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Giuseppe Acocella 1 *

1.  Etica economica e globalizzazione

Nel mese di agosto 2017 la Corte Costituzionale di Karlsruhe – accogliendo istanze provenienti dagli ambienti imprenditoriali tedeschi – ha deferito alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo l’attività di Quantitative Easing, svolta dalla BCE a sostegno della politica monetaria europea e dei mercati finanziari, con apprezzamento unanime. Tralasciando di entrare nel dettaglio della questione, è evidente che questo è episodio emblematico della frizione tra diritto ed economia�

Ho affrontato il tema del rapporto tra etica ed economia – e quello della più complessa relazione tra etica, diritto e economia – in numerose occasioni offerte nel decennio passato da convegni, interventi, saggi, ma più organicamente in tre volumi tra il 2004 ed il 20102. Sono grato di poter

dunque riprendere il cammino in questo convegno augurandomi di poter offrire un contributo sintetico, ma ordinato, al confronto�

La fiducia neo-illuminista nell’indefinito progresso che avrebbe assicurato - in specie dopo la caduta del mito del socialismo di Stato - il libero dispiegamento delle leggi economiche, è apparsa, dalla fine degli anni Novanta del secolo XX, confermata e assicurata da quel fenomeno genericamente chiamato per lo più globalizzazione e da alcuni mondializzazione dell’economia. Una posizione siffatta ha generato l’illusione del pensiero unico affidato ad una scienza che - in un mondo senza più storia, essendone stata proclamata con alte grida l’inesorabile fine – avrebbe assorbito in sé non solo la politica ed il diritto, ma l’etica stessa, potendo essa bastare a se stessa. Ma la pretesa della scienza perfetta si infrange impietosamente sulle 1 * Università di Napoli “Federico II”: Giuseppe Acocella acocella@unina.it

2 Acocella G� (2003), Etica sociale, Guida, Napoli, 150; Acocella G. (2007), Etica, economia, lavoro.

Riflessioni sulla democrazia economica, Edizioni Lavoro, Roma, 122 (prima ristampa 2008);

Acocella G� (2014), Etica, diritto, democrazia. La grande trasformazione, Il Mulino, Bologna, 141�

crisi dei mutui, sulla finanza sfacciata, sulla crisi alimentare.

Invece la globalizzazione non appare più garantire quel destino inevitabile e necessariamente benefico che era stato annunciato, con il quale sarebbero state prodotte tutte le merci per tutti, in cui la libertà del produrre e dello scambiare avrebbe assicurato benessere e civiltà all’umanità. Persino liberisti incalliti - che per pudore si scagliano contro il mercatismo, nuovo epiteto per il liberismo – sembrerebbero mettere in discussione anche la rassicurante equazione schumpeteriana tra libertà economica e libertà politica. Tra liberalizzazione dei mercati e democrazia rappresentativa. Il benessere appare non più assicurato dalla libera circolazione di merci e di persone, se viene messo in discussione dal ritorno impudico dei cavalieri apocalittici della fame e della schiavitù.

Si propone dunque un indispensabile ricorso alla discussione sull’etica, sulle scelte morali che - come Adam Smith già ricordava nella Teoria dei sentimenti morali - devono accompagnare la scienza triste che è l’economia perché questa possa corrispondere al suo destino. La giustizia, e dunque il problema della redistribuzione delle occasioni e delle capacità e non solo del reddito, costituisce l’orizzonte incomprimibile della democrazia. La situazione economica contemporanea - profondamente segnata dalla crisi di fiducia nelle sorti inarrestabili dell’economia dello sviluppo - ha messo in evidenza la dimensione totalizzante assunta dallo “spirito di acquisizione” (che già Sombart indicava a base dell’azione economica), finalizzata al guadagno illimitato attraverso l’impiego di capitali, senza più riferimento alla centralità della produzione e del lavoro. Viviamo una età nella quale il senso etico dell’intraprendere e del lavorare sembra aver perduto la sua connotazione, a vantaggio di una considerazione dell’azione economica, e soprattutto finanziaria, mirata esclusivamente all’arricchimento ad ogni costo, cosicché viene svilito e umiliato il significato “creatore” del lavoro. Questo scenario sembra però segnato da una inevitabile crisi dell’economia divenuta, da manifatturiera che era, prepotentemente finanziaria.

Nel timore che l’edificio possa crollare dalle fondamenta, la crisi viene così imputata solo al verificarsi di un mero “incidente di percorso”, come l’eccesso non controllato del “mutui sub prime” o la fase giovanilmente impetuosa di crescita della globalizzazione, necessaria per sperimentare nuove corsie riservate per la ricchezza. Anzi, una delle principali cause di debolezza del sistema viene individuata – per deviare l’attenzione di chi si interrogasse sui profili morali dell’arricchimento finanziario a qualunque costo – nell’eccesso di politiche sociali (dalle politiche della piena occupazione alla sicurezza sociale) adottate dai regimi democratici con la

conseguenza di una crescita del debito fino a livelli critici.

