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Gli esiti dirompenti della Sentenza CGUE, C 131/12 del 13 maggio 2014 in materia di trattamento dati ed oblio

SEZIONE II: Il trattamento dei dati personali nell’evoluzione normativa europea, dalla Convenzione di Strasburgo 108/1981: un lento affermarsi, nel quadro europeo,

7) Gli esiti dirompenti della Sentenza CGUE, C 131/12 del 13 maggio 2014 in materia di trattamento dati ed oblio

La sentenza in esame ha prodotto una svolta giurisprudenziale innegabile, aprendo una breccia importante nell’ambito della tutela dei diritti in Rete. Nel suo provvedimento la Corte di Giustizia, nel riconoscere all’avvocato Costeja Gonzales il diritto all’oblio, ha obbligato i motori di ricerca a rimuovere alcune informazioni a lui relative. Nel 1998 Gonzales, cittadino spagnolo, aveva subito un rovescio finanziario, che aveva comportato la messa all’asta della sua proprietà per mancato pagamento di debiti verso il fisco. La notizia finì sui giornali e, nonostante il debitore avesse successivamente appianato il suo debito, continuava ad essere riportata in bell’evidenza, intrappolando l’Avv. Gonzales nel suo passato digitale.

Dopo aver percorso tutti i gradi della giustizia amministrativa e giudiziaria spagnola, con alterne pronunce, il caso è approdato innanzi alla Corte di Giustizia che, nella succitata sentenza, ha riconosciuto al ricorrente il diritto di ottenere la rimozione del link dal motore di ricerca, su semplice digitazione del suo nome e cognome.

E’ una sentenza spartiacque in materia di protezione dei dati e diritto all’oblio, innanzitutto perché ha attribuito a Google ed ai gestori dei motori di ricerca la qualifica di responsabili del trattamento dei dati personali, con il conseguente obbligo di deindicizzare i link contenuti nella relativa pagina web, a richiesta del titolare di quei dati. Pertanto, l’interessato, che, a seguito di ricerca effettuata inserendo semplicemente il suo nome e cognome, dovesse ottenere dall’elenco dei risultati un link contenente informazioni sul suo conto, obsolete e lesive della sua sfera privata, potrebbe rivolgersi direttamente al gestore del motore di ricerca, per chiederne la rimozione e, qualora questi non dovesse dar seguito alla sua domanda, adire le Autorità amministrativa e/o giudiziaria competenti, per ottenere la soppressione del link dall’elenco dei risultati ed eventualmente il risarcimento dei danni.

Il punto cruciale della decisione europea è rappresentato dal fatto che la rimozione dei link dal motore di ricerca non viene a comportare alcun obbligo per i siti-sorgente, cui i

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links rimandano, che potranno pertanto decidere come gestire i dati personali in loro possesso, senza il consenso del titolare. La relativa pagina, pertanto, potrà essere mantenuta visibile sui singoli siti d’informazione, conservando la sua attualità, anche se il motore di ricerca, accogliendo l’istanza del titolare dei dati, avesse deciso di rimuoverla. Gli interessati potranno eventualmente agire in parallelo per ottenere anche dagli editori dei siti web la cancellazione delle informazioni che li riguardino.

La sentenza Google/Spain è stata ritenuta una rivoluzione copernicana89 anche per aver

rimodulato le responsabilità degli operatori della Rete, stabilendo che le norme europee trovassero applicazione anche nei confronti dei motori di ricerca, che avessero la loro sede sorgente fuori dall’Europa ma che, in uno Stato membro, avessero una stabile organizzazione, filiale o succursale, presso la quale si svolgesse attività di trattamento dei dati.

Anche questi operatori della Rete, a parere dei giudici europei, sono obbligati al rispetto della normativa europea, con l’obbligo di rimuovere dall’elenco dei risultati i links di collegamento con le pagine web, contenenti informazioni lesive della sfera privata delle persone, anche nell’ipotesi in cui tali informazioni fossero lecite.

Sulla questione fa fede altresì, il punto 7 delle Linee Guida del 26 novembre 2014 dei Garanti europei, che perentoriamente sancisce: “dev’essere garantita in ogni modo un’effettiva e completa protezione del diritto dell’interessato e la legislazione europea dev’essere rispettata in modo tassativo e puntuale”. Non risulta dunque sufficiente e conforme ai vigenti obblighi normativi l’applicazione della de-indicizzazione ai soli domini nazionali o europei; anche le versioni “.com” dei motori di ricerca devono applicare eventuali decisioni in tal senso.

89 CGUE, sentenza 131/12 del 13 maggio 2014, comunicato stampa n. 70/14, Lussemburgo, Google Spain

SL, Google Inc./ Agencia espanola del protection de datos, Mario Costeja Gonzales. G. BUSIA, Una vera

rivoluzione copernicana, in Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2014. E’ una vera rivoluzione copernicana, per

l’Autore, quella emersa dalla sentenza con la quale la Corte di Giustizia ha definito la controversia tra Google e l’Agenzia spagnola per la protezione dei dati: «Una rivoluzione che fa intravedere nuove frontiere

per la tutela dei diritti della personalità sul web e forse nuovi spazi per la costruzione di un rapporto egualitario tra i produttori di contenuti dei siti web e coloro che, come Google, ne facilitano il raggiungimento da parte degli utenti. Tutto questo perché i motori di ricerca non sono macchine impersonali, mosse da algoritmi imparziali, ma soggetti che, analogamente agli editori delle pagine web, devono farsi carico delle operazioni che compiono e delle conseguenze che possono comportare sulla vita delle persone. Ecco perché per i giudici di Lussemburgo, i motori di ricerca sono stati considerati come autori autonomi del trattamento, quindi obbligati a rispettare la normativa sulla protezione dei dati personali».

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Ovviamente il ricorrente dovrà provare che, la permanenza in Rete del link ad una notizia che lo riguardi, gli crei un pregiudizio sociale o professionale, attestando, altresì, che l’eventuale rimozione del link non crei un vulnus alla completezza delle informazioni di interesse pubblico su di lui.

Il motore di ricerca, attraverso una valutazione operata caso per caso, dovrà accertare se le informazioni, delle quali l’utente chiede la rimozione, siano effettivamente obsolete o se siano ancora di pubblico interesse, impedendo che l’esercizio del diritto all’oblio possa trasformarsi nel diritto dei potenti a cancellare il proprio passato scomodo, sartorializzando la propria identità digitale, ripulendola dalle informazioni ingombranti. Al rifiuto dell’istanza da parte del motore di ricerca, al ricorrente è stata riconosciuta la possibilità di rivolgersi alle Autorità Amministrative e/o giudiziarie per far valere le sue ragioni.

Una decisione intransigente, ma anche una risposta necessaria e non più dilazionabile, dal momento che la forza delle multinazionali americane dell’informazione si era fino ad allora fondata sulla costante negazione dell’applicabilità, nei loro confronti, della legislazione europea, in quanto i trattamenti dalle stesse posti in essere erano effettuati fuori dal territorio UE’, nonostante avessero istituito sedi nei Paesi dell’UE, nelle quali era regolarmente svolta attività di trattamento dati.

Per anni, prima della pronuncia CGUE, è stato un gioco per i colossi americani dell’informazione online, sottrarsi ai restrittivi vincoli normativi europei, accumulando una montagna di dati sulle abitudini di ciascuno.

I giudici europei, avendo precisato il principio di stabilimento, li hanno compresi e costretti in quei vincoli, la cui violazione avrebbe comportato forme di responsabilità.

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