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L’analisi della cooperazione italiana in BiH mi ha portato a individuare una mancanza di sostenibilità culturale e politica delle azioni di sviluppo implementate. Tre fattori, strettamente connessi tra loro quasi a formare un circolo vizioso, compromettono la piena riuscita dei progetti e un’efficace sostegno al percorso di transizione. Innanzitutto il coinvolgimento delle OI a livello politico, il cui ruolo di prevenzione ha un effetto di sospensione la governabilità del paese limitando le riforme e delocalizzando il potere; come conseguenza, la logica etnica perdura grazie al riconoscimento accordato ai tre gruppi di maggioranza e i confini sono mantenuti attraverso il dibattito etnicizzato; infine, i limiti strutturali della cooperazione italiana, confinata nel bilateralismo a causa di leggi datate, ma con un grande potenziale in termini di negoziazione culturale e decostruzione delle identità etniche.

Al riguardo del coinvolgimento internazionale mediante governi e organizzazioni, bisogna notare che il potere detenuto dall’OHR e le mappe della divisione ottenute dal DPA esercitano ancora una funzione di garanzia e sicurezza che ha il suo fondamento nello stato d’eccezione (Agamben 2002, Hayden 2000). Questo concetto spiega l’anomalia governativa e il suo effetto, la mancanza di governabilità. Dal punto di vista dei gruppi nazionali, la divisione del paese deve essere mantenuta in virtù dell’equilibrio che regna tra le parti. Una modifica delle condizioni potrebbe spostare il peso politico e le opportunità di alcuni gruppi.

Il riconoscimento politico dei gruppi etnici ha comportato la delocalizzazione del potere, la sua resistenza ai cambiamenti e una situazione politica caotica dove governi cantonali o di entità sono liberi di legiferare autonomamente. Spesso le leggi relative alla stessa materia sono diverse a causa della strategia politica che mira a promuovere la differenza e la divisione. Esiste inoltre il problema della distanza tra la sfera politica e la base sociale, che complica e rallenta il processo di sviluppo (Bougarel, Helms, Duijzings 2007). La condizione attuale della BiH è dovuta all’immobilismo politico e a una mancanza di progressi nello sviluppo. Infatti, il paese è stato oggetto di politiche di sviluppo per quindici anni e in alcuni ambiti si trova ancora in una condizione di emergenza.

La spartizione in territori etnicamente connotati ha determinato un’assenza di integrazione ancora oggi riscontrabile. Il ritorno dei rifugiati di guerra ha comportato un aggravamento degli impedimenti e delle barriere amministrative delle autorità a tutti i livelli, portando un innalzamento della tensione e la confusione amministrativa. I movimenti dei rifugiati hanno incrementato gli attriti fra le comunità, accrescendo gli indici della scarsità di integrazione.

Tali problematiche costituiscono lo sfondo delle operazioni delle ONG italiane, un terreno comune dove le negoziazioni che hanno luogo partono da uno sbilanciamento delle intenzioni e dei poteri. Da una parte c’è il riconoscimento di aver compiuto notevoli progressi, grazie ad un intenso lavoro, dall’altra la consapevolezza del persistere di situazioni difficili da tollerare da parte di chi è coinvolto nei progetti, e incompatibili con un ulteriore progresso. In un certo senso le politiche di sviluppo sono uno strumento ostacolato dagli stessi organismi internazionali che le finanziano. La disillusione pone cooperanti e cittadini in una diversa interpretazione delle tendenze riscontrate. Gli operatori italiani avvertono l’oblio degli interventi, utili nell’immediato ma senza prospettive. Dopo aver visto per molti anni un costante impegno internazionale, umano, economico e militare, i cittadini bosniaci sono portati a considerare questa situazione come normale, istituzionale; fino a raggiungere il paradosso della transizione perpetua

È possibile attribuire alle istituzioni bosniache create dal DPA un ruolo di influenza nella percezione etnica che contraddistingue gli operatori delle ONG. Come riportato dagli informatori, le municipalità, i cantoni e i ministeri spesso esercitano il potere prendendo le parti del proprio schieramento; così il perseguimento delle logiche di sviluppo rimane sullo sfondo. Il proposito implicito di collaborare con i cittadini e il personale delle OI per implementare i progetti non trova riscontro nella realtà. Esse seguono strettamente gli accordi internazionali vigenti, che assegnano la divisione politica basandola su principi etnici. Non si notano possibili alternative alla situazione perché il sistema politico è stagnante e manca di bilanciamento.

