Direttrice Istituto di Formazione Politica Pedro Arrupe, Centro Studi Sociali - Osservatorio Migrazioni in Sicilia
Sul tema della terza missione e della sua relazione con le due tradizionali si è discusso a lungo negli ultimi anni. ANVUR ha prodotto, nel 2015, un manuale specifico sulla valutazione della terza missione, specificando che “a differenza delle attività di ricerca e didattica, che sono dovere istituzionale di ogni singolo docente e ricercatore, quelle di terza missione sono una responsabilità istituzionale a cui ogni ateneo risponde in modo differenziato, in funzione delle proprie specificità e delle proprie aree disciplinari e, quindi, la eventuale assenza di iniziative in una o più delle aree indicate, non implica automaticamente una valutazione negativa”1
Di fatto, pertanto, il perseguimento di tale missione sembra essere più un’attività volontaria meritoria e atta a determinare un impatto positivo sulla società in cui gli atenei operano, attraverso attività di varia natura (valorizzazione della ricerca, produzione di beni pubblici di natura sociale, culturale ed educativa��) lasciando alla libera iniziativa dei singoli atenei la programmazione strategica degli interventi che, comunque, dovrebbe prevedere una costante integrazione ed una sorta di complementarietà con le attività specifiche delle altre due missioni.
Quello che è interessante evidenziare è che nel manuale dell’ANVUR si afferma che tale missione, anche quella con una ricaduta di natura sociale, culturale ed educativa, viene considerata esplicitamente come “attività di interazione diretta con la società”, che risente anche “della qualità complessiva della società con cui si interagisce”2 e che “uno dei compiti
fondamentali delle università nel contesto della terza missione è aiutare i territori a compiere i “salti” che altrimenti non avrebbero le risorse per compiere”3�
1 ANVUR, La valutazione della terza missione nelle università italiane, 4, 2015� 2 Ibidem, 5
Ciò configura la terza missione come tutt’altro che secondaria, poiché ogni Ateneo può contestualizzare il proprio impegno nel territorio in cui opera, rispondendo ai suoi bisogni specifici, valorizzandone il tessuto sociale, culturale ed imprenditoriale, tenendo in debita considerazione il momento storico in cui opera e prestando un servizio a vantaggio della società di cui è parte integrante e significativa, in quanto luogo di divulgazione di cultura, di formazione integrale dei giovani, di elaborazione di pensiero.
Nei contesti territoriali particolarmente difficili, ad esempio per elevati problemi di inclusione sociale, scarsa efficienza dei servizi pubblici e basso reddito pro-capite, l’intera comunità accademica è chiamata a mettere a frutto le proprie competenze e risorse al fine di alimentare un processo generativo e virtuoso che possa promuovere un cambiamento positivo, collaborando con tutti gli stakeholder, in particolare le istituzioni ed il terzo settore, e discernendo con uno spirito rigorosamente laico quelli che vengono definiti come “i segni dei tempi”, cioè quegli eventi significativi di natura sociale e culturale che in qualche modo lasciano un segno nell’epoca in cui viviamo e destano una serie di interrogativi profondi.
Docenti, ricercatori e studenti sono chiamati allora responsabilmente a farsi parte attiva nella società per:
- sviluppare una coscienza critica, che implica la formazione dello studente come persona che deve potere comprendere la società in cui vive ed assumere in essa un ruolo attivo, ma anche una attenzione in tal senso alla cittadinanza nel suo complesso;
- promuovere un senso di cittadinanza attiva e stimolare processi di partecipazione democratica nel territorio di riferimento;
- garantire a tutti coloro che vivono nella nostra società pari diritti e dignità�
Le domande che il convegno AIDU ci pone, facendo seguito all’impegno assunto nella Carta di Roma, sono dunque:
- come favorire la valorizzazione e l’impiego delle conoscenze per contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società?
- come orientare didattica e ricerca verso il recepimento delle istanze che provengono dalla società e dall’economia, facilitando il radicamento di un nuovo umanesimo e la progettazione di una realtà sociale più rispondente alla dignità di ogni uomo?
- come promuovere una nuova attenzione alla persona, riportando questa al centro della storia ed imprimendo una svolta radicale agli attuali modelli di sviluppo?
