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Giuseppe Acocella 1 *

2.   Il diritto tra etica e ragione tecnologica

Mi sembra largamente condivisa la considerazione che questo nostro tempo richieda necessariamente che “si facciano i conti” con il problema dei fondamenti razionali della economia in un quadro mutato come quello dell’epoca l’attuale, definita <<l’era della globalizzazione>>, segnata profondamente e irrimediabilmente dall’indebolimento etico che scaturisce dalla crisi della territorialità del diritto e quindi della politica, degli ordinamenti giuridici positivi e delle fonti statuali, in nome e a vantaggio di una nuova lex mercatoria in grado di sostituire ai poteri pubblici e alla dialettica democratica e sociale le volontà (e le prassi commerciali e finanziarie) dei grandi centri economici�

Dobbiamo chiederci ora: in che misura ci soccorre la distinzione weberiana tra etica della convinzione ed etica della responsabilità? Se l’etica della convinzione può essere intesa come etica della libertà assoluta (ab- soluta) (non solo quella religiosa di impronta luterano-calvinista dell’ <<ama e fa quel che vuoi>>, ma anche quella economica, che le corrisponde, dello spirito del capitalismo, traducibile come <<agisci per il benessere economico, e fa quel che vuoi>>), l’etica della responsabilità è invece etica propriamente sociale, giudizio sull’azione economica in nome non della libertà individuale, ma della giustizia che si fa carico dei destini universali, con una accentuazione tematica tanto più attuale nell’età della globalizzazione economica. Il principio etico assume, insomma, il valore di una sentinella chiamata a vigilare sulle insidie, che nel fluire del processo economico, minacciano le sorti dell’umanità, svolgendo di fatto la funzione assolta nei confronti della legge positiva dal giusnaturalismo tanto nell’età premoderna (giusnaturalismo dell’epoca classica che richiama a conformarsi alla natura pagana, e dell’epoca cristiana che richiama a conformarsi alla natura redenta) quanto nell’età moderna (il giusnaturalismo che richiama costantemente il diritto positivo ad ancorarsi al suo fondamento razionale, come dimostra il dibattito seguito all’età dei totalitarismi fondati sulle ragioni della forza dopo la seconda guerra mondiale), perché il giusto resti riferimento delle decisioni pubbliche.

Comunque ogni società ha bisogno di un ordinamento politico che renda possibile la convivenza, attraverso la definizione di una «legge comune». L’obbligazione politica, che nasce dal patto comunemente accettato, rende l’obbedienza alle leggi canale essenziale della adesione all’ordinamento e alla convivenza. Vorrei limitarmi solo a due questioni che costituiscono uno “spazio” attuale per il tema che stiamo affrontando. La prima: se riferiamo questo insuperato interrogativo – su cui Alessandro Passerin d’Entreves

scrisse le nitide pagine del saggio su Obbedienza e resistenza in una società democratica (Milano, 1970, in specie la Parte prima) - al tema della libertà professionale, con l’intento di ricondurre i termini della questione alla doppia dimensione, pubblica e privata, che nell’età moderna caratterizza, oltre che la professione, la tematica stessa della libertà (come nella prolusione alla Sorbona di Benjamin Constant nel 1819 sulla “libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”) occorre tener conto che, se la professione nel suo statuto etico dovrebbe rappresentare un bene in sé, mai strumentale ad altri beni, come la ricchezza o il privilegio, lasciando che giammai finiscano per prevalere, il problema presenta inesorabilmente una doppia dimensione da considerare: pubblica e privata: c’è una aspettativa pubblica che venga garantita la bontà della prestazione, corrispondente al fine stesso della professione, ed una responsabilità privata nell’eseguirla. L’intreccio tra libertà privata (acquisizione personale delle conoscenze che garantiscono l’effettuazione della prestazione) e dovere pubblico (modalità controllate delle competenze da acquisire attraverso la regolazione della formazione e il controllo dell’esercizio della professioni) si rivela anche nell’abbondanza di riferimento alla necessità dei codici etici professionali e del controllo pubblico contro l’abuso dell’esercizio non competente delle professioni.

La tensione che appare sottesa al dibattito in materia di liberalizzazione è riconducibile peraltro alla questione che accompagna il dibattito sull’impetuoso affermarsi del diritto come soft law piuttosto che come autorità regolativa, seguito alla crisi delle sovranità statali. Da un lato la libertà della scelta - tanto di chi esercita la professione quanto dell’utente o fruitore di servizi (si pensi in specie al diritto di difesa legale o al diritto alla salute) – e dall’altro la riaffermata necessità, proprio in nome della tutela dell’utente o del consumatore, nonché di colui che esercita la professione ispirandosi ai doveri di essa, di osservare regole di controllo dell’accesso alle professioni e, a tutela tanto dell’utente che del prestatore d’opera, di garantire la competenza e la legittimità delle prestazioni.