Nonostante il coinvolgimento internazionale stia gradatamente diminuendo con il passaggio dell’Alto Rappresentante dalla competenza UN a quella EU e la prospettiva di un lento avvicinamento all’Europa. La questione etnica, dunque, è ancora presente e forte. La permanenza della questione etnica è strettamente connessa alla mancanza di governabilità e alla delocalizzazione del potere. L’etnicità agisce come una prospettiva culturale che influisce sia sulla società civile bosniaca sia sui progetti di sviluppo. L’uso dell’etnicità da parte dei politici ha cambiato la realtà e la sua rappresentazione da parte degli abitanti della BiH (Mujkić 2008). Il DPA e la conseguente costituzione della BiH sono stati promossi con l’intento di garantire la sicurezza della sopravvivenza ai diversi gruppi culturali all’interno dello stesso stato. D’altra parte esso ha causato problemi sociali e culturali in quanto afferma le differenze e fornisce loro un riconoscimento politico. È stato utilizzato uno sguardo etnicizzato che nel corso del tempo è diventato la norma,

applicato anche nella negoziazione dei progetti (Rivera 2003). Le leggi istituite tendono a replicare questo schema tramite i partiti politici e le elezioni dei leader in ogni comunità. Viene applicata la ragione etnologica con il fine di produrre dominio e controllo sull’intero territorio (Amselle 1998).

Così, la divisione ha preso la forma anche di un attacco alla differenza culturale, religiosa e artistica che costituisce la superficie degli elementi morali e culturali della differenza etnica (Cohen 1996). I gruppi vivono separati grazie all’identificazione che si realizza attraverso molteplici differenze. Ma anche quando vivono a stretto contatto la differenza persiste tramite interazioni che permettono di mantenere le differenze mediante la riduzione delle situazioni di contatto (Barth 1994). La società civile è in una prigione culturale, costretta dal sistema politico, un particolare che emerge frequentemente dal lavoro etnografico. La differenza non è elaborata ma concettualizzata come qualcosa di uniforme e immutabile. Il multiculturalismo rappresenta un limite ed è definito come un tipo di razzismo basato sull’identità etnica (Duffield 1999, Memmi 2001). L’esistenza della differenza ha influenzato anche gli operatori delle ONG in BiH. Quando creano una relazione di lavoro il loro approccio ad un gruppo è culturalmente influenzato dal continuo uso dello strumento politico da parte di organizzazioni locali o municipalità. L’etnicità è una variabile che pervade l’intero complesso delle relazioni sociali, creando interpretazioni culturali che danno vita a forme sociali e attività che servono soprattutto come supporto per l’attività politica. Le categorie etniche sono una forma artificiale usata per definire ed emarginare l’altro (Fabietti 1999, Matera 2006).

La storia della BiH si realizza dall’incontro delle differenze nella stessa terra. Il paese è tradizionalmente considerato come un confine fra culture e un luogo di integrazione (Woodward 1999). Anche dopo la crisi, il multiculturalismo rimane il tratto distintivo ma in maniera negativa, costituito cioè dall’opposizione delle culture. Questo mutamento influisce inevitabilmente sullo sviluppo del paese e l’attuazione dei progetti da parte delle ONG. Il senso delle attività svolte va colto attraverso la concezione di una cultura fluida, come quella proposta dalla prospettiva continuista (Amselle 1999). Il concetto di frontiera elaborato da Barth è ancora utile per spiegare quanto avviene in BiH (1996); frontiere etniche separano comunità più immaginate che reali (Benedict 1967): municipalità svuotate attraverso la pulizia etnica che sono ritornate abitate, città divise da una linea del fronte apparentemente incancellabile.

