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Perversione delle pratiche di sviluppo

6.3 La relazione sul territorio

6.3.2 Perversione delle pratiche di sviluppo

Un aspetto decisivo della relazione che si stabiliva sul campo era la possibilità di una perversione delle logiche prestabilite. Con il termine perversione intendo la deviazione da una logica del progetto di sviluppo come pratica di mutamento delle condizioni esistenti attraverso un lavoro cooperativo di due o più partner provenienti dai due paesi considerati. Secondo la pratica diffusa, il senso dei progetti era negoziato preliminarmente e in seguito veniva posta la firma dei vari partner. Ma al di là di questi accordi esistevano esigenze diverse. A volte le ONG scrivevano e implementavano progetti con la sola motivazione di continuare ad operare in un’area ritenuta di interesse, senza il riscontro di un effettivo bisogno. Si era creata una situazione descritta anche da Mosse; gli interventi non erano guidati da precisi scopi di sviluppo ma dalle esigenze lavorative delle organizzazioni (2004).

Nel caso della ADL di Zavidovici, Srijeda mi ha spiegato che la funzione dei progetti talvolta era indirizzata alla esistenza stessa dell’intervento piuttosto che agli effetti che questo poteva produrre. La relazione sul territorio era direttamente connessa con la necessità di realizzare il progetto.

“Ci sono dei progetti della Commissione Europea o dell’Italia che spesso non rispondono ai bisogni che ci sono qua sul territorio perché non ci sono partner in grado di implementarli. Ma la gente qua è stanca di questo tipo di progetti. In aprile abbiamo fatto un seminario sulla Cooperazione Italiana e sulle sue prospettive in futuro. Tante associazioni che hanno lavorato molto bene nell’aiuto umanitario e sostegno a società civile si sono perse nell’aiuto allo sviluppo, hanno difficoltà. Noi da sempre cerchiamo di capire i bisogni e comunicarli alla parte interessata in Italia, per ottenere finanziamenti. A volte vengono le idee ma non si riesce a trovare qualcuno con cui realizzarle. Dall’altra parte noi cerchiamo di non accettare incondizionatamente i progetti che vengono dall’Italia. Però a volte succede, ci sono associazioni che seguono il call proposal della UE. Per avere un ufficio e pagare le spese, servono progetti un po’ più grandi, quindi a volte devi accettare progetti che non servono davvero ma sono utili a finanziare la struttura.”

Questo problema fa parte del progettismo teorizzato da Carrino secondo cui le organizzazioni cedono alla frenesia di avere sempre un progetto da mettere a punto, sacrificando la fase di scelta e riflessione (2005:23). In realtà gli eventi che accadevano sul campo possono essere anche contraddittori. Organizzazioni che sostenevano progetti di successo si sono trovate nella condizione di svolgere interventi finalizzati alla permanenza sul territorio. Ma non risulta semplice fare queste distinzioni perché esistono progetti di lungo…

In altri casi il ruolo dei cooperanti è stato strumentalizzato da parte dei beneficiari con l’intenzione di trarre vantaggio personale o con secondi fini rispetto a quanto preventivato.

Marcello, projetc manager di ONG 7, ha illustrato in che modo si instauravano delle deviazioni nel processo di negoziazione.

“È successo che alcuni sindaci si sono accorti che non c’erano tanti finanziamenti per progetti che allora avevano in mente fin dall’inizio allora hanno rinunciato. Spesso il sindaco ha un suo obiettivo e se quello che gli proponi non è di suo interesse non accetta. Il tuo lavoro diventa anche quello di motivare queste persone, fare promozione.”

Erano presenti due discorsi differenti, ognuno con i propri obiettivi, che si incontravano solamente grazie al fatto che il progetto dava la possibilità ad ognuno di realizzare il suo. Ma in questo modo non si realizza sviluppo, solo uno scambio di interessi.

La pratica appena descritta può essere anche controproducente. Valeria mi ha raccontato un’esperienza che non è andata a buon fine a causa dell’interazione con persone che hanno manifestato interessi diversi rispetto al progetto concordato.

“È accaduto in passato che dopo la nostra partenza il progetto si sia sfasciato e addirittura che gli strumenti siano stati rubati. Per evitare questo tipo di situazioni il punto sta nel trovare le persone giuste con cui lavorare. Se si trovano persone motivate, che credono nell’idea, riesci ad andare avanti. A volte, anche nei progetti partecipati, se tu metti a capo della cooperativa persone che non capiscano o non ci credono, non ottieni buoni risultati. O hai una base sociale molto forte oppure il progetto fallisce. Generalmente si cerca di non realizzare interventi senza delle basi concrete. Spesso sono state create associazioni dal nulla, con persone proposte dalla municipalità. Se invece imponiamo noi delle persone è facile che quando ce ne andiamo queste vengano rimosse. C’è stato un caso in cui abbiamo comprato dei motori silenziosi per le barche del parco fluviale della Neretva. Loro prima ci andavano con le barche normali. I parchi naturali hanno direttori scelti a livello politico. Li abbiamo comprati e il giorno dopo erano spariti. Il direttore ci ha rinfacciato che non avessimo chiesto quali motori servivano e si è pronunciato contento del furto perché a loro non piacevano. Ho capito che è stata una scelta e non un processo. Bisogna lavorare cercando di essere sempre molto concreti, raggiungere decisioni attraverso processi. Questo aiuta a capire cosa funziona e cosa no; e fornisce anche la motivazione.”

