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30Ibidem.

natura del legislatore che deve prestare attenzione il politico prudente più che ai giuramenti e al contenuto delle leggi poste in essere. I cit- tadini infatti obbediscono al comando senza riflettere in alcun modo intorno alla sua «giustezza»32. Il comando e l’obbedienza sono i due fondamenti di ogni governo politico, scriveva Althusius nella sua

Politica, riassumendo una idea che da Bodin in poi costitì il nucleo

centrale di ogni teorica politica intorno allo Stato33.

La questione dell’obbedienza dovuta al precetto del superiore fu particolarmente sentita nella controversia giurisdizionale tra il papato di Paolo V e la Repubblica di Venezia, per l’Interdetto del 160534. Fu una disputa intorno alla giurisdizione pontificia, ma i termini in cui la contesa venne affrontata dai teologi veneziani e quelli pontifici (tra i quali vi furono Roberto Bellarmino, Antonio Possevino, Ascanio

32Cfr. FRANCESCO GUICCIARDINI, Ricordi, cit., C 128, p. 139: «Nelle cose degli Stati non bisogna tanto considerare quello che la ragione mostra che dovessi fare uno principe, quanto quello che secondo la sua natura o consuetudine si può credere che faccia; perché e principi fanno spesso non quello che doverebbono fare, ma quello che fanno o pare loro di fare; e chi si risolve con altra regola può pigliare grandissimi granchi».

33JOHANNES ALTHUSIUS, Politica Methodice Digesta, cit., pp. 4-5; Tra i primi a riprendere puntualmente il precetto bodiniano (Rep. I, 3)fu PIERRE CHARRON, De la

Sagesse, Paris, 1601, L. I, cap. XLI «Du commander & obeyr», in L’assolutismo laico, cit., pp. 97-98: il comandare e l’obbedire sono per Charron i «due fondamenti

di ogni società humana, et della diversità degli stati et delle professioni». Intorno al problema dell’obbedienza dovuta al precetto della legge cfr. MICHEL DE

MONTAIGNE, Les Essais, cit., L. III, cap. 13, Dell’esperienza (L’assolutismo laico, cit., pp. 72-76), p. 75: «Hora le leggi conservano il loro credito, non perché sono giuste, ma perché sono leggi. Questo è il fondamento mistico della loro autorità [...]».

34Cfr. C

ESARE SPECIANO, prop. 823: «Le presenti differenze, che sono tra la San-

tità di Nostro Signore Paolo quinto, et li Venetiani, m'hanno dato occasione di fare questo ricordo. Dicendo, che necessariamente sarà difficile la concordia, se li Vene- tiani, come Christiani, et Savii, come sono temuti non si voranno rimettere nella determinatione della Causa a S. Santità massime essendo questa materia, che così lo ricerca, perché io considero, dovendosi disputare, che li Venetiani, sebene Christiani hanno le loro leggi tutte differenti dagl'altri prencipi Christiani, li quali nei loro Consegli hanno Teologi Canonisti, et Legisti, secondo il parere de’ quali, nelle Cau- se di Giustitia, si governano per il più, o almeno dicono di doversi governare. Ma li Venetiani, si come essi poco, o di rado studiano in quelle scienze, rnà solo nella Filosofia, o Statuti loro, cosi non amettono quelli, che le hanno studiate, nei loro Consegli, et per ciò hanno spesso pensieri, et fini del tutto diversi, et credono esser- gli lecito quello, che niun'altro prencipe Christiano, s’attribuisce. Per questo dico, ch’il contendere con detti Venetiani di cose di Giustitia, ancor che chiara, come è l’acusa, che hora pende, è come se un Teologo, et un Gramatico Semplice dispu- tassero insieme de’ rebus fidei, perché hanno principii tutti diversi».

Colonna, Cesare Baronio e Paolo Comitolo, per ricordarne solo alcu- ni), rivelò presto un vero e proprio conflitto di sovranità. I punti della controversia vennero così riassunti dai teologi veneziani nella intro- duzione alle proposizioni del trattato35:

Sono alcuni, i quali per provare, che gli ecclesiastici di questo Stato sono obligati a servare l’Interdetto et che il Prencipe debba consentirlo, si reputano poterlo fare efficicacemente, quando haveranno mostrato, che al precetto del Papa giusto si deb- ba da ogn’un obbedire: et in provar questo s’affaticano molto, et a giudicio nostro soverchiamente, et fuori del caso. Poiché prontissimamente sarà loro concesso non solo questo, ma che al precetto del Prencipe et del Magistrato giusto sia debita l’obedienza: et per ampliar maggiormente la loro propositione diremo, che è debita l’obedienza al precetto giusto del Padre, del Padrone, del Marito. Se vogliono ridur- re la propositione sua alli termini convenienti più tosto doveranno dire: al precetto giusto di qualunque Superiore si debbe obedire per non incorrere in peccato; imperò che porta talmente seco il giusto precetto il debito dell’obedienza, che è contradittio- ne trovar l’uno senza l’altro. Tutta la difficoltà sta in dimostrare, che questo sia precetto giusto: imperò che come ogn’uno, che commanda, appresso la qualità di Superiore, ve n’ha un’altra congionta di essere soggetto al fallare come huomo [...].

Era dunque necessario stabilire la giustizia del precetto prima di prestare obbedienza. Ciò valse nella controversia dell’Interdetto tanto per la parte pontificia (che ammetteva il tirannicidio), quanto per la parte veneziana che dimostrava come “la sentenzia iniqua et nulla (etiamdio del Sommo Pontefice) è un abuso di potestà et per tanto violenza, alla quale è lecito et necessario a chi non ha prencipe supe- riore, che lo difendi, opporsi con tutte le forze che Dio ha concesso; castigando li esecutori salva sempre la reverenza alla sede Apostoli- ca”36.

Questi erano alcuni dei problemi che il dovere d’obbedienza del cittadino alla volontà del sovrano poneva. I teologi veneziani si do- mandavano con quale metro dovesse essere giudicata la giustizia e la bontà del precetto di legge. Per lo Speciano la legge doveva rispon- dere a un criterio di bene comune da perseguirsi non solo con l’istituzione della legge, ma anche con la sua «essecutione». Nel pen- satore cattolico, il problema dell’effettività del diritto investe non solo la sola sfera giuridica ma anche quella più elevata della legge etica.

Il diritto è la scienza «perfetta» dello Stato, scrive lo Speciano, al punto che «in tutti li magistrati, et dignità di grande autorità, si dove-

35Trattato dell’Interdetto Della santità di Papa Paulo V., cit., ff. 2r-v. 36Ibid., prop. Decimasesta, f. 16v.

riano fuggire quelli, che non hanno scienza legale»37. Infatti se all’autorità non segue la precisa conoscenza della scienza giuridica, il politico «fa ogni cosa a modo suo, et non si cura di quello, che co- mandano, o prohibiscono le leggi, anzi s'imagina che le leggi siano una scienza come l'altre, che puoco importi a servarle compitamente, come verbi gratia, d'essere pittore, di scrivere elegantemente latino, che se bene non si sodisfà intieramente, puoco importa, onde questo Signore fa delle leggi, come faria delle arti meccaniche, et per questo fa la Giustitia come vuole, il che non faria, se sapesse, che le leggi sono perfette, et che perfettamente s'hanno da osservare, et ch'ogni mancamento in esse è grave peccato»38. Il diritto non è un’arte e neppure può paragonarsi alle altre scienze tecniche. La sua importan- za è superiore, poiché attiene al bene pubblico, eccezion fatta per la teologia, ove «ogni diffetto è grand’errore, come lo giudicano anche li veri periti nell’arti meccaniche, li quali notano per grave errore cose, che veramente, non lo sono, se non apresso dei detti Periti, ma finalmente al bene publico puoco importano»39. La differenza tra scienza giuridica e le altre scienze sta tutta qui: i difetti della giuri- sprudenza attengono al bene pubblico, quelli delle scienze attengono solo agli scienziati. È solo quando l’azione politica coinvolge il si- stema giuridico che l’intero assetto statale entra in crisi: le continue deroghe e le dispense alle leggi positive, che si sogliono indicare come prerogative del sovrano, «le snerva, et le leva il credito, mo- strando con tanta frequenza di dispense, che non è male ciò che la legge vieta et comanda, se non in quanto piace al principe»40. In tal modo «gl’huomini creddono che la legge non serve ad altro che all'u- tilità o gusto del prencipe; et perciò è puoco stimata dai sudditi, non tenendo per buono o cattivo ciò che si comanda o prohibisce, se non quanto vuole il medemo principe», così seguono violazioni frequenti del diritto che non avverrebbero se «se tali li tenesse lo stesso pren- cipe, et mai violasse le leggi»41. Subito però lo Speciano corregge il discorso, affermando che il sovrano dovrebbe derogare solo «per maggior beneficio publico, per il quale principalmente si fanno le buone leggi»42. Il Cremonese indica il bene pubblico come rispon-

37C

ESARE SPECIANO, prop. 120.

38Ibidem. 39Ibidem. 40Ibid., prop. 662. 41Ibidem. 42Ibidem.

dente ai due criteri di «pace e giustizia». Solo nell’evenienza che uno dei due termini venisse meno all’interno dello Stato il sovrano è au- torizzato a derogare alla legge. Egli infatti scrive che «ove non è Giustizia non può anc’essere la Pace»43, poiché, prosegue traendo il suo exemplum dal salmo 84. 11, «Justitia et pax osculatae sunt»44. Benché non sempre la mancanza di un ordine giuridico conduca alla guerra «non di meno la ci è sempre tra i cittadini perché si veggono morte, latrocinii et altri mali infiniti, simili a quelli della guerra, et però dove non è giustizia ogni buono deve fuggire di stare»45. La giustizia e l’ordine sono connaturati alla tutela e conservazione dei buoni costumi di un popolo, i quali, se trascurati dal sovrano, gene- rano «violenze, l’inimicitie particolari, et finalmente il puoco rispetto verso il prencipe, et in conseguenza l'oppressione della giustizia, et qualche volta ancora il desiderio della mutazione dello Stato», per cui «li mali costumi non corretti sempre diventano peggiori»46. Il binomio ‘giustizia e pace’ è quello col quale il Botero apre il capitolo Della giustizia nella Ragion di Stato, con un tono assai pros- simo al Cremonese47:

Ora, il primo modo di far bene a’ sudditi si è conservare e assicurare la giustizia, nel che senza dubbio consiste il fondamento della pace e lo stabilimento della concordia de’ popoli.

Ciò che risulta impraticabile per lo Speciano è proprio questa as- similazione del binomio con l’idea stessa di ragion di Stato del Bene- se. I due termini Justitia et pax, nei quali lo Speciano individua il bene pubblico e la finalità stessa dello Stato, hanno il medesimo si- gnificato che il suo primo editore, Ludovico Antonio Muratori, indi- rizzava al principe vescovo di Salisburgo Andreas Jacob von Dietri- chstein, per riassumere il concetto della Pubblica Felicità, nella de- dica che apriva la prima edizione veneziana del 1749. Nel binomio

amore et iustitia «spezialmente è riposta la Felicità sperabile di un

terreno governo»48.