In questo breve intervento proveremo a suggerire qualche impegno concreto che il mondo accademico potrebbe assumersi sul tema delle migrazioni, con la possibilità che gli atenei colgano la sfida ma anche le opportunità che il vasto processo migratorio in atto offre alla crescita culturale, economica e sociale del nostro Paese, agendo in modo responsabile ed autorevole sul tema dell’informazione, della formazione e della ricerca, ma anche, per quanto di loro competenza, della accoglienza, ad esempio di studenti o laureati stranieri�
Viviamo in un territorio di frontiera, ed in un preciso momento storico in cui l’immigrazione è un fenomeno delicato e controverso che sta cambiando lentamente ma inesorabilmente il volto della nostra società, capovolgendo le sorti politiche di singoli stati e mettendo seriamente a rischio realtà sovranazionali come l’Unione europea. Alcuni segni evidenti di cambiamento epocale sono sotto gli occhi di tutti, altri forse necessitano di una lettura attenta e di una interpretazione più profonda che certamente il mondo accademico saprà dare.
Ma chi sono gli immigrati che arrivano nel nostro Paese? L’immagine prevalente nell’opinione pubblica italiana è quella di persone con un livello di istruzione basso, occupata in professioni poco qualificate e mal retribuite, spesso nell’ambito dei servizi alla persona, dell’agricoltura stagionale, di specifici settori produttivi come il tessile a nord. La Fondazione Leone Moressa conferma questa opinione analizzando parallelamente, con uno studio del 2015, il livello di istruzione di autoctoni e stranieri, notevolmente più basso rispetto alle medie dell’Unione europea:
“L’Italia si conferma in ritardo rispetto agli altri paesi europei: tra la popolazione autoctona di età 15-64, il 42,7% possiede livello di istruzione basso (fino alla licenza media inferiore), il 42,4% un livello medio (fino al diploma di scuola superiore) e solo il 14,9% un livello alto (laurea e post- laurea). L’incidenza dei laureati nel nostro paese è la più bassa tra i paesi UE in esame, nettamente inferiore alla media UE 28 (25,4%). Anche per quanto riguarda la popolazione straniera, l’Italia è ultima in classifica per incidenza dei laureati (9,5%), indietro rispetto alla media UE (24,4%). Gli unici due paesi nell’UE in grado di attrarre stranieri altamente qualificati (con un’incidenza di laureati superiore alla popolazione autoctona) sono Svezia e Regno Unito, in cui, rispettivamente, gli stranieri con titolo di studio alto sono il 37,2% e
il 47,8%” 4�
Con l’avvento della Brexit ovviamente la situazione del Regno Unito certamente subirà qualche cambiamento.
E’ un dato di fatto, comunque, che la qualità della forza lavoro immigrata si orienta in corrispondenza all’istruzione del Paese, ma non è raro che tra gli immigrati in Italia vi siano anche persone con qualifiche elevate o titoli accademici non riconosciuti nel nostro paese che si trovano a svolgere attività lavorative molto al di sotto delle loro potenzialità.
Il paradosso dell’Italia, inoltre, è che si richiede tra gli immigrati manodopera a basso costo non qualificata ma che si perde, attraverso l’emigrazione dei giovani italiani, quella qualificata autoctona.
Secondo lo studio “Migrazioni qualificate in Italia”, realizzato per l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” dal centro studi Idos “in 14 anni (2002-2015) si può calcolare che abbiano lasciato l’Italia 202mila diplomati e 145mila laureati, non compensati dagli italiani che hanno preso la via del ritorno. Nel periodo 2012-2014 vi sono però oltre 100mila laureati in più tra gli stranieri residenti e quelli diventati nel frattempo cittadini italiani e i soggiornanti in attesa di registrazione anagrafica”.
Questi dati ci devono indurre ad una riflessione seria sul futuro del nostro paese che non può prescindere da una considerazione complessiva della situazione dei giovani autoctoni ma anche degli stranieri o neo- cittadini presenti nel nostro territorio, riconoscendo che la nostra società si sta evolvendo verso la multiculturalità e che il contributo degli immigrati all’Italia può essere qualitativamente molto più significativo.
Quali azioni concrete allora il mondo accademico potrebbe avviare, nell’ambito della Terza Missione, per contribuire sul tema immigrazione e sull’apporto qualificato degli immigrati?