Gli interlocutori locali e le istituzioni hanno imparato a trattare con le persone straniere coinvolte in progetti umanitari e svolgono un compito politico piuttosto che umanitario: può accadere che impongano condizioni che limitano la libertà di operare. I progetti sono realizzati mediante negoziazione tra le parti, per cui è ammissibile che esistano posizioni diverse. Ma la collisione delle due prospettive riguarda la premessa stessa dei progetti: lavorare con lo scopo di ottenere uno sviluppo condiviso in un paese unito oppure lavorare alla ricerca di un interesse personale, nazionale, etnico mediante il mantenimento delle condizioni strutturali.

L’esperienza delle organizzazioni italiane va messa in relazione con il mondo dello sviluppo ancora permeato da un immaginario e da modelli positivisti. Le organizzazioni italiane, malgrado e in parte anche grazie al loro carattere “effimero” hanno la capacità di stabilire relazioni sul territorio, costruendo rapporti in profondità con le comunità in cui operano (Lanzara 1993). Questo aspetto del loro operato è dovuto al superamento di una lettura razionale dei progetti, che non costituisce più un paradigma, risulta anzi soppiantata da un’intensa attività di costruzione, relazione e negoziazione.

Senza enfatizzare il peso della critica all’aiuto allo sviluppo, descritto come un blocco monolitico, le pratiche messe in atto consistono di una compresenza di differenti modelli che le rendono una realtà multivocale ed eterogenea. Vanno oltre le retoriche della partecipazione che spesso trascurano le specificità territoriali implementando attività estranee al contesto operativo. Il coinvolgimento della società civile e la costruzione di reti sono delle priorità che non si traducono in una pratica comune ma rimangono relegate alle capacità dei cooperanti sul territorio.

Ma a orientare le pratiche non è solo un sistema implicito di rappresentazioni, immaginari e conoscenze, costruito e negoziato, è presente anche un sistema codificato di politiche pregresse agli attori. Per questo motivo l’operato delle ONG è oggetto di un dibattito fra il carattere strumentale delle loro azioni e l’effettivo apporto che i partner locali riescono a dare nella costruzione di politiche partecipative. Esiste innanzitutto la dipendenza economica, proprietà fondante e non eliminabile dei rapporti di aiuto. Ma il limite della società civile per la risoluzione delle problematiche di sviluppo della BiH è la permanenza delle definizioni identitarie etniche. Arrivo così a considerare la sostenibilità dei progetti di cooperazione allo sviluppo in BiH come emanazione di una cultura dello sviluppo multilaterale e della decostruzione delle identità etniche di gruppo, vincolata alle intrinseche specificità di componenti della relazione.

Le frontiere culturali che dividono la società bosniaca sono state mantenute durante questi anni attraverso regole e comportamenti quotidiani che comprendono il matrimonio, la religione, la politica e le comunicazioni tra i diversi gruppi. L’obbiettivo delle ONG italiane è oltrepassare questi confini per mettere in discussione le pratiche culturali che li supportano (Cohen 1994). Molti progetti implicano momenti comuni di lavoro, presentazioni pubbliche e la negoziazione del cambiamento delle politiche. Ma esistono anche confini politici e geografici ancora operativi che consistono nella differenza legislativa tra le due entità e tra i cantoni della FBH. La presenza di leggi e interlocutori differenti implica la predisposizione dei progetti alla creazione di relazioni che prefiguravano un obiettivo di integrazione a lungo termine.

Esiste dunque una influenza da parte della politica statale, cantonale e municipale, che si fonda sul monopolio del potere di negoziazione con le ONG. Quando queste non riescono a svincolarsi dallo sguardo etnicizzante imposto, l’applicazione dei progetti contribuisce alla immutabilità delle condizioni nell’area di intervento. Come sostiene Ivekovic (1995), la strategia di cui necessita la BiH è uscire dalla logica del nazionalismo come risposta al nazionalismo. I progetti delle ONG sono scritti riferendosi allo stato della rappresentazione etnica in BiH, con la dichiarata intenzione di ritornare a un’idea di cittadinanza piuttosto che di etnicità, di democrazia al posto della etnocrazia. Per ottenere questi risultati è necessario ricostruire il dialogo e lo scambio tra le comunità e i cittadini, smantellare l’apparato etnico teoretico cresciuto durante gli anni della guerra e costruirne uno nuovo, che abbia le caratteristiche di un concreto multiculturalismo, basato sul riconoscimento delle differenze in modo inclusivo e sulla costruzione della cittadinanza.