La questione assume grande rilevanza nel dibattito economico- finanziario: una fondazione scientifica della teoria economica della scelta razionale conduce ad una sicura comprensione dei criteri della scelta, se esclude ogni altra variabile ed ipotesi di valutazione delle azioni nell’attività economica? La razionalità, fondamento della scienza e dell’azione economica, grazie alla quale è stato generato il capitalismo moderno privo di vincoli esterni a se stesso, e fiducioso solo nel calcolo razionale mirato all’efficienza, può escludere dunque ogni altro criterio morale che non sia costituito dalla sua stessa moralità sostenitrice della riconoscibilità (razionale) dell’agire

economico, finalmente sottratto alla decisione individuale, viziatamente guidata da criteri emozionali o estetici o morali? La razionalità economica sembrerebbe avere anche il vantaggio – con la sua mano invisibile - di sollevare dalla responsabilità morale il decisore, dal momento che non è dalla benevolenza di alcuno che mi debbo aspettare il mio sostentamento, ma dalla sola convenienza, come ricorderebbe Adam Smith�

Entrano qui in gioco le grandi questioni - già presenti in Smith o nel Bernard de Mandeville della Favola delle api - dell’intenzione del soggetto e della inintenzionalità dei fini sociali che le azioni individuali conseguono. Il nodo vero è costituito appunto dalla percezione che l’intenzionalità dell’agire venga sospesa dallo sviluppo della scienza economica in senso razionale-oggettivo, talché la tecnicizzazione dell’economia consente (ed impone) al soggetto di deresponsabilizzarsi di fronte al significato della scelta che pone in essere, depurandola da ogni emozionalità che non corrisponda all’interesse per l’azione stessa.

Si può dunque comprendere come si compia così, ad opera di un capitalismo capace di portare una razionalità sua propria alle estreme conseguenze, il destino che invece il suo nemico, il marxismo, aveva preconizzato proprio per sconfiggerlo. Da un lato, nel marxismo e poi nel leninismo, si affermava il principio della Storia senza soggetto, in virtù del quale la storia è un processo che inarrestabilmente arriverà alla verità, realizzando la società senza classi, e la vittoria del proletariato non potrà che razionalmente avverarsi anche al di fuori delle intenzionalità dei singoli. In questo processo ineluttabile l’essere umano è solo un ingranaggio che vedrà la giustizia senza fine, ed è facile, come ha rilevato più di qualcuno, riconoscere la trasposizione di una escatologia che già Hobbes aveva operato sostituendo il Dio cristiano, il Dio dei cieli, con un “Dio in terra”, il Leviatano. La Storia senza soggetto è la traduzione pagana dell’onnipotenza di Dio immiserita nelle povere cose della politica e degli Stati, giungendo nella metodologia delle scienze sociali per certi versi fino alle rigidità dello strutturalismo.

Non a caso la teoria della scelta razionale è apparsa capace di conseguire una assoluta scientificità dell’agire economico e le stesse scelte politiche, con l’effetto inclusivo di tranquillizzare gli spiriti inquieti, inducendoli a ritenere che l’attività economica potesse essere sottratta al soffocante abbraccio della politica, da un lato, e soprattutto dell’etica stessa, dall’altro. La razionalità sembrava potesse restituire il governo delle azioni all’essere umano e alle sue libere scelte, ed al tempo stesso non contraddire la assoluta razionalità del sistema, da esibire come modello di sviluppo che avrebbe contagiato ogni ambito della vita umana, preparando l’età della

megamacchina e della economicizzazione del mondo�

In una società non più omogenea culturalmente, la razionalità può costituire un saldo punto di riferimento per le scelte pubbliche senza ricorrere all’idea della vita come valore riconoscibile e condiviso, e anche di fronte alle scelte politiche costituire un orientamento necessario, in grado di guidare la legislazione su materie che coinvolgono i diritti fondamentali nelle moderne società? Rischia, infatti, l’inconcludenza ogni soluzione che comporti, alla fine, il rifiuto della legge etica rassodata dall’esperienza storica (si pensi alle proibizioni fondamentali indagate da Michael Walzer), portatrice proprio di una idea della vita che la civiltà giuridica ha progressivamente e lentamente consolidato, custodendone i principi e traducendoli in norme. Si può così tentare di circoscrivere l’arbitrio derivante tanto da un astratto naturalismo, falsamente universalistico, quanto dall’accettazione di un razionalismo giustificativo e relativistico dei “particolarismi” culturali anche quando essi contrastino con i diritti umani fondamentali.

D’altra parte è necessario che l’uomo torni a dominare proprio la tecnica - per renderla non rassegnata né alla coincidenza del possibile etico con il possibile tecnico, né alla identificazione del «normale» con l’usuale statistico - giacché, se vuole evitare che il distacco tra scienza e vita si faccia incolmabile proprio quando la scienza sembra che possa servire alla vita come mai prima era accaduto nella storia dell’umanità, la tecnologia deve sfuggire alla tentazione dell’autosufficienza. È stato acutamente notato che la crescita tecnologica mette paradossalmente in ombra le scelte razionali che pur ne sarebbero all’origine. Il problema sostanziale si rivela, in conclusione, quello della sovranità, tema centrale nella riflessione moderna, perché nuovamente contesa tra istituzioni politico-giuridiche (rappresentative delle collettività territorialmente costituite) e poteri economico-finanziari agenti in una dimensione deterritorializzata