Coerentemente con quanto dichiarato da Pandolfi, nel mio approccio allo sviluppo pongo l’attenzione non sull’operato delle singole associazioni ma verso il lavoro di rete che le diverse organizzazioni portavano avanti in modo sincronico, costituendo un esempio di “sovranità mobile” (2005).
Specificamente ho preso in considerazione le sole associazioni italiane; questo restringimento del campo non ha rappresentato un limite ne una deformazione della realtà in quanto si trattava di un gruppo significativamente numeroso, omogeneo e con caratteristiche differenti rispetto ad altri modelli di cooperazione. La prospettiva di rete ha garantito la lettura dell’intercomunicabilità fra gli attori italiani, bosniaci e internazionali. Volendo considerare il processo di dispiegamento di persone e culture ai fini dello sviluppo come un oggetto antropologico, o socioantropologico secondo la definizione fornita da Olivier de Serdan (1998), la prospettiva di rete risultava indispensabile per mettere in luce gli elementi che caratterizzano tale tipo di studio.
Devo precisare che ho considerato solamente i progetti di cooperazione delle ONG, nel senso estensivo del termine. Ho voluto includere anche organizzazioni che non sono giuridicamente73 ONG perché hanno svolto un’attività assimilabile a quella delle ONG. È bene ricordare che la cooperazione multilaterale coinvolge anche altri settori, quali i governi e le amministrazioni pubbliche che rimangono però sullo sfondo con la funzione di identificare gli interlocutori delle ONG.
Il gruppo delle ONG intervenute in BiH durante la crisi, o al termine di questa, per implementare politiche di aiuto e sviluppo rappresentavano un particolare caso di organizzazioni effimere convertitesi in formali. Seguendo la distinzione realizzata da Lanzara è possibile concepire le associazioni italiane da una parte come professionisti della cooperazione e dall’altra come fenomeno effimero alle prese con un avvenimento di cui non avevano avuto in precedenza un’esperienza simile (1998). D’altra parte le organizzazioni formali erano rappresentate dai governi o dalle istituzioni internazionali che ritardarono il loro intervento, creando così un vuoto che chiedeva di essere colmato (Bianchini 1996, Chandler 1999, Donia e Fine 1994). Rispondendo all’emergenza grazie alla volontà di portare aiuto e pace, le associazioni italiane, insieme a quelle di altri paesi, identificarono la loro capacità negativa. Nella campagna bosniaca intrapresa dalle ONG italiane erano identificabili le motivazioni che solitamente accomunano le organizzazioni effimere: la volontà di portare aiuto alle vittime di un avvenimento violento, la sfiducia verso gli organi ufficiali preposti allo svolgimento di quel compito e il bisogno di cambiamento e la volontà di partecipazione. Questo sistema è stato messo in discussione per la presunta mancanza di consapevolezza in chi ha operato. Ad esempio, Bianchini ha criticato l’approccio religioso mal calcolato, colpevole di aver favorito la divisione e la contrapposizione tra i gruppi, in certi casi aggravando la condizione del territorio dove operavano (2005).
Al primo periodo di emergenza ha fatto seguito l’istituzione di un Tavolo Paese74 da parte del MAE che ha comportato l’inizio di una strutturazione degli interventi. Da queste premesse è nato il
73 Il riferimento in proposito è ancora la Legge 49 del 1987. Come in molti paesi del mondo, anche in BiH la situazione
è diversa, le organizzazioni hanno tutte un solo status, nevladina organizacija, la componente non governativa non è sottolineata. Le associazioni sono definite dunque odudjenie gradjena, associazioni civiche, discendenti dirette delle
zadruga, la comunità rurale diffusa nei Balcani e formata da una famiglia o da un clan.
74 I Tavoli Paese sono gruppi di lavoro focalizzati su specifiche aree geografiche. Sono costituiti da rappresentanti delle
associazioni che operano in tali aree, si riuniscono periodicamente per monitorare l’andamento dei progetti in loco. I Tavoli Paese svolgono un'importante funzione di conoscenza, condivisione e scambio di esperienze.
