• Non ci sono risultati.

88F

RANCESCO GUICCIARDINI, Ricordi, cit., B 110 (A 87), p. 244: «Chi non sa che

se el papa piglia Ferrara, sarà sempre obietto de’ futuri pontefici lo insignirorsi di Toscana? perché el regno di Napoli ha troppa difficultà essendo in mano di potenti».

pratica politica, dell’equo bilanciamento «dell’utile e dell’onesto»90. Questa è diventata dunque «la giustitia [...] cioè ch’il Potente tiene che quella cosa sia giusta, che più gli torna commoda, et utile»91, e l’assunto trova la sua paternità in Epicuro. «Per altro nome non si può chiamare la ragion di Stato, che si usa hoggi” che con quello di

interesse e utilità di un principe, «né poteva (per dire così) havere

altro autore che Epicuro»92.

In tal modo, sottolinea Speciano, gli stessi principi favoriscono gli eretici per la sola ragion di Stato “sebene è in tutta nemica dello Sta- to stesso”93. La ragion di Stato è dunque incompatibile con le leggi ecclesiastiche e l’esempio non poteva che essere ancora una volta quello di Enrico IV94:

A me non piacque mai l’assolutione del Re di Francia presente come appare da una longa scrittura lattina, che feci prima che fosse rebenedetto, perché non mi poteva piacere, che si rilasciasse in questo modo la disciplina ecclesiastica con esempio

nuovo, avenga che mai dubitassi, che Sua Santità lo potesse fare, ma solo mi dispia-

ceva di vedere, che per ragioni politiche, o di Stato addotte da persone, le quali non curano cosa più che la conservatione dello Stato proprio, si violassero le leggi eccle- siastiche, che sono del tutto contrarie a quelle di Stato, essendomi sempre piacciuto più in queste materie governarmi con lo spirito dei santi antichi, che non quello dei politici moderni, de’ quali non è da fidarsi mai, perché con le medeme ragioni di Stato, che sentirono si dovesse assolvere il Re sudetto, con quelle stesse offendevano anche in altre occasioni chi si lasciò consigliare da loro, et Iddio voglia ch’il presen- te negocio di Ferrara, ch’ora bolle, non mostri questo pronostico molto vero, perché la sudetta ragione non move a virtù, ne a gratitudine, ne ad altro obbligo, ch’impedisca secondo loro la promotione dell’empia ragione di Stato. Il che se se- guisse nel detto negocio di Ferrara, pareria giusto giuditio di Dio, per mostrare a nostri Posteri quanto conviene star saldo nella disciplina ecclesiastica massime in

90M

ICHEL DE MONTAIGNE, Les Essais, L. III, cap. 1, De l’utile et de l’honneste.

Su questo punto mi permetto di rinviare al mio Il diritto di confisca nella République

di Jean Bodin, in Jean Bodin a 400 anni dalla morte, pp.311-324. La giustizia in

termini di contrapposizione tra utile e onesto e la distanza di tale sistema dai criteri dell’«equità» era centrale nelle istruzioni per i nunzi di Clemente VIII impegnati nell’allestimento della Lega contro il Turco. La giustizia dell’Impero Ottomano era appunto indicata in modo programmatico secondo questi criteri. Cfr. K. JAITNER,

Die Hauptinstruktionen, cit, Istruzioni per Alexander Komulovic, Roma, 10 novem-

bre 1593, p. 190: «Bisognerà donque mostrare al Transilvano quello che a lui mede- simo deve essere notissimo, ch’egli ha da fare con gente barbara, infedele, sprezza- trice d’ogni giustitia e d’ogni equità, e che per legge stima honesto tutto quello ch’è utile all’Imperio suo».

91C

ESARE SPECIANO, prop. 442.

92Ibidem. 93Ibid., prop. 698. 94Ibid., prop. 446.

cose tanto gravi etiam del Sommo pontefice, quanto più è Santo, il quale nel presen- te bisogno di Ferrara forse non sarà offeso da altri maggiormente, che da coloro, che si governano per la ragione falsa di Stato, e si scordano ogni beneficio. Però dico che è gran prudenza, et prudenza cristiana conosciuta, o almeno praticata da puochi, il confidarsi più in Dio, che negl’huomini, et caminare nelle cose tanto gravi più .con lo spirito dei nostri antichi pieni di pietà, che con quello dei moderni, che atten- dono alla conservazione dello Stato con sole vie politiche, et si scordano quelle di Dio, et della Chiesa Santa.

