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CAPITOLO 2 – IL CONTRATTO DI RETE SOTTO IL PROFILO GIURIDICO

2.1 DAL DISTRETTO ALLA RETE D’IMPRESE

2.1.1 Esigenza di una nuova tipologia di modello aggregativo

Dal 1991 al 2007, frattanto che è evoluta la legislazione italiana in materia di distretti, il contesto economico mondiale è profondamente mutato. Dopo l’inizio del Nuovo Millennio, in particolare, si sono sviluppati fenomeni quali la globalizzazione dei mercati e l’internazionalizzazione delle supply chain e le economie dei Paesi emergenti hanno iniziato a crescere a ritmi vertiginosi, spinte dall’aumento del potere d’acquisto dei loro cittadini, dalla domanda di primo acquisto relativa a una grande quantità di beni e da politiche economiche mirate ad attirare gli investimenti stranieri. Queste ultime (i cosiddetti BRIC, ma in generale gran parte del continente asiatico e del Sud America) sono dunque riuscite a diventare, in un arco di tempo relativamente breve, tra le maggiori potenze economiche mondiali e tra i principali player del commercio internazionale. Nel frattempo nei Paesi sviluppati, invece, i tassi di crescita dell’economia erano decisamente inferiori, la domanda interna pressoché stagnante e si era giunti alle porte della crisi economica che di lì a poco si sarebbe manifestata.

Tali mutamenti di scenario hanno condotto, inevitabilmente, a profonde trasformazioni organizzative e strategiche nelle imprese e a cambiamenti nella geografia industriale mondiale. La possibilità di ridurre notevolmente i costi di produzione ha spinto molte organizzazioni a delocalizzare alcune fasi della produzione nei Paesi emergenti, soprattutto quelle a minor valore aggiunto, ricercando tassazioni favorevoli e vantaggi derivanti dal basso costo del lavoro e delle materie prime. Esse, inoltre, per reagire ai bassi tassi di crescita dei consumi della domanda interna, hanno cercato, in misura sempre crescente, d’incrementare le quote di fatturato destinate all’export. Per quanto possibile, poi, hanno tentato di aumentare la propria dimensione per accrescere gli effetti positivi delle economie di scala sulla struttura dei costi. Ancora, hanno implementato strategie di diversificazione al fine, da un lato, di ottenere economie di

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scopo, e dall’altro di diminuire il rischio legato a congiunture negative nel proprio mercato di riferimento.

In Italia, tuttavia, gran parte delle imprese non è riuscita a seguire queste strategie e ne ha risentito in termini di perdita di competitività sul mercato sia nostrano che internazionale. Il tessuto industriale nazionale, infatti, è costituito per più del 99% da imprese medio-piccole, che non hanno avuto le risorse necessarie ad aumentare le proprie quote di export o a delocalizzare la propria produzione aprendo impianti all’estero. Invece, sono riuscite a difendere meglio la propria competitività le aziende distrettuali, che hanno continuato a fare leva sui propri vantaggi caratteristici legati alla flessibilità produttiva, all’adattabilità alle richieste dei clienti, all’efficienza dei processi, alla qualità del prodotto finito e alla propensione innovativa mediamente più alta rispetto alle altre imprese italiane.

Inizia quindi ad emergere, anche in Italia, la consapevolezza che, per rimanere competitive nel mercato globale, le aziende non possono più continuare ad operare autonomamente, ma devono iniziare a fare sistema, ad aggregarsi, per condividere le risorse e sfruttare i vantaggi tipici delle realtà distrettuali, che derivano dalla collaborazione e dalle caratteristiche sociali dei rapporti fra le imprese. Un ulteriore limite che appare necessario superare è quello relativo alla capacità di sviluppare innovazione. Infatti l’industria italiana è storicamente molto forte nel settore del low

tech, poiché è caratterizzata da un alto tasso di innovazione “senza ricerca”3 (CNEL, 2008), ossia derivante non tanto da processi di ricerca strutturati e condotti con

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Nella relazione dell’assemblea del 18 Dicembre 2008, il CNEL denuncia un approccio all’innovazione in Italia poco strutturato e “poco scientifico”. Essa viene infatti definita “innovazione senza ricerca”, la cui fonte sembra essere principalmente la serendipity, ossia la casualità. Quella che viene presentata è una situazione nella quale le aziende non hanno la volontà/possibilità di investire importanti risorse nella R&D, pertanto l’innovazione che riescono a sviluppare è principalmente incrementale e scaturisce dai tentativi di applicare tecnologie, materiali e design ideati per alcuni settori in settori diversi. Si tratta pertanto più di un’abilità tecnica e tecnologica nell’immaginare nuovi usi e nuove combinazioni, piuttosto che una conoscenza scientifica nel senso comune del termine. Sebbene tale modello sembra avere funzionato in passato, tanto da rendere l’Italia un produttore leader nel cosiddetto settore del low-tech, tuttavia il CNEL sostiene che non sia più sostenibile per mantenere la competitività delle imprese italiane nell’arena competitiva internazionale. All’estero infatti le grandi aziende multinazionali destinano molti più fondi alla ricerca scientifica pura, sia in termini percentuali che in valore assoluto. Inoltre sono molto più ricercate le partnership con centri di ricerca e università nello sviluppo della ricerca scientifica a fine industriale, con ottime potenzialità di ricevere anche co-finanziamenti statali. Pertanto, in conclusione, il CNEL auspica un rinnovato impegno sia da parte delle aziende che dello stato nel finanziare sia la ricerca pura che la ricerca applicata, in maniera tale formare una più robusta base di conoscenza scientifica, sistematica e codificata, per le innovazioni industriali. Questa esigenza si pone come conditio sine qua non per rilanciare un’innovazione anche di tipo radicale e non più unicamente incrementale, con l’obiettivo di riconquistare un ruolo di leadership tecnologica nel mercato globale.

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l’appoggio di centri studio o laboratori scientifici, ma generata grazie a ricombinazioni creative cross-settoriali di tecnologie materiali e design. Questa tipologia di innovazione, perlopiù incrementale, è però sempre meno difendibile dai competitor. Per contrastare la concorrenza internazionale in maniera efficace diviene, invece, sempre più necessario assumere un approccio maggiormente “scientifico” all’innovazione, legato a solide basi di know how tecnico, sviluppato anche in collaborazione con centri e laboratori di ricerca. Questo può essere, infatti, fonte di innovazioni di tipo radicale, che permettono di presentarsi sul mercato con prodotti originali e tecnologicamente complessi, dunque meno aggredibili dai concorrenti e che aumentano la capacità delle imprese di attrarre clienti non solo in Italia ma soprattutto all’estero.