Programma Atlante, un programma di cooperazione multilaterale con attori governativi e decentrati (Rhi-Sausi, Aprile 2001). Gli attori non governativi e istituzionali si sono avvicinati nel corso degli anni e costituivano nel 2007 una macchina dello sviluppo coordinata, anche se con alcune riserve dettate dalla mancanza pressoché totale di comunicazione delle esperienze. L’UTL costituiva il punto di riferimento della cooperazione italiana in BiH e quasi tutte le ONG avevano rapporti con essa. Mancava però il ruolo di coordinamento delle attività, compito che avrebbe dovuto svolgere la UTL.
Il lavoro delle ONG italiane in BiH necessita di alcune suddivisioni per essere affrontato in maniera funzionale. La cooperazione internazionale costituisce infatti un macro argomento, all’interno del quale sono situati diversi ambiti, spesso in riferimento a differenti discipline. Sono stati individuati quattro ambiti predominanti: educazione, agricoltura, formazione per l’amministrazione pubblica, democratizzazione. Attraverso il colloquio con Sicignano, il direttore della Cooperazione Italiana presso l’Unità Tecnica Locale di Sarajevo è emersa la gestione dei differenti ambiti nell’intervento italiano in BiH.
Sicignano, collaborando con le organizzazioni, aveva individuato delle linee strategiche da seguire per lo sviluppo degli interventi, in modo tale da programmare lo sviluppo delle differenti realtà attive sul territorio, con la esplicita volontà di indirizzarle verso un più efficace raggiungimento del loro obiettivo e della funzione della UTL stessa.
La lunghezza del periodo di intervento, che come vedremo in seguito ha influito sulla sostenibilità dell’intero operato, ha però portato a delle mutazioni delle prospettive precedentemente impostate. In particolare, la ricerca di una mutualità da parte di entrambe le compagini ha fatto si che unissero le proprie capacità e disponibilità per intervenire in modo armonico. Al di fuori di questi processi sono comunque rimasti degli spazi di autonomia, soprattutto legati alla libera iniziativa di piccole associazioni.
5.5.1 L’inizio delle operazioni
L’inizio del rapporto di cooperazione costituisce un utile indizio per decifrare le modalità di lavoro che sono state adottate dalle associazioni impegnate negli interventi di sviluppo. Ma non solo, da una parte esso rivela la dichiarazione di intenti con cui le organizzazioni hanno operato mentre dall’altra è indice della caratterizzazione del campo di intervento. Generalmente si tratta di relazioni stabilite durante la guerra e poi proseguite per conoscenza diretta delle persone. Nel corso degli anni queste hanno mantenuto forti rapporti e sono riusciti ad evolvere o a cambiare la tipologia di intervento a seconda dei bisogni del territorio. Esistevano tuttavia anche altri modi per intervenire in BiH: alcune delle associazioni incontrate operavano solo da pochi anni, in conseguenza di progetti affidati dal MAE. Altre ancora hanno iniziato quando il bisogno era maggiore e poi hanno interrotto il rapporto per riprenderlo in seguito, spinti da nuovi fondi, proposte o politiche associative.
Questa pratica non deve sorprendere, si tratta di un andamento fisiologico delle dinamiche di sviluppo. Finito il periodo di emergenza servivano altri tipi di intervento e altre professionalità che potessero garantirli. Non è detto che chi era presente sul territorio fin dall’inizio fosse in grado di fornire ciò che serviva. Nondimeno, come vedremo dai contributi degli informatori, ognuno dei due modi aveva pregi e difetti che ne strutturavano il profilo, senza che potessero essere considerati ottimi o pessimi.
Il motivo per cui è rilevante un approfondimento su questa tematica è che esistono modalità ricorrenti nel processo di costruzione dell’identità. Di solito un’alternanza di connessioni e separazioni determina infatti il flusso della formazione identitaria (Remotti 1999:11). Il periodo della crisi in BiH può essere pensato come un evento straordinario di interruzione di connessioni, in cui le persone avevano innescato meccanismi di rappresentazione tramite caratterizzazioni etniche, un evento stigmatizzato dalla letteratura internazionale.
In questo paragrafo, invece, la costruzione dell’identità riguarda il processo inverso, cioè la creazione di connessioni, tra gli attori che popolano il campo di ricerca. Si tratta inizialmente di focalizzare le relazioni tra gli operatori italiani e quelli bosniaci, mentre nel paragrafo successivo vedremo un secondo livello di connessioni, ovvero quelle incentivate all’interno della società civile bosniaca per poter implementare il progetto.