I fini sociali più significativi - entro i quali sono maturati progressivamente, segnando le conquiste sociali negli stati democratici, i diritti sostanziali della persona - finiscono per essere accantonati ed addirittura demonizzati come causa della crisi, diffondendosi una concezione della libertà non più basata sul principio di eguaglianza, che ha reso centrali i diritti umani, ma intesa come libertà incontrollata dei più forti, assertrice delle libertà individuali senza vincoli sociali. Se infatti la libertà è la condizione essenziale per il godimento dei diritti fondamentali, ora, al contrario, siamo di fronte ad una radicale mutazione, in virtù della quale il godimento dei diritti singolari costituisce l’unico parametro per valutare lo stesso mondo sociale, che prescinde da ogni considerazione del fondamento etico che riconduca l’azione umana alla giustizia e alla affermazione dei diritti fondamentali per ogni essere umano.

Se l’attività lavorativa e l’atto economico vanno invece ricondotti nello scenario della rete sociale che l’essere umano costruisce nelle relazioni interpersonali e all’interno delle comunità nelle quali si articola il suo vivere, nessuna valutazione dovrebbe prescindere dal valore morale che la dimensione sociale della giustizia conferisce. Nell’età della assoluta mobilità del capitale e della “dittatura” dei Fondi sovrani - con il declinare contestuale della relazione dell’attività produttiva col territorio (quando l’azienda era intimamente parte del tessuto sociale locale) - nello scenario globalizzato proprio il lavoro appare svuotato del suo valore, come mostrano gli indici della forbice sempre più dilatata tra redditi da capitale e redditi da lavoro, tra rendita e remunerazione diretta� La deregulation appare il verbo dell’età nuova. Ma con quali effetti sulla giustizia sociale e sulla stessa democrazia? Il nodo della relazione tra etica ed economia appare dunque questo: l’azione che porta all’arricchimento sembra oggi costituire l’unica categoria etica praticabile, e dunque il rapporto tra giustizia e libertà viene misurato su una scala di valori che non prevede più il lavoro umano (e le sue ragioni politiche) quale condizione imprescindibile della libertà sostanziale.

La convinzione che l’esigenza di autonomia dell’economia significhi che essa debba rifiutare ogni inquinamento di “influenze” di carattere morale, ha finito per spingere i meccanismi economici fino ad abusare dello strumento finanziario. Anche ora che l’attività economica dimostra di non poter da sé risolvere tutti i problemi di equilibrio sociale, e chiede sacrifici a coloro che non hanno beneficiato della libertà incontrollata della speculazione, e crescenti sostegni finanziari a carico della fiscalità collettiva - e mentre la logica mercantile rifiuta il principio che l’economia

vada finalizzata al perseguimento del bene comune - la comunità politica torna ad invocare regole per rendere l’attività economica virtuosa. Se l’agire economico non va considerato di per sé antisociale, il mercato non deve diventare il luogo ideale della sopraffazione.

La classificazione offerta dalla Heritage Foundation fissa gli indici della libertà economica fino ad assumere questa quale indicatore nella graduatoria della libertà moderna� In essa viene collocato al vertice della graduatoria il Barhein (dove la repressione statale di ogni richiesta di libertà politica è costante), l’Irlanda (che registra una separazione tra ceti che dispongono delle scelte economiche e classi popolari che ne pagano i costi sociali o le convenienze economiche), Singapore (dove l’assenza di elezioni e di libertà politica non viene valutata come una limitazione della libertà economica); e si potrebbe parlare della Cina che nella classifica ha una buona collocazione. Insomma viene identificata la libertà tout court con la libertà economica, facendo divenire questa il criterio per la definizione delle sfere di giustizia. Ogni considerazione etica finisce per essere così bandita, e con essa il fondamento stesso dell’ordinamento giuridico come regolatore della vita economica in vista di fini di giustizia, fino a lacerarne il rapporto con la libertà, e tutto ciò in presenza di una pressione fiscale, intollerabile per lavoro ed impresa - che penalizza produzione, consumi e risparmi – e insufficiente nei confronti dei grandi patrimoni finanziari.

La relazione tra etica ed economia deve insomma affrontare questo nodo: la globalizzazione ha bisogno di un equilibrio regolativo, in quanto permane la questione etica del bene comune globale da perseguire, per non ledere le libertà personali, e restituire a comunità e imprese il controllo dell’impiego della forza-lavoro, e alle popolazioni il diritto pieno di partecipazione e di decisione, attraverso gli organi democratici, sulle scelte economiche nazionali� I vincoli del fiscal compact – sbandierati come il verbo indiscutibile che la comunità internazionale virtuosamente impone alle politiche statali, e contestati proprio dalla Corte di Karlsruhe con una sentenza che anteponeva le deliberazioni nazionali in materia di Welfare alle politiche europee – possono ridurre o addirittura annullare i diritti sociali fondamentali, compresa la libertà di contrattazione sindacale, e più in generale la libertà e la sovranità popolare che stanno alla base della responsabilità sociale nei paesi a regime democratico?