CAPITOLO 1 – I DISTRETTI E LA LORO EVOLUZIONE LEGISLATIVA
1.4 Riflessioni sull’evoluzione legislativa del concetto di distretto
Come evidenziato nell’excursus legislativo riguardante i distretti, più volte si è avuta occasione di sottolineare come in realtà non ci sia stata un’evoluzione omogenea della legislazione nazionale in materia. In particolare, non è mai stata fornita un’unica definizione chiara e precisa di distretto e le finalità delle azioni legislative sono sempre cambiate. Con la L. 371/91, il distretto veniva identificato quasi più come l’area geografica che come l’insieme di imprese che ne erano parte. Essi inoltre erano individuati attraverso variabili statistiche con l’unico obiettivo di finanziarli per supportarne la crescita, ma senza porsi l’obiettivo di incentivare la nascita di nuovi network d’imprese il cui output portasse, oltre che un’utilità economica per le parti, anche un più generale benessere economico e sociale per l’area geografica di appartenenza. Solo con la successiva L. 140/99 inizia ad apparire il concetto della “peculiare organizzazione interna” e quindi diviene fondamentale che ci sia integrazione funzionale tra le aziende dello stesso distretto. Si apre, inoltre, al coinvolgimento nel distretto di soggetti diversi dalle imprese, ossia enti locali e associazioni di categoria. Non viene superato però il limite dell’approccio top-down nell’identificazione dei distretti. Questo passaggio avviene solo grazie al legislatore regionale veneto. Esso quando, in seguito alla modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001, si vede attribuita la competenza legislativa in materia di “Sostegno all’innovazione per i settori produttivi”, si dimostra quello maggiormente illuminato con la L.R. 8/03. Quest’ultima apporta delle rivoluzioni che potremmo dire “copernicane” in materia di distretti. Innanzitutto ribalta la prospettiva top-down utilizzata in precedenza imponendo che siano i distretti stessi ad emergere secondo un processo bottom-up nel quale le imprese
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si costituiscono in network e propongono il proprio progetto di sviluppo affinché venga co-finanziato dalla Regione. Diviene poi centrale, seguendo la strategia europea, il concetto di innovazione, che trova nel distretto l’ambiente ideale per essere progettata, sviluppata e portata nel mercato. Questo grazie alle peculiarità dell’ambiente distrettuale, nel quale le imprese sono in una situazione che è stata definita di “coopetition”2 (Bresolin, Nicoletti, 2009); ossia, esse sono fra loro allo stesso tempo in competizione e collaborazione. Competizione in quanto, essendo tutte specializzate su un determinato settore industriale, molto spesso esistono più aziende che hanno le competenze interne per svolgere la stessa fase produttiva. Collaborazione poiché, come più volte spiegato precedentemente, nel processo di produzione esse devono integrarsi
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Il termine “coopetition” è il risultato della fusione dei termini “cooperation” e “competition”, ad indicare la duplice natura dei rapporti che si instaurano tra le aziende che appartengono allo stesso distretto. Data la specializzazione produttiva tipica del concetto di distretto e riconosciuta sin dalla L. 371/91, è frequente la situazione nella quale diverse aziende della stessa realtà distrettuale siano specializzate in una determinata fase produttiva e pertanto si trovino in competizione quando si tratta di assegnarne lo svolgimento nel contesto della filiera di produzione. Allo stesso tempo, per quanto riguarda altre commesse esse saranno spesso chiamate ad integrarsi funzionalmente all’interno dello stesso processo produttivo integrando le une con le altre le rispettive competenze. Proprio la combinazione di queste tipologie quasi opposte di rapporti tra le imprese partner nello stesso distretto è individuata dalla letteratura economica come il motore principale dell’alto