Il problema dell’assoluzione di Enrico IV95 era legato alla crea- zione di un nuovo caso, un «esempio nuovo» di ‘rilasciatezza’ della disciplina ecclesiastica, fatto gravissimo nell’azione ecclesiastica post-tridentina e indizio probante lo sfaldamento del suo assetto giu- ridico96. Tanto più che l’esempio nuovo giungeva da una azione emi- nentemente politica della Chiesa. In tale frangente pare ancora più marcata la condanna allo scritto del Botero: le ragioni politiche o di Stato sono quelle addotte da «persone, le quali non curano cosa più che la conservatione dello Stato proprio», a giustificazione delle pro- prie azioni e in violazione delle leggi ecclesiastiche97. L’attacco è sferrato alle regole del buon governo del Botero, nella cui opera non va dimenticato che il tentativo di mediare leggi ecclesiastiche e so- vranità, trovava la sua chiave risolutiva proprio nel principio di con- servazione dello Stato.

La conservazione dello Stato, entità etica superiore alla morale dei singoli individui, prevede secondo i teorici della ragion di Stato la possibilità concreta di un’azione politica extra-morale. La ragion di Stato fornisce allo Stato una chiave d’accesso ad una moralità su- periore rispetto a quella comunemente accettata dai singoli individui; essa svetta al di sopra delle realtà particolari: «la raison d’Etat sera fonction d’intérêts plus élevés ou supposés tels»98. Infatti, tra il fon-

95Della lunga scrittura latina dello Speciano non ho notizia. Tra le sue carte (Mi- lano, Biblioteca Trivulziana, cod. nn. 1123-1129) figurano però una serie di scritture relative a Enrico IV, relative all’espulsione dei gesuiti e all’attentato subito dal Na- varra.

96Così anche G. BRAGACCIA, L’ambasciatore, In Padova, appresso Francesco Bolzetta Libraro, 1627, p. 604. Il Bragaccia parlerà a proposito del potere di deroga affidato ai nunzi apostolici che essi dovrebbero evitare il più possibile la “relassatio- ne del diritto canonico”. Solo quando concorrano «giuste cagioni, non si niega, che non debbano i legati, et nunzi apostolici secondo le facoltà partecipate loro, togliere, o mitigare il rigore della ragion commune; non potendosi in altro modo soccorrere alla necessità del supplicante» [Ibidem].

97C

ESARE SPECIANO, prop. 446.

dare e l’ampliare, secondo il Botero, «maggior opera si è il conserva- re»99. Lo Speciano, però, suggerisce all’uomo prudente di evitare le idee politiche «dei moderni», di coloro che attendono cioè solo alla conservazione dello Stato proprio con le sole vie politiche100. Il di- scorso si insinuava tra le grinze della politica dello Stato pontificio e delle vie riformistiche intraprese dall’assolutismo cattolico. L’Autore rimarca ancor più quali siano le differenze tra i prìncipi secolari, la cui «reputazione [...] ordinariamente sta nella loro grandezza, et po- tenza», e il Papa il cui potere si fonda “nell’estimatione appresso gl’huomini»101. Perciò, prosegue Speciano, «il governo ecclesiastico,

etiam nelle cose politiche, ricerca diversità di procedere da quello

degl’altri principi»:

Convenendo al Papa di essere molto circospetto, non solo per conservare il suo Stato proprio, ma anche quella parte, che sta in mano d’altri, come è la veneratione, et osservanza, nelle quali consiste la potenza del Papa, et non nella grandezza de’ suoi Stati, li quali comparati con quei degl’altri prencipi sono assai tenui, et di puoca estimatione, che dunque la grandezza del Sommo pontefice consista nella sua perso- na, virtù, et autorità spirituale, egli deve attendere principalmente a questo, per sodi- sfare all’obbligo dell’officio suo, ne potrà mai crescere tanto in potenza temporale, che mancandogli la veneratione che se gli deve da tutti li prencipi, sia stimato, come sono li prencipi grandi di Stati a quali con tutto ciò Sua Beatitudine per la dignità suprema datagli da Dio, procede senza controversia.

