La caratteristica principale della crisi bosniaca va identificata nel fatto che riguardò non solo i tre paesi balcanici ma anche la comunità internazionale, la quale intervenne in vari modi, prima con il fine di cercare una risoluzione al conflitto e in un secondo tempo per mitigare i problemi della società civile (Fagan 2005). I critici hanno valutato quest’azione in maniera unanimemente negativa, attribuendole effetti sfavorevoli immediati e futuri (Mujkić 2008, Chandler 1999, Burg e Shoup 1999, Woodward 1995). A dodici anni dalla fine del conflitto la BiH non sembrava più vicina alla soluzione dei suoi problemi di sovranità e democratizzazione di quanto non lo fosse immediatamente dopo la firma del DPA (Gagnon in Mujkić 2008:9, Gow 1997:298).
Gli anni successivi al 1992 furono caratterizzati dagli scontri in numerose zone e dal tentativo della diplomazia internazionale di porre una soluzione al conflitto. La CEE propose un piano cantonale che all’inizio fu accettato da tutti e tre i gruppi ma che in seguito venne abbandonato dalla parte Croata, in quanto presumeva che fosse lesivo delle loro richieste. Ma a causa della
42 Mi riferisco all’offensiva di Vukovar nel 1991.
disposizione degli insediamenti sul territorio era impossibile compiere una divisione che non lasciasse insoddisfatta una parte dei cittadini.
L’apporto esterno alla conclusione delle trattative di pace è stato determinante. La prospettiva di divisione è maturata all’interno dello Stato, e sui suoi confini, considerando il ruolo della Croazia e della Serbia. Ma in essa ha rivestito un ruolo fondamentale tutta la comunità internazionale; fin dall’inizio del suo intervento, attraverso i diplomatici, la prospettiva etnica non venne rimossa ma accolta come una condizione necessaria nella interpretazione della situazione. Da qui deriva l’incapacità di gestire il periodo post-conflitto durante il quale sono state istituzionalizzate le differenze tra i gruppi, creando confini che ricalcavano le volontà degli aggressori (Fabietti 1998).
La risposta dei paesi europei alla crisi jugoslava arrivò in ritardo e fu caratterizzata da un grave deficit di analisi, dalla carenza di strumenti di intervento e dall’assenza di decisioni sul da farsi. L’ostacolo maggiore fu trovare un accordo globale riguardo al problema della tutela delle comunità etniche minoritarie nelle repubbliche di Bosnia e Croazia. Per le minoranze etniche non tutelate all’interno dei paesi in cui si trovavano, si sarebbe negoziata una soluzione di forte autonomia pur permanendo all’interno di quello stato.
La CEE aveva trovato nella crisi balcanica un ostacolo allo sviluppo unitario; le ipotesi di schieramento dei Paesi che la componevano erano caratterizzate dalla mancanza di uniformità. Questo comportamento portò i Paesi a disporsi l’uno contro l’altro anziché coalizzarsi al fine di annullare le prospettiva nazionaliste che si stavano manifestando. Venne dunque rivelata l’incapacità di affrontare il nazionalismo se non intenzionalmente e l’impossibilità di costruire la convivenza multietnica e la cittadinanza. La politica europea sulla difesa (ESDI) si risolse all’interno della NATO, che in questo modo ebbe l’occasione per ricostruire la sua egemonia in Europa.
A dispetto di una iniziale esclusione in favore dell’intervento della sola UE, in seguito l’ONU decretò un embargo delle armi e l’interdizione dei voli sulla BiH. La minaccia di ricorso alla forza dell’ONU passò tutta attraverso la NATO. Il contratto di ingaggio dei caschi blu consentiva infatti di aprire il fuoco per salvare se stessi, i convogli umanitari, preservare la zona di interdizione al volo e le popolazioni in pericolo. L’azione dell’ONU fu contraddittoria anche a causa della mancanza di accordo con i Paesi dell’Europa occidentale. In definitiva il suo operato, sebbene considerabile militarmente all’altezza, fu in realtà politicamente insufficiente e fra le conseguenze vi fu anche una minore credibilità dell’ONU a livello internazionale.
Il piano Vance-Owen fu il primo tentativo allargato all’ONU e altri stati interessati nella negoziazione, proposto dopo il fallimento della risoluzione negoziata dalla CEE. Prevedeva la divisione del Paese in province autonome con forti poteri governativi e il controllo della polizia. Un particolare elemento positivo era l’assicurazione per tutti i rifugiati di poter tornare nelle loro case anche se contraddittorio rispetto alle larghe disponibilità di governo di cui disponevano le province. Il piano Vance-Owen segnò anche l’inizio dell’embargo militare per contrastare la vendita e il passaggio di armi in BiH (Rumiz 2000). Dopo una lunga contrattazione il piano sfumò, lasciando spazio all’intervento dell’ONU. Questo ebbe la funzione di controllo delle aree occupate dai bosgnacchi, con il fine di garantirne la sicurezza. Entrambi questi tentativi di risoluzione sono stati criticati da storici ed analisti politici in quanto hanno rappresentato l’incapacità internazionale, dell’ONU nel complesso ma anche dai singoli paesi come USA, Francia, Germania, Inghilterra, nel trattare gli eventi che accadevano in BiH.
Un nuovo tentativo fu proposto attraverso il piano Owen-Stoltemberg. Questo prevedeva la divisione del Paese in tre distinte repubbliche, con la pienezza dei poteri governativi e militari. Il suo fallimento venne decretato dalle peggiori condizioni imposte a tutte le parti in causa. Successivamente si formò il gruppo di contatto (PIC), formato da USA, Francia, Germania, Inghilterra. Questo segnò la presa della leadership da parte degli USA, quali dichiararono la propria intenzione nel trasformare la BiH in uno stato dalla democrazia liberale funzionante (Gagnon in Mujkić 2008). Venne proposta una nuova soluzione di stato condiviso con due differenti entità, una per i Serbi e una per i Musulmani e Croati, con poteri decentrati e presidenza a turno. Anche questa
proposta, per quanto diversa dalle precedenti e in certi punti migliore, fu destinata al fallimento. Le parti non riuscivano a trovare un accordo che accontentasse le pretese di ognuno.
Nel novembre del 1995, sotto la sempre più intensa guida degli USA e l’intervento della NATO venne portato a termine l’accordo di pace di Dayton (DPA) 44, il quale pose fine alla guerra sancendo la divisione l’esistenza e la permanenza delle differenze. Si completò così un processo di disgregazione che fin dal suo inizio aveva operato con l’intenzione di scardinare l’unità nazionale precedente.