Anche Valeria indicava la base sociale come fattore determinante, presupposto di un progetto di sviluppo di successo. Ma la scelta delle persone non è facile e, come in questo caso, capita di fare degli errori. Del resto si trattava di una difficile negoziazione tra la ONG e la municipalità, dettata evidentemente da interessi diversi. Se da una parte i progetti erano vissuti come una volontà di lavoro e cambiamento, dall’altra questi potevano essere interpretati come una opportunità.

Un fattore determinante per cercare una relazione efficace era la percezione che i locali avevano dei progetti di sviluppo. Le ONG erano viste come parte di un altro mondo, distante e ricco. Per questo i beneficiari cercavano di sfruttare le potenzialità offerte dall’attivazione dei progetti. Dall’esperienza di Piero a Mostar emergeva che l’ideale stereotipato delle ricche organizzazioni occidentali non era affatto tramontato, ma anzi ha ancora un peso determinante.

“C’è l’abitudine alla lista della spesa. Macchina, computer, telefono, pensano che tutto sia dovuto. Volevano spendere i soldi del budget anche se non sapevano come. Avevano bisogno di cambiare il parco macchine perché era andato distrutto. Lo avevano lasciato senza cure perché sapevano che sarebbe arrivato qualcun altro a cambiarlo. Ma non ho accettato e ho approvato solo alcune modifiche per aggiustare delle macchine necessarie al lavoro. E loro si sono arrabbiati.

Dal loro punto di vista lo fanno in buona fede: l’intervento è sempre stato così, pensano, “perché adesso cambiate?” Il fatto è che c’è un cambiamento della situazione e bisogna anche cambiare le logiche con cui si opera. C’è l’idea che questa sia la cooperazione: lavorare senza la necessità di rendere conto del risultato. A molti non interessa il risultato, interessa solo il numero di quello che si sta facendo.”

Piero indicava il cambiamento delle logiche con cui operare. Si trattava di un’operazione necessaria per poter uscire da una sorta di finto sviluppo, una moderna forma di dipendenza attuata con la burocrazia e gli attori dello sviluppo. Esisteva dunque il ruolo di responsabilità dei cooperanti. In quanto personale sul territorio spettava a loro farsi interpreti delle esigenze di beneficiari e benefattori, gestire le risorse nel modo più opportuno al raggiungimento dei risultati,

evitando che il progetto fosse solo un numero per chi stava in Italia e una risorsa incontrollata per i bosniaci. Dentro a questa logica rientravano tutte le spese messe a bilancio, anche le vetture per i cooperanti e le attrezzature che servivano per il lavoro.

“In bilancio avevo un fuoristrada e invece ho comprato due Punto e un Doblò, perché non avevo bisogno del fuoristrada. Le macchine che hai visto oggi e mi hai chiesto se sono prodotte in BiH, sono effettivamente prodotte in BiH. Avevamo in bilancio circa 250.000 marchi e ne abbiamo spesi poco meno della metà. A volte i soldi non si spendono. Noi amministriamo fondi pubblici o privati. Non perché li ho messi in bilancio li spendo. Se posso restituirli lo faccio.”

Nejra, presidente di Link, associazione registrata in BiH ma nata da un progetto del ONG 8 testimoniava la sua esperienza particolarmente fortunata denunciando al contempo le pratiche nocive che vedeva attuate dalle altre ONG. Link costituiva infatti un caso unico di passaggio dai progetti italiani alla realtà bosniaca.

“La maggior parte sono progetti per se, nel senso per implementare le due tre attività, per dare uno stipendio a internazionali e locali, ma cosa lasciano sul territorio? L’investimento del ONG 8 è un investimento lungo. Un in impegno profondo. È dal 1997 che ONG 8 ha cercato di capire che cosa manca, calzolai, falegnami… prima era solo commercio, e tutto in nero, nessuno era registrato, nessuno ti dava lo scontrino. ONG 8 aveva un approccio sano, da professionista. Ha sempre cercato di vedere se Link era arrivato alla sua sostenibilità e questo ha portato ONG 8 a fare progetti dove potesse includere anche Link, con una parte più piccola o più grande, dipendeva dai fondi.