tasso di innovazione che si registra all’interno dei network distrettuali. Infatti le aziende sono spinte da un lato a ricercare continuamente nuove efficienze per essere più competitive dal lato del prezzo. Le innovazioni di prodotto invece sono necessarie per differenziarsi dalle aziende concorrenti e sfuggire ad una competizione basate solamente sul prezzo che rischia solo di portare all’erosione dei margini. Sono numerosi gli esempi presentati in letteratura, soprattutto per quel che concerne la filiera di produzione nel settore auto, in cui si descrive la situazione di piccole aziende subfornitrici le quali, nella speranza di instaurare un continuo e duraturo rapporto di fornitura con grossi clienti che possa assicurare loro superiori margini in futuro (nel settore auto è ciò che tipicamente accade tra piccoli subfornitori e Tier I o OEM), accettano commesse nelle quali lavorano a prezzo di costo se non addirittura in perdita, compromettendo inevitabilmente l’economicità del proprio business; sul punto si vedano significative testimonianze in Whitford, 2005. Infine, la ricerca di maggiore efficacia e soprattutto efficienza nella gestione dei rapporti di coordinamento con le altre imprese nel corso del processo produttivo, porta ad un continuo sviluppo anche dal lato delle innovazioni di processo. In questa fase storica, in particolare, le aziende hanno dovuto in particolare confrontarsi con la sfida dell’integrazione delle nuove tecnologie dell’ICT nei propri processi produttivi e di coordinamento. Sebbene possa apparire un particolare secondario, l’implementazione di tali sistemi è stata (e lo è tuttora) molto complicata soprattutto per le PMI, le quali tipicamente non avevano (hanno) competenze specifiche all’interno della propria organizzazione e hanno quindi dovuto affidarsi in outsourcing ad imprese di servizio specializzate. Eccezion fatta per gli imprenditori in questo senso più illuminati, la maggior parte di essi ha per quanto possibile cercato di rinviare l’adozione delle ICT, sia per i costi di impianto sia per mancanza di volontà di rivedere l’intera organizzazione dei processi interni ed esterni che fino a quel momento tuttavia si erano dimostrati piuttosto efficaci. Solo ora che le ICT hanno un costo più abbordabile per le aziende e che i guadagni che esse comportano in termini di efficienza sono diventati assolutamente non più trascurabili nel panorama di una concorrenza non più unicamente intra-distrettuale ma oramai mondiale, la loro implementazione è diventata non solo improcrastinabile, ma addirittura una conditio sine qua non per la sopravvivenza sul mercato e la collaborazione con i partner della filiera produttiva.
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funzionalmente fra loro, con ogni impresa della filiera che è chiamata a svolgere una diversa fase del processo produttivo.
Inoltre, il coinvolgimento delle istituzioni (enti locali e associazioni di categoria, di natura sia pubblica che privata) nel progetto di sviluppo del distretto viene reso non più solamente possibile, ma dichiarato addirittura necessario. Questo secondo la ratio per la quale il finanziamento della Regione trova la sua ragion d’essere nella circostanza per la quale l’attività del distretto, almeno in teoria, deve portare non solo vantaggi economici alle aziende partner, ma anche accrescere il benessere sia economico che sociale della comunità del territorio all’interno dei quale si sviluppa. Tale logica è rintracciabile anche in alcuni dei criteri con i quali viene valutata la bontà del patto di sviluppo e successivamente ne viene giudicata la possibilità di rinnovo; questi, in particolare, riguardano il peso sia economico che occupazionale delle aziende coinvolte, l’influenza decisionale delle istituzioni che ne sono parte, il grado di collaborazione con università, centri di ricerca e di formazione e la potenzialità del distretto di allargarsi e attrarre nuovi partner, sia aziendali che istituzionali.