Partendo dalle esperienze delle organizzazioni che hanno iniziato a lavorare durante la crisi, due narrazioni mi sembrano particolarmente indicative, quella di Srjeda, dell’ADL di Zavidovici e di Marco, dell’ADL di Prijedor, poiché raccontano la principale caratteristica dell’inizio della cooperazione in BiH, i legami instaurati fra persone. Ho incontrato Srjeda in un caldo pomeriggio di luglio, mentre tutta la città sembrava deserta, chiusa in casa o nelle insenature del fiume in cui è possibile fare il bagno. Zavidovici sorge tra le montagne, un po’ più nascosto rispetto ad altre città della BiH poiché al di fuori delle rotte stradali principali. L’ufficio della ADL si trovava appena fuori città, appartato si potrebbe dire. Dentro c’era una grande stanza con solo due persone dietro alle scrivanie, Srjeda e la segretaria, Alma. I muri erano addobbati con poster di manifestazioni svolte in Italia e in BiH, organizzate dall’associazione durante tutti questi anni. Si percepiva la lunga storia alle spalle, si sentiva forte, evidente anche nella rappresentanza svolta dai due bosniaci che parlavano un buon italiano e non avevano più bisogno di espatriati a presidiare i progetti. Si sarebbe detto che fosse avvenuto un passaggio di consegne che non sempre si realizza, o non in modo indolore. Srjeda ha iniziato a raccontare:
“Tutto è iniziato nel 1993. Quando è incominciata la guerra, un gruppo di bosniaci che era stato in Italia, è rimasto in contatto con gruppi di volontari italiani per portare aiuti. Poi sono stati coinvolti i comuni bresciani e altri gruppi.
Nel 1993 mandavano qua aiuti umanitari e poi organizzavano l’accoglienza delle vedove e dei bambini. Il 29 maggio 1993, vicino a Gorni Vakuz e Bugoino, sulla “diamond road”75, mentre portavano un
convoglio, tre persone sono state uccise e due sono sopravvissute. Una di quelle due persone è Agostino Zanotti, il nostro presidente, che ha deciso di continuare questa relazione attraverso la cooperazione. Forse in qualche modo anche per dare un senso a questi morti.”
Nel caso di Zavidovici il coinvolgimento aveva assunto una forza notevole proprio a causa dell’evento drammatico di cui ha parlato Srjeda. Le associazioni e le istituzioni si sono strette attorno alla città bosniaca costruendo un rapporto di lunga durata.
Leoinvece lavorava a Prijedor, nel nord della BiH e aveva un’esperienza molto diversa da quella di Srjeda. Innanzitutto era un espatriato, uno dei due italiani che lavoravano nell’agenzia. In secondo luogo era molto giovane; in effetti si trovava li anche grazie al fatto di aver svolto un periodo di volontariato in cui doveva affiancare il coordinatore dell’ufficio. Questi era andato via anzitempo per seguire altri impegni, lasciando a Leola gestione dei progetti. A Prijedor, dentro all’ufficio situato nel centro di una città ancora in costruzione, mi ha raccontato una storia particolare, legata alla geografia di questa parte di BiH dove Serbi e Bosgnacchi vivevano in percentuali simili e si registrava il più grande numero di ritorni76.
“La nostra attività è iniziata alla fine della guerra, nel 1996, prima della nascita dell’ADL. C’era la Casa della Pace di Trento, associazione che ha mandato dei volontari nei primi anni del dopoguerra. Questi erano stati contattati attraverso una persona scappata da Prijedor che aveva raccontato della situazione disastrosa nel suo Paese.
Da una parte c’erano 50.000 persone che hanno dovuto forzatamente lasciare la città. Dall’altra parte c’era la popolazione Serba che è rimasta. In più c’erano 35.000 profughi principalmente Serbi, che venivano da altre parti della Bosnia e dalle Krajine. Era una situazione paradossale in cui il vuoto lasciato dalla popolazione che era dovuta scappare era stato riempito da altre persone, a loro volta in fuga dalle proprie città. Quindi c’erano problemi legati alle case e alle proprietà. Le persone che arrivavano qui come profughi utilizzavano le abitazioni di chi aveva dovuto scappare.