Di nessuna utilità al potere del papato si presenta l’azione di «ampliare» lo Stato della Chiesa: ciò non muta la sua potenza e la sua reputazione; non l’accresce né la diminuisce. La politica eccle- siastica non può perseguire finalità identiche a quelle degli stati seco- lari; a niente vale l’accrescere ‘nel numero’ i dominii della Chiesa, che saranno sempre «tenui» rispetto agli Stati secolari. La vera forza sta tutta nell’autorità spirituale del Pontefice. La riflessione del Cre- monese pare indirizzata in tal senso con un costante richiamo a un ordine giuridico e morale della respublica christiana necessariamen- te differente dagli Stati temporali, essendo la sua autorità più elevata rispetto agli interessi politici paricolari.

99GIOVANNI BOTERO, La ragion di Stato, cit., p. 58. 100C

ESARE SPECIANO, prop. 446.

POLITICA ECCLESIASTICA E SOVRANITÀ

L’imprevedibilità della realtà politica e il suo continuo mutamen- to costituiscono il motivo dominante delle Proposizioni di Cesare Speciano. La stessa politica ecclesiastica è divenuta oramai impreve- dibile per il Cremonese. Il mutamento da scongiurare è dunque il vero protagonista dello scritto.

Si è già accennato al problema delle mutazioni e della novità co- me elemento da scongiurare nel buon governo di uno Stato. Assai prossimo al Montaigne degli Essais o al Bodin impegnato a rileggere Platone, dunque, anche il pensiero del Cremonese muove da questa riflessione, rimeditando sul problema che caratterizza l’idea stessa di sovranità: la deroga alla legge1. Ciò s’imponeva nella riflessione bodininana in quanto risultato di una analisi rispondente alla logica ben precisa, per cui un sovrano può derogare alla propria legge, oltre a quella dei predecessori, poiché nessuno può obbligare se stesso2; ferma restando la differenza tra legge e diritto, la prima intesa come volontà sovrana e il secondo inteso come limite inviolabile dalla so- vranità3. Ogni manifestazione del potere sovrano e della sua volontà, nel pensiero bodiniano, si costituiva come legge vincolante per i cit- tadini dello Stato. In tale logica lo Speciano rinveniva lo spettro della continua mutazione degli stessi ordini di uno Stato, poiché il Sovrano

1 J

EAN BODIN, Rep. IV, 3, cit., ID., I sei libri dello Stato, II, cit., pp. 470-471:

“Per farla breve, non c’è cosa più difficile a trattare, né di esito più dubbio, né di maneggio più pericoloso che l’introduzione di nuove leggi”

2Ibid., I, VIII, cit., I

D., I sei libri dello Stato, I, a c. di M. Isnardi Parente, Torino,

Utet, 1964, pp. 360-362. Il tema col medesimo richiamo bodiniano a D. XLV, 1 (de

verborum obligationibus), 108, ritorna in PIERRE CHARRON, De la Sagesse, Paris,

1601, L. I, cap. XLV, in L’ Assolutismo laico, cit., p. 79: «Nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit». Si tratta di quel capitolo, come ha mostrato Anna Maria Battista, ove Charron fonde mirabilmente definizioni tratte dai Politicorum sive Civilis Doctrinae libri sex del Lipsio, dal libro I capitolo VIII della République del Bodin e da Montaigne, Essais, I, 42. Cfr. A. M. BATTISTA, Alle

origini del pensiero politico libertino, Milano Giuffrè, 1989 (rist. emend.), p. 90.

3Cfr. D. QUAGLIONI, Il pensiero politico dell’assolutismo, in Il pensiero politico.

Idee teorie dottrine, II, Età moderna, a cura di A. Andreatta e A.E. Baldini, cit., pp.

com’è per l’autore delle Vindiciae contra Tyrannos (1579) e per la tradizione gesuitica, restava per il Cremonese «legge viva» dinanzi ai suoi sudditi4. Chi desidera governare perseguendo la finalità del bene pubblico, scrive lo Speciano, «fugga più che può la novità, et cerchi di mantenere le usanze antiche buone, né si curi di far leggi nuove, che queste mettono il più delle volte il popolo in affanno»5. L’unica via per garantire il bene pubblico è dunque la prevedibilità del potere che si attua per mezzo di una giustizia ben radicata alle consuetudini antiche e buone di ogni Stato. Ogni Stato ha le proprie consuetudini e la scienza giuridica deve considerarle in sede preliminare al pari dei medici che devono sempre tener presente la natura del paziente. In- fatti nella proposizione 395 scrive che «se bene li Dottori di legge, et di medicina in ogni loco in Europa hanno li medemi libri, tuttavia non puonno essercitare bene l'officio loro per tutto, non per difetto delle scienze, che sono comuni, ma per la diversità delle consuetudi- ni, et statuti, usanze, et clima del Cielo, et perciò, prima che uno di questi Dottori sia buono in un Paese, è necessario, che se ne faccia patrone, intendendo li Statuti et usanze particolari, et li medici la natura delli Paesi, et degl’huomini, altrimente si faranno errori grandi nella robba et irreparabili nella vita. Né l’huomo savio che va a torno si deve meravigliare, se vede varietà nelle sudette cose per dotto, ch’egli sia in una, o vero nell’altra scienza»6.