Posso dire che la cooperazione di ONG 8 funziona ma io non posso dire la stessa cosa di altri. Non ho visto ancora un’organizzazione che ha fatto altrettanto. Forse non posso dirlo però se prendo un quadro generale dei progetti, direi che non c’è questo nelle altre organizzazioni internazionali, come approccio. Intendo fondare un’associazione dal niente. Che abbia cento soci, che sia di rispetto, con partner quali il Ministero federale della piccola e media impresa.

Spesso ci sono progetti di cui non c’è bisogno. Ci sono anche quelli fatti per guadagnare… ne ho visti anche qui da noi dei progetti così.”

Esisteva dunque una perversione trasversale, compiuta dai beneficiari come dagli stessi benefattori. In parte il sistema di funzionamento dei progetti consentiva i comportamenti deviati. Legalmente era tutto a posto anche se in effetti non funzionava nulla. La riflessione sui malfunzionamenti della cooperazione implicava delle distorsioni della relazione che si ripercuotevano anche sulla questione etnica.

La prossima testimonianza introduce al tema dello sfruttamento degli interventi da parte dei beneficiari. Chiara, di ONG 14, commentava rammaricata le esperienze negative che hanno minato la sostenibilità del progetto.

“Per i quadri abbiamo fatto una parte di formazione, più che legata ai ruoli gestionali, allo start up della struttura produttiva al bilancio, alla gestione economica. Formazione specialistica per gli operai e formazione gestionale amministrativa. Non c’è stata la capacità anche nostra di accorgerci dei problemi e di intervenire prima che i problemi esplodessero. E quindi è come dire il famoso problema della sostenibilità di un progetto, nel senso che è molto complesso trovare qualcosa che funzioni in autonomia quando tu te ne vai. Perché c’è a parte uno scontro di mentalità, anche una lettura da parte dei bosniaci di pensare che comunque lo straniero è quello con i soldi e che in qualche modo tutto gli è dovuto. C’è una visione opposta della cosa. E una sensazione che ho avuto io vedendo sia la gestione dei progetti che confrontandomi con altre persone, sia in BiH che in Kosovo, la sensazione che ho io è che anche il personale locale non crede più di tanto in quello che sta facendo ma lo fa per accontentare te. Non è successo in questo progetto perché avevamo un bravo project manager.

In un progetto che abbiamo chiuso un anno fa il personale locale, molto giovane, a Bosanska Krupa, sembrava più interessato a ricevere lo stipendio che a svolgere effettivamente il progetto. Sembrava ci facessero un favore. Certe volte c’è un errore della organizzazione che va giù pensando di portare il verbo per impiantare un modello italiano in questa realtà. Il problema è che c’è stato un cambio in corsa del sindaco. Ci sono state le elezioni… il sindaco di prima era il preside della scuola elementare e aveva dato qualche problema nel progetto di volontariato nelle scuole (progetti di animazione che facciamo dal 97) Era come se dicesse, va bene, io vi faccio fare il vostro progetto però voi dovete portarmi dei computer, come se noi andassimo li, e lui facesse un favore a noi a far giocare i bambini. Quando è

diventato sindaco nel 2000 lo stesso tipo di problemi che avevamo avuto per i campi estivi, lo abbiamo avuto per la realizzazione dei progetti più grossi. Comunque sia era come se lui volesse sempre un tornaconto: questo ha creato dei problemi e la disaffezione nostra nei confronti del luogo.

Loro leggono l’arrivo della ONG come occasione per spillare qualcosa che non è compreso nell’offerta iniziale. Veramente siamo vacche da mungere. Adesso la situazione è un po’ cambiata. Ma tu sei l’internazionale e l’internazionale ha i soldi. Non concepiscono il fatto che i volontari che partono tutti gli anni per fare animazione estiva si paghino di fatto tutto, il viaggio, il cibo, la permanenza, l’assicurazione.”

La causa preminente delle deviazioni dal normale corso di progettazione e implementazione dei progetti è il tempo. Il fatto che il processo di sviluppo sia molto lungo ha influito sulle rappresentazioni dei progetti da parte degli stessi oggetti e soggetti. Questo fattore era indirettamente collegato alla questione etnica. Lo stato di eccezione di cui ho parlato nel capitolo 4, conseguenza del DPA e del coinvolgimento internazionale in BiH, aveva determinato una situazione di stallo in cui molto difficilmente venivano realizzate riforme politiche che potessero rendere duraturi gli effetti degli investimenti nello sviluppo del paese. La governabilità risultava sospesa o rallentata, lasciando alla cooperazione internazionale il ruolo di agente dello sviluppo.