Dalla legge regionale veneta il legislatore nazionale prende ispirazione per i successivi interventi legislativi. In particolare, ne è evidente il riflesso per quanto concerne l’approccio bottom-up, con il chiaro intento di spingere le aziende stesse a costituirsi in network. Vengono mantenuti, inoltre, i capisaldi del concetto di distretto quale aggregazione di imprese appartenenti ad una stessa area geografica e integrate funzionalmente, ma viene perso il focus sul concetto di innovazione, tanto caro sia alla legislazione europea in materia di cluster che al legislatore veneto. La Legge Finanziaria 2007, invece, oltre a non introdurre ulteriori definizioni di distretto, sembra quasi costituire un passo indietro a livello di legislazione nazionale, la quale lascia la responsabilità di stabilire le politiche per i distretti completamente alle Regioni, limitandosi a garantire dei co-finanziamenti per le realtà più meritevoli. Si esaurisce quindi il percorso legislativo che vede come soggetto di regolazione unicamente i distretti. Al termine di questo excursus, si nota come una definizione definitiva di distretto non sia mai stata individuata. C’è, inoltre, poca chiarezza relativamente alla modalità di individuazione, con uno spostamento continuo tra strategia top-down e
bottom-up. Sebbene dal 2001 la competenza in materia di “Sostegno all’innovazione per
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materia, il Legislatore nazionale non ha mai definito delle linee guida per le politiche regionali, che promuovessero le soluzioni di maggiore successo adottate sul territorio nazionale. Tra queste, in particolare, l’obbligo di spingere ad auto-costituirsi ed ad emergere dal basso per i network di imprese, la spinta all’innovazione come obiettivo primo per i distretti, e un coinvolgimento sempre maggiore di enti locali, associazioni di categoria e istituti di formazione per trasformare il distretto, quanto più possibile, in una risorsa per il territorio nel quale è radicato e la sua comunità.
Al termine di questo percorso legislativo si vogliono riordinare, quindi, le caratteristiche fondamentali e distintive del distretto italiano. Innanzitutto, è contraddistinto da prossimità territoriale, integrazione funzionale e specializzazione produttiva. Le aziende che ne fanno parte sono concentrate infatti in un’unica area geografica ben definita. È proprio dalla vicinanza che derivano vantaggi peculiari del distretto, quali la condivisione e la propagazione della conoscenza, oltre che la “cultura di distretto”, o “tradizione manifatturiera”, che secondo molti studi costituisce la vera ragione della superiore qualità della sua produzione. Il distretto è specializzato in un determinato settore industriale. Il processo produttivo è scomposto in fasi, ognuna delle quali è svolta dall’azienda distrettuale che ne detiene le competenze specifiche. Ogni impresa è dunque tenuta a dimostrarsi superiormente abile in un determinato stadio della filiera produttiva, svolgendolo più efficientemente rispetto ai concorrenti sia intra- che extra- distrettuali e mantenendo un’elevata propensione innovativa affinché l’output distrettuale possa essere contraddistinto da contenuti tecnici e tecnologici all’avanguardia.
Si individuano poi i soggetti che possono farne parte. Innanzitutto le imprese. Fino alla L.190/99 potevano essere solo manifatturiere. Con la L.R. 8/2003 e, quindi, a livello nazionale, con la Legge Finanziaria 2006, si apre alla possibilità di entrata anche delle aziende di servizi, oltre che “turistiche ed agricole e della pesca”. Tipicamente la dimensione delle organizzazioni appartenenti al distretto è medio-piccola. Nel distretto possono poi essere coinvolti enti istituzionali di diversa natura: enti locali (Regioni, Provincie e Comuni), associazioni industriali, sindacati, università, centri di ricerca, istituti di formazione. Quella che il legislatore persegue è l’integrazione fra distretto e territorio di appartenenza, in maniera che tra essi ci sia un reciproco scambio di utilità in termini economici, sociali, scientifici, di competenze e di massa critica.
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Infine, il distretto si propone come modello organizzativo adatto a progettare, sviluppare e produrre innovazione, sia di prodotto che di processo. Questo grazie alla duplice natura di competizione e collaborazione che esiste fra le imprese dello stesso distretto. Come già esposto in precedenza, tuttavia, il tema dello sviluppo dell’innovazione non è mai stato affrontato in maniera adeguata da parte del Legislatore nazionale, e l’emergere della sua importanza è dovuta principalmente agli interventi legislativi dell’UE a proposito dei cluster e di isolate azioni legislative regionali, in particolare la L.R. 8/03.
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