[…]
75 I nomi delle strade in BH, sempre Coles credo…
La gente si trovava in condizioni veramente pietose. Nel 1996 ancora non c’erano ritorni. In quel momento sono stati organizzati dei trasporti di aiuti umanitari. È partita un po’ così la delegazione. Sono arrivate le associazioni della Casa della Pace di Trento che hanno preso i contatti con la società civile sfilacciata di qua, e con le istituzioni quali il sindaco che poi è stato il primo ad essere accusato dal tribunale dell’Aja. Si aveva a che fare con personaggi che avevano le mani sporche. Questo fatto di venire qua dava anche fastidio alle organizzazioni internazionali. Fino al 1998 tutti gli aiuti umanitari erano smistati in federazione mentre qui era un buco nero, il ruolo dei cattivi. Non si prendeva in considerazione il fatto che anche qui ci fossero delle persone che avevano subito traumi, il dover lasciare la propria casa e quanto ne consegue.”
Da questa intervista emerge la condizione in cui si sono trovate alcune organizzazioni nei primi anni di intervento. Il territorio bosniaco era popolato da molte persone facenti parte di gruppi diversi, militari ma anche paramilitari, pacifisti e osservatori internazionali, di nazioni diverse e soprattutto con intenti non sempre condivisi. Non c’è nulla di sorprendente, i conflitti sono caratterizzati dalla confusione, dalla mescolanza e dalla indistinzione. Sono i momenti di pace quelli dove si fa chiarezza e si perseguono obiettivi netti. Così, alla fine del conflitto chi voleva lavorare in BiH si trovava di fronte anche criminali e persone con interessi diversi, personali o etnici, nel senso del termine illustrato in questo testo. Leorivendicava la scelta di aver interagito con queste persone come atto di coraggio, necessario per poter avere degli effetti benefici sul resto della popolazione.
Su questo argomento si sono registrati pareri contrastanti. Marcon, ad esempio, ha mostrato come in alcune occasioni gli aiuti umanitari abbiano prodotto degli effetti dannosi (2002). L’organizzazione mondiale della sanità ha osservato che il 45% dei medicinali spediti nella ex Jugoslavia fosse scaduto. Oppure gli aiuti hanno alimentato o fatto perdurare situazioni di conflitto come l’assedio di Sarajevo. Ancora, gli aiuti possono corrompere il già precario sistema sociale, contribuendo a distruggere la debole economia locale, creando assuefazione. Infine l’aiuto può legittimare la violazione dei diritti umani, come quella sui profughi usati come scambio per ricevere aiuti. Alcune di queste ragioni riguardano espressamente l’aiuto umanitario, ma altre, come l’assuefazione e la strumentalizzazione dei conflitti esistenti può essere declinata anche in un’ottica di cooperazione allo sviluppo. Bisogna altresì ricordare che in BiH il periodo di aiuto è stato l’introduzione all’esercizio dei progetti di sviluppo.
Ritengo che sia stato giusto lavorare anche con le modalità descritte da Leoper almeno due ragioni. La prima riguarda ancora la costruzione delle identità; riprendendo Remotti, egli spiega “la natura umana” scrivendo che “lungi dall’essere uno strato roccioso, [essa] è fatta in buona parte di buchi e lacune, di indeterminazioni e di potenzialità” (1999:12). Sulle determinazioni identitarie dunque si costruiscono relazioni e ponti destinati a creare incontri di culture; questa è la base del rapporto di cooperazione allo sviluppo. La seconda ragione è la caratteristica intrinseca della cooperazione internazionale svolta dalle ONG. Essa è una forza sociale che se necessario è capace di agire al di là delle logiche e delle politiche internazionali, attuando strategie utili ad operare nella indeterminazione del contesto (Lanzara 1993).