Come è noto ciascun individuo che vive nel nostro paese ha il diritto di migliorare le proprie conoscenze, le capacità e le competenze in una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale in qualsiasi momento della propria vita, anche attraverso attività di apprendimento formale, non formale e informale. Le Università, peraltro, contribuiscono 4 Fondazione Leone Moressa (2014), Il Valore dell’immigrazione, (Sintesi della ricerca),
all’apprendimento permanente degli individui, sia certificando i percorsi di apprendimento individuale sia svolgendo attività di formazione continua5
Per contribuire alla sfida e cogliere le opportunità dettate dalla presenza di tanti migranti il mondo accademico potrebbe contribuire alla crescita multiculturale e qualitativa della nostra società attraverso:
1. La costante valorizzazione dei percorsi di inclusione di richiedenti protezione internazionale, rifugiati e migranti per motivi di lavoro residenti nei nostri territori attraverso il riconoscimento di titoli di tipo accademico conseguiti all’estero, delle competenze pregresse e l’accesso ai percorsi educativi e formativi�
2� Il coordinamento ed il riconoscimento delle attività di volontariato e tirocinio svolte da studenti universitari durante il periodo universitario presso associazioni di terzo Settore che operano nell’ambito dell’immigrazione, anche attraverso forme di tutoraggio a migranti in percorsi di istruzione e formazione superiore, con la certificazione delle eventuali esperienze di apprendimento non formali e informali.
Queste attività dovrebbero vedere le Università, in particolare alcuni settori disciplinari specifici, inserite in un partenariato permanente con associazioni ed istituzioni operanti nel settore al fine di una programmazione condivisa nonché di un monitoraggio e di una valutazione costante del percorso intrapreso.
Per quanto attiene al riconoscimento dei titoli degli immigrati residenti l’art. VII della Convenzione di Lisbona, ratificata internamente in Italia dalla L. 148/2002 prevede che «Ogni Parte, nell’ambito del proprio sistema di istruzione ed in conformità con le proprie disposizioni costituzionali, giuridiche e normative, adotterà tutti i provvedimenti possibili e ragionevoli per elaborare procedure atte a valutare equamente ed efficacemente se i rifugiati, i profughi e le persone in condizioni simili a quelle dei rifugiati soddisfano i requisiti per l’accesso all’istruzione superiore, a programmi complementari di insegnamento superiore o ad attività̀ lavorative, anche nei casi in cui i titoli di studio rilasciati da una delle Parti non possono essere comprovati dai relativi documenti».6
5 European Universities’ Charter on Lifelong Learning, 2008.
6 “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella regione
europea”, nota anche con la dizione sintetica di “Convenzione di Lisbona” approvata l’11
Nel caso specifico dei titolari di status di rifugiato o di protezione sussidiaria l’Italia ha adeguato la propria legislazione in tema di riconoscimento delle qualifiche tramite l’introduzione del comma 3 bis all’art. 26 del Decreto Legislativo 251/2007: «Per il riconoscimento delle qualifiche professionali, dei diplomi, dei certificati e di altri titoli conseguiti all’estero dai titolari dello status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria, le amministrazioni competenti individuano sistemi appropriati di valutazione, convalida e accreditamento che consentono il riconoscimento dei titoli ai sensi dell’articolo 49 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, anche in assenza di certificazione da parte dello Stato in cui è stato ottenuto il titolo, ove l’interessato dimostra di non poter acquisire detta certificazione».
La Direzione generale per lo studente, lo sviluppo e l’internazionalizzazione della formazione superiore del MIUR, all’interno delle “Procedure per l’accesso degli studenti stranieri richiedenti visto ai corsi di formazione superiore del 2016-2017” ha invitato le istituzioni di formazione superiore italiane a «svolgere riconoscimenti dei cicli e dei periodi di studio svolti all’estero e dei titoli di studio stranieri, ai fini dell’accesso all’istruzione superiore, del proseguimento degli studi universitari e del conseguimento dei titoli universitari italiani (art. 2 Legge 148/2002)» e «a porre in essere tutti gli sforzi necessari al fine di predisporre procedure e meccanismi interni per valutare le qualifiche dei rifugiati e dei titolari di protezione sussidiaria, anche nei casi in cui non siano presenti tutti o parte dei relativi documenti comprovanti i titoli di studio».7
Ogni Università dovrebbe attivare un servizio specifico a questo scopo, con un collegamento concreto con istituzioni e associazioni che operano con immigrati�
Attuare queste procedure è un segno di civiltà, contribuisce a promuovere un cambiamento positivo nella percezione che il Paese ha del fenomeno migratorio e a ridare dignità a persone che possono divenire risorse importanti per il territorio in cui hanno scelto di vivere.
Italia con la Legge 148 del 2002.
7 Per una disamina puntuale dei servizi esistenti in Italia e per approfondimenti su come attivarli si consiglia di consultare il sito http://www.cimea.it/it/servizi/procedure-di-
Bibliografia
ANVUR (2015), La valutazione della terza missione nelle università italiane� Fondazione Leone Moressa (2014), Il Valore dell’immigrazione, (Sintesi della
ricerca), FrancoAngeli, Milano.
EUA (2008), European Universities’ Charter on Lifelong Learning, Brussels� EU (1997), Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi