Come conferma la letteratura riguardante l’intervento internazionale in BiH, si può affermare che mentre la crisi imperversava nei Balcani, il resto del Mondo stava a guardare, replicando uno schema già sperimentato per altri conflitti (Rossetti 2004). Il ruolo dei media nella rappresentazione del conflitto è stato fondamentale. La guerra esplosa in BiH è stata oggetto della più grande copertura mediatica di ogni evento bellico della storia accaduto fino ad allora e, come naturale conseguenza di questo fatto, del più alto numero di giornalisti uccisi. Soprattutto i Paesi vicini ed Europei guardavano la BiH con interesse e preoccupazione; la comprensione degli eventi costituiva per loro il primo passo per un eventuale intervento.
Legato alle narrazioni dei media non è solo la cronaca quotidiana degli eventi bellici ma anche la testimonianza del dolore delle persone coinvolte e la comunicazione di un messaggio di aiuto verso gli spettatori. La trattazione da parte dei giornali, delle televisioni e dei media in genere di un operazioni come quelle avvenute in BiH incideva anche sul modo in cui i gruppi sociali non governativi agivano (Marcon 2000).
L’intervento d’aiuto e di manifestazione di pace stesso diventava notizia e si prestava alla rappresentazione mediatica. In questo senso, l’eco ottenuta dall’ingerenza umanitaria non fu ritenuta adeguata; non se ne parlò a sufficienza e forse non in modo adeguato (ibidem). C’è stata una prevalenza di servizi televisivi basati sulla drammaticità delle immagini e delle storie, una spettacolarizzazione dell’evento (Boltanski 2000). Alla descrizione del conflitto così come a quella delle attività di interposizione e di manifestazione di ideali di pace è mancato il significato politico e culturale. Dunque, i media non sono riusciti a dare origine alle riflessioni sul valore del pacifismo e del volontariato nella ex Jugoslavia (Marcon 2000). Sono però riusciti a testimoniare la presenza dei volontari e la necessità del loro ruolo, innescando un effetto a catena di coinvolgimento, una sorta di spirale dell’aiuto.
L’intento che mosse le associazioni italiane è riscontrabile nel ruolo proprio della società civile di costruttore di ponti di convivenza, di dialogo e di riconciliazione, fondamentali per contrastare il nazionalismo in zone di sovrapposizione e di intreccio multietnico. Lo sfondo di queste operazioni era la convivenza interetnica, che veniva proposta come soluzione del conflitto, in alternativa alla partizione per cui propendevano le parti governative locali e internazionali.
Il fondamento teorico sostenuto era che un progetto antinazionalista nei balcani dovesse basarsi sulla diffusione degli anticorpi quali la democrazia, il federalismo delle autonomie, l’integrazione, il rafforzamento della società civile e della cittadinanza. In generale, il discorso nazionalista si fondava sull’appartenenza etnica e a questo veniva dunque contrapposta la pratica della cittadinanza basata non sulla nazionalità o sul sangue ma sui rapporti con lo stato; l’alternativa alle etnodemocrazie erano le democrazie della convivenza e della società civile (Campani, Carchedi, Mottura 1998). Anche Kaldor ricorda che “the term civil society proved a useful concept in opposing militarized regimes”, supportando la via sociale in risposta al conflitto (2003).
Le organizzazioni pacifiste furono le più suscettibili alla comunicazione del conflitto jugoslavo. Queste si mobilitarono cercando una risposta al bisogno emergenziale che si era venuto a creare. Costituirono dunque il primo passo di un intervento che nel corso degli anni si strutturò, rafforzandosi e mutando, creando le condizioni per i processi di sviluppo che verranno illustrati nei prossimi capitoli di questo testo. Il fattore di successo del pacifismo italiano dipendeva dalla presenza suoi luoghi di crisi dalle reti intrattenute tra le associazioni italiane e slave. In Italia il movimento pacifista era più attivo che altrove per i suoi legami con grandi associazioni nazionali, l’esistenza di un arcipelago di pacifismo diffuso e l’attività nel triveneto ai confini con le zone di conflitto. La prima fase dell’organizzazione pacifista in Italia si verificò durante gli anni ’80 e fu caratterizzato dalle speranze e dalle iniziative di una pace possibile, anche grazie alla caduta del muro di Berlino, che portò a identificare come obiettivo quello della vittoria nella battaglia contro le superpotenze. Iniziative varie, fra cui Time for Peace a Gerusalemme, costituirono la sperimentazione di quello che sarebbe diventato comune nella questione jugoslava; l’intervento della diplomazia popolare con l’obiettivo della costruzione di ponti tra le due parti.
In BiH furono infatti organizzate azioni di interposizione, spesso assumendo anche gravi rischi, e attività di diplomazia popolare (Rastello 1998). Il conflitto jugoslavo e più in generale le nuove guerre hanno costretto il movimento pacifista non solo a condannare ma anche a intervenire a sostegno delle popolazioni locali. Il pacifismo fu oggetto di un passaggio verso la dimensione concreta a scapito di quella ideologica; si fece strada il compito di “fare società” Marcon (1997). Ad esempio l’Helsinky Citizens Assembly ha dato spazio alla società civile e agli esponenti democratici non governativi (Kaldor 1999). Le guerre slave hanno prodotto una crescita politica e culturale del pacifismo che è così uscito dalle canoniche posizioni di protesta per entrare in quelle di intervento. La prevenzione dei conflitti e l’uso della forza per i diritti umani sono stati portati al centro del dibattito, aprendo una meditazione sul significati di concetti come la lotta al nazionalismo e le ragioni culturali, antropologiche e sociali della guerra.
In definitiva l’impegno civile italiano in BiH è stato un grande movimento di massa, in parte spontaneo, capace di operazioni spesso precluse alle forze ufficiali. In alcune situazioni l’intervento dei volontari ha rappresentato il legame privilegiato con il mondo esterno da parte delle popolazioni civili bosniache. Gli italiani furono i primi a entrare in alcune città assediate quali Vukovar50 e Mostar, pagando anche un alto tributo di vite umane (Rastello 1998:137). L’evento più altisonante di quella stagione è stata la marcia della pace denominata Mir Sada, durante il quale 500 persone sono arrivate a manifestare nella Sarajevo assediata dai Serbi, sotto il fuoco dei cecchini, per la sospensione del conflitto. Accanto a queste dimostrazioni si sono avuti anche numerose spedizioni di aiuti umanitari, che spesso hanno rappresentato una risorsa per i signori della guerra tanto o addirittura di più di quanto non lo fossero per gli aggrediti. Al di là delle polemiche e delle discussioni sulle strategie di intervento emergenziale, questo dato tornerà nel capitolo riguardante l’etnografia delle ONG impegnate in BiH perché rappresenta una delle modalità di approccio al territorio con delle conseguenze su tutta la continuazione del rapporto.