È frequente, fra i racconti degli informatori, che il rapporto nasca in maniera casuale, spinto dagli eventi che inevitabilmente accadono in seguito a momenti di crisi e di conflitto. Le esperienze di Zavidovici e Prijedor sono nate attraverso i rifugiati in Italia che hanno innescato il contatto per portare aiuti nelle loro città. Chiara responsabile per i Balcani di ONG 14, testimoniava la casualità
“Il nostro rapporto è nato per caso. Uno dei nostri gruppi è andato a fare un campo vicino a Lubiana e vista la situazione hanno cominciato a creare attività di sostegno, carichi di cibi, alimentari e vestiti, tutta una cosa auto finanziata, di libera iniziativa, come la maggior parte delle attività italiane che sono iniziate nei Balcani. Dall’Italia, nel 1996 – 1997 in BiH è partita un sacco di gente con la macchina o col furgone che andava a portare aiuti, raccolti assolutamente a caso dalla volontà della gente di fare qualcosa. A un certo punto questo progetto si è ampliato con un coordinamento e con delle figure che ci hanno messo del proprio dal punto di vista del tempo e dell’energia per coordinare i gruppi che si erano creati e gemellati con i vari campi. A questo punto c’erano 23 campi profughi, in 23 cittadine della Slovenia con 23
comitati di gemellaggio in Italia. Ogni comitato seguiva il suo campo. Questi comitati erano spontanei… come se io te avessimo deciso di partire e costituire un comitato… poi si contatta l’ACLI.”
E l’ACLI, forte di una presenza molto radicata sul territorio ha seguito i profughi dalla Slovenia al rientro nelle proprie case in diverse zone della BiH. In seguito i rapporti più forti hanno facilitato l’attivazione di progetti di cooperazione allo sviluppo.
Cosa è accaduto quando invece il rapporto di cooperazione è nato in un momento successivo, addirittura recente rispetto al momento in cui scrivo? Adriana, la responsabile italiana della ADL di Mostar spiegava la nascita di una ADL in una fase conseguente all’emergenza, quando i progetti erano ancora necessari. In questo caso è stata fatta la scelta di operare come ONG bosniaca, lasciando in secondo piano l’intervento estero; il passaggio che altre associazioni hanno fatto nel corso degli anni è stato saltato, confermando la maturità del territorio nel ricevere interventi di un livello più alto.
“La ADL di Mostar è peculiare poiché è supportata da partner internazionali ed italiani in modo differente dalle altre ADL di Zavidovici e Prjiedor. Nonostante il partenariato internazionale noi siamo una ONG secondo la legge bosniaca. Questo è stato oggetto di discussioni. Creando una ONG bosniaca pur avendo il supporto del Consiglio d’Europa e dei partner internazionali, si è pensato che in questo modo si potesse entrare molto più dentro alla società civile bosniaca e fosse facilitato il processo di creazione di empowerment. Per rendere l’ADL molto più partecipe delle dinamiche locali c’è sempre stato un delegato straniero e tanti operatori bosniaci.
Il partner leader del progetto è la Regione Puglia però non abbiamo dietro qualche associazione pugliese. C’è il Consiglio d’Europa la Regione Puglia, il Comune di Monfalcone, la Provincia di Venezia, Montegrotto Terme, la Regione Sicilia e due partner norvegesi e danesi. Sono tutte comunità locali il che implica che non ci siano i lacci e i limiti dell’associazionismo, sono tutti comuni, province, regioni… tuttavia manca il lato informale, la freschezza. La loro presenza non è costante, qui non vengono spesso, vengono solo per il partner meeting.”
I partner che hanno costituito l’ADL di Mostar hanno dato intenzionalmente un respiro multilaterale ai progetti implementati, rendendo tale esperienza differente dalle altre presentate per contenuti e modalità di espressione. Si trattava evidentemente di uno stadio maturo dell’intervento in BiH, in cui le politiche erano mirate.
Passando a un progetto di tipo diverso, avviato da un network internazionale (ONG 23) attraverso la creazione di una fondazione in BiH, si nota la coscienza dell’influenza dell’ambiente nei confronti di sviluppatori e sviluppati quando si lavora in un contesto nuovo. Come spiegava Antonia, un approccio che vada bene per tutti non poteva funzionare. Ogni singola organizzazione ha avuto esperienze diverse, legate a modi di intendere lo sviluppo non omogenei, anche se esistevano tratti in comune.
“Le realtà che vedi nelle diverse aree in cui operiamo sono state attivate nel 1992-1994. All’inizio hanno lavorato grazie a relazioni di partenariato, costruendo un radicamento nella società e magari sperimentando aree simili o relazioni sugli stesso soggetti. In più ci sono tante teorie dello sviluppo, tanti modi di fare lo stesso lavoro e quindi io direi che one fit to all non funziona. Noi abbiamo ricevuto un