Il diritto è scienza che si impadronisce delle consuetudini e le considera nella loro varietà. Allo stesso modo il Sovrano deve avere sempre presenti le consuetudini del proprio Stato e degli Stati con i quali tratta. Il momento è decisivo nel pensiero del Cremonese, poi- ché il Sovrano che muta le consuetudini diviene esso stesso impreve- dibile e come tale, non governa più per il bene pubblico, ma per pro- prio esclusivo interesse. Vi è anche un altro problema di fondo e cioè quale sia il modo in cui il principe sovrano manifesta questa sua im- prevedibilità. Da un lato Speciano discute la figura del «principe segreto», del quale non si conoscono gli intenti; dall’altro quella del principe che muta in continuazione i propri piani, indifferente a patti, leggi e accordi stabiliti, «quello, che ciarla, et dice ogni cosa, et pro-

4 Cfr. S

TEPHANUS JUNIUS BRUTUS, Vindiciae contra tyrannos. Il potere legittimo

del principe sul popolo e del popolo sul principe, a c. di S. Testoni Binetti, Torino,

La Rosa editrice, 1994, pp. 71-72. Ma si pensi soprattutto al passo di Giustino su Licurgo, che volle sottostare alle proprie leggi, posto in epigrafe alle Vindiciae.

5C

ESARE SPECIANO, prop. 28.

mette, et nega, et poi fa come gli piace»7. Laddove la prudenza del primo è nobile e stimabile, perché costringe alla saggezza e alla pru- denza anche coloro che con lui trattano, la «leggierezza del secondo è biasimevole, et intrattabile, e fa gl’huomini cattivi, et perfidi: onde sebene questo si può dire secreto quanto all’effetto, che non si può sapere ciò che pensi, o voglia fare, non di meno non si potrà mai dire, che questo prencipe sia prudente, ma più tosto leggiero, malo, et di pessima conditione, et degno di essere fuggito da tutti, perché co- stui ingannerà li savii, et gl’ignoranti, non volendo essere obbligato a legge alcuna, et non facendo egli medesimo conto di se stesso, et delle cose, che dice»8. Un tal principe diviene dunque il «tiranno bestiale», per dirla col Guicciardini, dinanzi al quale nessun consi- glio vale di più che quello «fuggire da lui el più discosto e el più pre- sto che si può»9; egli è «degno di essere fuggito da tutti», scrive lo Speciano. L’autore risolve in tale modo il dilemma se il principe debba o meno osservare la propria parola e le proprie leggi. La sua risposta è, come appare, nettamente affermativa e si incardina in un ideale che è anche quello palesato dal Minucci nel capo d’apertura alle istruzioni per il nunzio a Praga: «dall’essempio dei principi deri- va in gran parte il bene et il male de’ popoli»10. Infatti, nella proposi- zione 486 lo Speciano rimarca che se è vero che «niuna cosa turba più, et stracca li Popoli, che la frequentatione delle leggi nuove, la quale è molto dannosa anche alla riputatione dell'istesso prencipe, che le fa, essendo quasi necessario, che de’ molte leggi se ne servino poche», è altrettanto necessario che le poche leggi utili poste in esse- re da un principe devono essere «bene guardate anche da lui mede- mo, il quale con l’essempio facilita l’essecutione appresso gl'altri più che con qualsivoglia pena, che vi metta»11.

Il sovrano è colui che per primo deve fornire l’esempio al suo po- polo, affinché esso comprenda e apprezzi «l’effettività» del diritto. In tal modo non è possibile rinvenire alcun indizio più sicuro della «al- terazione» di uno Stato che «quando quelli, che governano, non fan-