Così i bosniaci hanno vissuto contando sui contributi internazionali e in alcuni casi considerandoli la normalità. È possibile affermare che generalmente essi hanno imparato ad interagire con ONG e organizzazioni internazionali in modo da non subire i progetti ma anzi reindirizzandoli a seconda del proprio volere. Questo percorso non è necessariamente errato ma lascia spazio a interpretazioni personalistiche e a influenze politiche o di gruppo etnico. Considero la logica etnica il maggior pericolo per le politiche di sviluppo e non che vengono proposte in BiH. Lasciare la possibilità di strumentalizzare l’intervento portava al fallimento.

“Nel 2001 facevamo microcredito a Doboj, per lo più con le stesse persone con cui lavoriamo oggi. Andò benissimo: ottenemmo un’altissima percentuale di rientro, 92-93%. Fu un’esperienza fantastica. Dal 2001 al 2005 sono passati 4 anni e la situazione è la stessa, le condizioni economiche sono rimaste le stesse e la gente si è disillusa, non crede più a che cosa si possa costruire a medio e lungo termine. Interessa solo quello che possono avere oggi perché stasera devono mangiare. Fanno anche i furbi: in dieci anni hanno imparato trattare con noi… è un po’ una battaglia.”

Emergeva in maniera ironica il racconto delle negoziazioni che costituivano il fondamento delle relazioni sul campo. Ma sotto l’aspetto folkloristico si allargava l’ombra di un dialogo che non riusciva a funzionare perché gli interlocutori parlavano lingue diverse, ognuno la propria, senza incontrarsi sulla lingua progetto (Olivier de Serdan 1995). Mentre i cooperanti usavano la lingua dello sviluppo, i beneficiari usavano quella locale, vanificando così il dialogo instaurato.

In alcuni casi il progettismo era corredato dalla variante etnica. La controparte bosniaca non accettava di essere beneficiaria dei progetti solo per ricevere soldi ma anche per impiegarli a favore della propria parte, prestando attenzione a degli equilibri che non avevano alcun senso se non quello della difesa del confine (Barth 1996). Mario, di ONG 11, confermava la strumentalizzazione della relazione di aiuto allo sviluppo da parte degli stessi soggetti che ne beneficiavano.

“Il problema è che pongono domande politiche come: perché ci sono 10 scuole in RS mentre in FBH sono 36? La risposta è che si tratta di un progetto vecchio ed è stato approvato tanto tempo fa. Il fatto che si conti sul numero… dobbiamo cambiare cartellina perché non è segnata la RS… loro ci hanno sempre detto che andava bene così. All’inizio nel progetto era prevista solo Banja Luka poi sono state inserite Doboi, Prijedor e Derventa. Ma ancora non bastava, servivano altre zone per bilanciare il progetto. Le città sono comunque state individuate in base al bisogno. Il fatto principale era però che ci fossero troppo poche città rispetto alla federazione. Devono fare vedere rispetto ai ministeri che difendono gli interessi della RS. C’è la richiesta di una parità di trattamento. Che se si pensa alla distribuzione degli abitanti risulta anche ridicolo perché la FBH ha tre milioni di abitanti mentre la RS solamente uno. Già si fa fatica a controllarne 10. Poi si rendono conto che comunque il progetto funziona ed è utile.”

In questo frammento si trattava di una negoziazione etnica, basata sull’intenzione di mantenere i confini di gruppo e di difendere i propri interessi nei confronti di una autorità politica. ONG 11 ha operato secondo i bisogni rilevati ma si scontrava contro necessità diverse. Alla fine il progetto è stato portato a compimento ma le modalità di lavoro sono state alterate portando a conflitti e rallentamenti.

Le pratiche illustrate devono essere annoverate tra i verbali nascosti, voci di un dialogo non sempre efficace (Scott 2006). Più che rilevare l’etnicizzazione del territorio, sicuramente presente e già indagata in altri studi, quello che mettono in evidenza è il limite degli strumenti di cui si dota la cooperazione. La perversione della relazione era legata anche alla rigidità dei progetti. Tarabusi, nelle conclusioni del suo libro, considera il mondo dello sviluppo ancora succube di una logica positivista, in cui i progetti sono considerati “disegni tecnici” da seguire scrupolosamente (2008). Ma sul campo ho incontrato operatori che distinguevano fra la scrittura e l’implementazione, lamentandosi della prigione dei formalismi.

Posso concludere la sezione dedicata alla relazione considerando che in BiH esistevano politiche di cooperazione incentrate sul rapporto con la società civile di riferimento e sulla elaborazione del conflitto. Le ONG consideravano basilare il lavoro degli operatori e dei beneficiari su quanto accaduto durante il conflitto in BiH. Dall’altra parte erano presenti esperienze in cui la logica di spartizione, l’inflazione degli aiuti, il tempo, la rigidità dei progetti ha portato ad un meccanismo perverso, che operava senza nessuna sostenibilità. Tale condizione ha creato le condizioni, direttamente o indirettamente, affinché la frammentazione etnica potesse insidiare i progetti.