metodologiche tradizionali.