Il deficit di inclusione che è stato messo in evidenza dai rapporti dell’UNDP viene considerato come un ostacolo nel percorso necessario per lo sviluppo del paese. Spesso i progetti italiani operano senza considerare l’inclusione uno specifico obiettivo del progetto, ma come una condizione necessaria per la sua realizzazione. In questo senso, i confini politici che separano i gruppi etnici hanno conseguenze anche sulla vita sociale. Essi implicano l’organizzazione dei comportamenti e delle relazioni sociali complesse. Il riconoscimento dell’altro come straniero, diverso, appartenente a un differente gruppo etnico, comporta un limite nella conoscenza condivisa.

Passando ai limiti strutturali della cooperazione italiana, sono stati identificati dei punti critici quali l’insufficiente dimensione delle ONG, vero tratto di distinzione da altri modelli di sviluppo nazionali e per certi versi un punto di vantaggio; la dipendenza dai finanziamenti pubblici e assenza di diversificazione delle fonti finanziarie, tralasciando i modelli di cooperazione legati a sindacati e chiese; la frammentazione e la contrapposizione rispetto alle questioni più rilevanti, di cui in BiH si è sentito tutto il peso; la carenza nelle capacità programmatiche e progettuali a lungo termine (Raimondi e Antonelli 2001).

Le ONG che operano in BiH sono esposte a compromessi quali il progettismo, settorialismo e il verticismo che hanno la funzione di mantenere in vita le relazioni create sul territorio. Sfruttano i meccanismi della cooperazione bilaterale per perseguire logiche di sviluppo partecipativo. Questo perlomeno avviene nei progetti promossi dal MAE. In quelli affidati, invece, accade spesso che vengano proposte soluzioni preconfezionate a problemi definiti. Per di più tali risposte giungono in ritardo, rallentate dal burocratismo, mancando di incontrare la domanda originaria. Tale condizione

finisce per favorire inevitabilmente la strumentalizzazione dei progetti e la deriva etnica, che trova in questo tipo di sviluppo una collaborazione.

Per sostituire i presenti modelli di sviluppo la strada è ancora in definizione. È stata prospettata la nascita di un nuovo multilateralismo fondato su un ruolo di mediazione più consistente delle UN, con i governi nazionali, le ONG, e le comunità e attori locali che già fanno parte degli attori dello sviluppo. Il vantaggio sarebbe una maggiore autonomia operativa, la possibilità di programmare assieme al territorio e con una prospettiva di lungo periodo. In realà non cambierebbe la sostanza dei fatti, che relega le chiavi di lettura della realtà al donatore piuttosto che al beneficiario, in un dualismo che nessuno accenna a mettere in discussione. Le logiche della cooperazione allo sviluppo continuano a essere tradotte, e nel passaggio dalle politiche alla realizzazione si avverte l’imposizione di valori astratti, miti che non rispondo alle reali necessità. In questo senso, la cooperazione decentrata, che ha già compiuto molta strada negli ultimi decenni, dovrebbe diventare una pratica più autonoma rispetto ai governi di pertinenza nei confronti della interpretazione dei bisogni, favorendo partenariati che possano divenire reali scambi di pratiche, negoziazioni, incontri di culture.

Attraverso la ricerca presentata in questa tesi ho focalizzato la relazione di sviluppo instauratasi tra due paesi, ponendomi al di fuori delle derive strumentali a cui questa disciplina si è prestata in passato. L’approccio antropologico impiegato è teso a “svelare” da una parte le logiche implicite delle politiche di sviluppo sottese ai programmi di cooperazione messi in campo dalle ONG italiane e dall’altra le logiche etnicizzate che caratterizzano gli interlocutori delle ONG. I contesti di riferimento sono caratterizzati da una complessità che invita a esser esplicitata per rendere l’incontro degli operatori e delle culture dello sviluppo più focalizzato alla comprensione dell’altro. Interessa dunque rivelare quali culture si annidino al riparo di una relazione di sviluppo attraverso l’identificazione delle logiche problematizzanti e delle strategie di azione culturalmente definite.

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