44Ps. 84.11: «iustitia et pax deosculatæ sunt». 45CESARE SPECIANO, prop. 5.
46Ibidem.
47GIOVANNI BOTERO, Della Ragion di Stato, cit., pp. 71-73. 48L
UDOVICO ANTONIO MURATORI, Della pubblica felicità, a c. di C. Mozzarelli,
Era dunque nel solo caso di un maggior beneficio pubblico che poteva praticarsi la deroga alla legge che costituiva il dilemma delle teorie intorno alla ragion di Stato. Nel pensiero del Cremonese ciò rispondeva a un ben individuabile impianto giuridico che poneva al centro della questione l’«equità», individuata come strumento «cor- rettore della legge» di cui è dotato il giudice nel momento che sta tra la formulazione e l’applicazione della legge positiva ai casi particola- ri. Lo spazio riservato all’azione politica è quello che sta tra la regola giuridica e l’accidente non ricompreso nella stessa: è in quel momen- to che il sovrano è chiamato a decidere «secondo coscienza»; ope- rando una scelta politica. Quella coscienza che Bodin voleva definita
more geometrico. In tal senso lo Speciano più che al Bodin si accosta
all’Albergati impegnato nella confutazione della République bodi- niana, il quale rifonda esclusivamente il principio della deroga alla norma giuridica sulla categoria romanistica dell’equità. La «sindere- si», di cui parlava il Guicciardini risultava assente negli scrittori della ragion di Stato, Botero compreso. In tale giudizio risiedeva la re- sponsabilità del sovrano verso i propri sudditi.
Se il principio di equità stava alla base dell’idea di giustizia bodi- niana, per cui nel momento di necessità o di vuoto legislativo è l’equità il solo principio ispiratore del sovrano, cioè di colui che e- sercita un «governo giusto», non di meno lo stesso Albergati, che costituisce una fonte del Cremonese, riproponeva l’assunto proprio nella sezione dei suoi Discorsi dedicata alla confutazione dell’ideale armonico di giustizia49. L’equità è definita da Albergati nella Tavola delle cose notabili, come «correzione della legge». Essa da sola è sufficiente per spiegare la vanità della «proportione harmoniosa [...] al governo degli Stati»50:
E quanto alle leggi, all’equità, all’esecutione della legge, & al debito del magistrato è soverchia [la proporzione harmoniosa]; perché i politici hanno in ciò posto la vera regola, con la quale il giudice retto non può errare, conciosiache, havendo considera- to, che le cose agibili, sopra le quali si formano leggi per essere contingenti in diver- se & infinite guise si succedono, e che dalla legge tutti i casi non possono essere compresi, hanno à cotali eventi incerti, & indeterminati lasciata una regola simil- mente indeterminata, la quale non s’appropriando solamente ad un caso, non viene ad essere inutile à gli altri. E regola indeterminata intendo comune, e non sotto una
49F
ABIO ALBERGATI, Dei discorsi politici libri cinque. Nei quali viene riprovata
la dottrina di Gio. Bodino, e difesa quella di Aristotele, cit., III, 9, pp. 276-289; pp.
276-277. 50Ibidem.
particolare forma, che ad uno particolare caso solamente sodisfaccia, ma che à tutti si possa indifferentemente accomodare, e questa è stata l’equità, la quale essendo (come si vede nel lib. V dell’ ethica)51 una correzione della legge nella parte, nella quale manca, secondo che correggendo farebbe il legislatore , se fosse presente; dimostra che ‘l giudice retto, nel caso della rigorosa legge servendosi dell’equità, conforme al legislatore interpretando & esequendo la legge opererà rettamente, e per beneficio publico, com’è obligato; e da cotale interpretatione del giudice discreto nascerà fra la legge, l’equità, e l’esecutione della legge, & il debito del magistrato, e del giudice unione grandissima senz’altra proportione harmoniosa; in modo che si vede ch’essa è soverchia [...]
Su quest’ordine d’idee si fonda anche il pensiero dello Speciano. Non è un caso che proprio al passo dedicato da Albergati all’equità seguisse la sanzione dell’impraticabilità della giustizia armonica, inadattabile ai casi concreti, poiché «essendo gli accidenti [...] inde- terminati, e la proportione harmoniosa determinata sotto tali numeri [...] non si potranno mai accomodare»52.
Il sovrano deve governare e giudicare secondo equità, poiché essa stessa è il metro col quale si commisura il bene pubblico. Il sovrano è obbligato al perseguimento del bene pubblico, scriveva l’Albergati, fin dal momento in cui assume la sovranità. Infatti, rimarca lo Spe- ciano «tutti li prencipi doveriano conoscere l’obligo loro di gover- nare bene li sudditi, che hanno, perché cosi gl’obliga la legge di Dio, et il carico della propria coscienza, et quanto più essi prencipi sono grandi, tanto maggiormente lo doveriano fare. Il che sebene credete, che tutti confesseranno esser vero, nondimeno, si vede, che molti non lo fanno, mostrando in questo non solo poca coscienza dell’obligo loro, et la poca coscienza che hanno, ma anche pochissima prudenza humana non che celeste, perché, l’ho detto spesse volte, se li prencipi (massimamente grandi) governassero santamente li loro sudditi con Giustitia, et senza aggravarli ingiustamente son sicuro che de’ potenti che adesso sono col tempo diventariano potentissimi»53. Così anche il sovrano, giudice supremo, derogherà alla legge solo perseguendo la finalità che è connaturata nell’obbligo assunto, vincolante tanto verso Dio, quanto verso i sudditi. Il Cremonese ammonisce così il principe dal trascurare la giustizia, poiché non resterebbe altra solu- zione, per ripristinare l’ordine, che la via «politica» essendo «neces-
51A
RISTOTELE, Eth. Nic., V, 14, 1137a 32 ss.
52FABIO ALBERGATI, Dei discorsi politici libri cinque. Nei quali viene riprovata
la dottrina di Gio. Bodino, e difesa quella di Aristotele, cit., p. 277.
sario, ch’egli diventi mal prencipe, et scandalizzi li suoi Sudditi, et perdi tanto credito, ch’anche quando qualche volta farà giustitia, sarà interpretato male, perché vedendo l'huomo, che per il più non si fa giustitia no la potrà sofferire, quando sarà fatta contra di lui, ancor che giustamente perciò che crederà, che sia proceduto da particolare male volontà, atteso che per l’ordinario il Principe non vuole far giu- stitia a chi l’ha»54. La moralità che presiede ad ogni ordine giuridico deve essere tenuta al riparo dall’ingerenza della politica di interessi. Il sovrano diveniva un tiranno nel momento in cui trasformava il diritto in un mezzo, aveva scritto Bodin. «L’uso del diritto quale mezzo distingue il governo di un tiranno da quello di un re buono e giusto: mentre quest’ultimo commisura i suoi costumi e il suo com- portamento al metro della legge, il tiranno adatta la legge ai suoi co- stumi»55. Si trattava dunque di scongiurare la possibilità che «droit» assumesse il significato di «moyen». L’ideale appello all’equità ri- spondeva a tali criteri, alla necessità di rinvenire nel diritto un vero e proprio limite per il governo politico. Ciò, si è detto, restava l’ideale nella pratica non restava altro se non l’amara attestazione dell’impraticabilità delle regulae iuris ai nuovi sviluppi politici degli Stati. È questa la prima testimonianza che può offrire lo scritto dello Speciano. La costante tensione tra realtà e prassi caratterizza la scrit- tura discontinua del nunzio nell’incessante ricerca di un argine giuri- dico e se si vuole teologico alla ragione degli Stati, così come andava evolvendosi. In tal senso va letto il suo pieno e pessimistico ricono- scimento di una realtà nuova, e il suo tentativo di rimanere ancorato a un ordine giuridico tradizionale. «Anticamente», scrive Speciano, «gl’huomini erano più amatori, et zelanti della Giustitia in castigare li delinquenti, che non sono adesso», al punto che molte furono le leggi create appositamente per evitare gli abusi della giustizia e tute- lare i rei; però, postilla l’Autore, ora che è venuto meno «quel zelo [...] converria per servicio della Giustitia, lasciare ai Giudici più li-