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Giuseppe Acocella 1 *

1.  Il rifiuto generale di parlare di carità in economia

La Chiesa ha deciso di riprendere il cammino della carità in occasione del Concilio Vaticano II. Questo è avvenuto a causa di un maggiore contatto con il mondo, nell’evidenza, prima di allora meno percepita, delle ingiustizie e delle condizioni penose della maggioranza degli abitanti della terra, che richiedono, a viva voce, di poter vivere in condizioni migliori. Oggi la Chiesa non cessa di insistere sul tema della carità ma si rende conto che è molto difficile introdurla nell’operato degli uomini. C’è una grande disistima della carità, come se essa non potesse realmente far parte delle cose serie della vita umana�

Per molto tempo, da Leone XIII in poi, nei documenti ufficiali della sua dottrina sociale, la Chiesa, forse troppo chiusa e istituzionale, poco profetica, ha preferito parlare di giustizia sociale, di interventi “umanitari”. Non se la sentiva di usare palesemente il concetto di carità, anche se molti contenuti dottrinali rispondevano a questa categoria.

Nella critica ecclesiale all’operato atroce dei potenti del mondo verso i deboli, si usavano, e si usano ancora, termini politicamente corretti come “individualismo”, “interessi”. Troppo poco. Il Concilio Vaticano II è stato molto chiaro sul tema della carità, ma nell’immediato pochi hanno seguito quelle sollecitazioni a praticarla.

Qualche passo avanti nel linguaggio dalla chiesa ufficiale è stato fatto durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Egli ha condannato l’abitudine di

far passare le ingiustizie e le violenze contro i deboli dell’umanità come esito di “leggi necessarie” “inevitabili, inesorabili”. Ma soprattutto Benedetto XVI, con un linguaggio più elevato, e ora papa Francesco, in modo forse più immediato, hanno avuto il coraggio di cambiare tono definendo alcuni processi macroeconomici e microeconomici come chiaramente rispondenti all’egoismo. Per questo essi hanno proposto di inserire nell’economia processi ispirati alla carità e alla misericordia, insegnate da Cristo, in antitesi all’egoismo. Il 16 ottobre 2017 papa Francesco, nel suo discorso alla FAO, è tornato su questo punto:

«Pertanto mi pongo – e vi pongo – questa domanda: è troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia? (…) In effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine ‘umanitario’, tanto in uso nell’attività internazionale. Amare i fratelli e farlo per primi, senza attendere di essere corrisposto: è questo un principio evangelico che trova riscontro in tante culture e religioni e diventa principio di umanità nel linguaggio delle relazioni internazionali. È auspicabile che la diplomazia e le Istituzioni multilaterali alimentino e organizzino questa capacità di amare, perché è la via maestra che garantisce non solo la sicurezza alimentare, ma la sicurezza umana nella sua globalità».

Il fatto certo comunque è che per ora le teorie economiche rifiutano in blocco il concetto di carità. Dicono che l’economia ha proprie “leggi”, che devono essere studiate scientificamente (con categorie economiche fissate a priori nella tradizione di quella disciplina, e con l’ausilio di modelli statistici e matematici, a volte psicologici e sociologici). In queste “leggi”, o teorie, non può rientrare la carità, che non fa parte dei discorsi scientifici seri.

Nella vita concreta, inoltre, tutti sono persuasi che la carità non risolve i problemi reali. Questo è un dato acquisito nella mentalità diffusa occidentale.

2. Qual è il motivo di tanta inconsistenza del concetto di carità?

In primo luogo si tratta di un problema di mancata accettazione della carità predicata da Cristo da parte della Chiesa. Fin dai primordi del cristianesimo, c’è stata una specie di eresia profonda, di rifiuto pratico dell’insegnamento di Cristo sulla carità, che poi si trova alla base di ogni altra eresia (Narvaja,

2016)3. Erich Przyvara (1889-1972, teologo gesuita) presenta nei suoi scritti

“l’eresia intraecclesiale”.

Nella storia della Chiesa ci sono eresie intraecclesiali, che sono velate eresie della Chiesa magisteriale, cioè distorsioni, miopie che per un certo periodo possono essere considerate strettamente legate alla verità rivelata, creduta e insegnata� Quindi anche nella Chiesa magisteriale ci sono state eresie, non direttamente volute, ma frutto della ristrettezza umana� Si tratta sempre di una eliminazione o di un occultamento dell’unico mistero dell’agape (carità), e quindi del nucleo centrale del cristianesimo. Ne sono esempio: l’accettazione della mentalità gnostica, che spiritualizza l’amore e rifiuta di amare “la carne” del prossimo spesso sofferente; l’intellettualismo che in occidente si è impossessato del clero allontanando da Dio e dal prossimo una grande quantità di persone; la centralità dell’autorità, alla quale tutto è sacrificato, anche l’amore nella vita ecclesiale e monastica, per assicurare l’ordine e la disciplina; l’assoggettamento al capo carismatico che offre sicurezza, ma esclude tanti altri, mentalità diffusa specialmente dopo l’entrata nella Chiesa delle popolazioni barbariche.

A livello di piccoli gruppi all’interno della Chiesa, o come testimonianza individuale, certamente ci sono state esperienze e realizzazioni molto belle della carità. Ma il salto di qualità a livello sociale, questo progresso dell’umanità non è ancora avvenuto.

Nel Nuovo Testamento troviamo l’esperienza della comunione dei beni, narrata dagli Atti degli Apostoli (4,32-5,11). L’esperienza non fu sviluppata ulteriormente. Le novità introdotte da San Francesco nella povertà e nella condivisione dei beni, furono in parte attenuate in seguito dalla centralizzazione del governo e dalla forte accentuazione dell’autorità pontificia4. I francescani tuttavia hanno sempre mantenuto vivo il problema

del “bene comune” e cercato soluzioni a questo riguardo.