6.4 Lavorare in mezzo
6.4.1 Pratiche identitarie
Dalle testimonianze raccolte emerge che durante il loro operato le ONG consideravano la propria missione in relazione alle pratiche identitarie in atto. Con questo termine mi riferisco alla logica di gruppo che faceva leva sulla identificazione dei membri, i quali erano stati separati precedentemente tramite confini geografici, politici e culturali. Proprio per tale motivo, l’attività degli operatori della cooperazione si è acuita, tendendo verso un assottigliamento delle differenze. Essi hanno lavorato a favore dell’incontro, per proporre a persone divise pratiche quotidiane di prossimità. In alcuni casi queste erano completamente nuove mentre in altri si trattava di gesti che erano abituati a compiere prima della guerra e che avevano successivamente dimenticato. Attraverso il loro operato ho scorto la coscienza che ibridazione e meticciamento si realizzavano ogni volta che la frontiera veniva oltrepassata (Fabietti 1998:110) e per questo motivo i gruppi andavano incoraggiati a farlo.
Per esempio, di seguito presento l’esperienza di Goran, operatore bosniaco per conto della ONG italiana ONG 2, il quale esplicitava il fine del progetto in cui era coinvolto.
“Come in tutti gli altri settori di intervento, anche in questo ci sono difficoltà. Lo scopo principale di ONG 2 e della Regione Lombardia con i loro progetti era riunire le due entità. Credo che sia riuscita a farlo ottimamente. Sono stati i primi contatti fra persone di tre gruppi diversi. I primi giorni non parlavano, alla terza settimana cominciavano, dopo due mesi i rapporti sono ripresi e i gruppi si sono riuniti. Siamo di fronte a due Ministeri, due Facoltà delle foreste, diversi parchi nazionali. Andare oltre diventa politica, un altro campo.”
ONG 2 e la Regione Lombardia come partner, puntavano verso una integrazione costruita tramite il lavorare insieme e la collaborazione quotidiana per un fine comune. Come sottolineato da Goran, sono stati ottenuti dei risultati attraverso l’interazione. Le occasioni create dai progetti costituivano l’unica opportunità attraverso cui le comunità divise potessero incontrarsi e riconoscere l’altro. In un certo senso veniva decostruito il concetto di altro, di diverso e la paura annessa, l’etherophobia teorizzata da Memmi (2000). È capitato che durante i progetti si ritrovassero persone che avevano combattuto l’uno contro l’altro in trincea. Questi incontri non erano facili perché c’era un grosso coinvolgimento emotivo. Allo stesso tempo erano importanti per riattivare delle relazioni normali. Come ha affermato Goran c’è voluto del tempo, alcune settimane, per lavorare insieme e serviranno anni per riuscire a vivere serenamente in una società integrata.
Valeria, espatriata di ONG 19 a Mostar mi ha raccontato il funzionamento del progetto per cui stava lavorando. Devo precisare che Mostar costituiva un contesto particolare, dove la divisione era ancora sentita in modo molto forte. La geografia della divisione in BiH vedeva nell’Erzegovina una delle aree più calde dal punto di vista dei rancori etnici. Qui la comunità croata e quella bosgnacca erano presenti in numero simile e in alcune città come Mostar vivevano fisicamente separate. Nella città del ponte ottomano protetto dall’UNESCO, simbolo dell’unità citato in tanti saggi e articoli di giornale, la linea del fronte era stata mantenuta come frontiera tra le due comunità. Anche lo stato fatiscente degli edifici sulla linea del fronte, il boulevard, è ancora lo stesso dalla fine della guerra. I pochi stabili ricostruiti erano imbrattati di slogan nazionalisti e razzisti, a monito della persistenza del conflitto.
“In questo progetto abbiamo coinvolto le due università. Una professoressa di statistica dell’Università di Mostar est e un sociologo dell’Università di Mostar ovest che poi farà l’elaborazione sociologica dei dati statistici. L’IRES Emilia Romagna ha predisposto un questionario su indicazione dello Sindacato Pensionati Italiano del Veneto, adeguato alle tipologia locali legate al sistema di assistenza agli anziani. Dopodichè abbiamo chiesto ai professori di indicarci 5 studenti per ogni università, che fossero all’ultimo anno o in procinto di fare la tesi, che volessero partecipare. Saranno loro che gireranno a fare le interviste. Sono ragazzi disposti a lavorare dall’altra parte: i croati dai musulmani e l’opposto.
Com’è lavorare insieme? Nella maniera in cui lo facciamo noi, operando sui i piccoli numeri, non è difficile. Hanno fatto delle prove incrociate, il corso di formazione insieme ecc. Ma se generalmente mandi i croati dai musulmani non gli aprono e viceversa. Andremo a intervistare i tesserati di questa associazione, che ha 3000 iscritti. Abbiamo chiesto all’associazione di non specificare chi viene, se croato o meno. Loro chiamano per indicare che andrà qualcuno ma non dicono chi. L’obiettivo era cercare di far vivere la città. Anche di farli lavorare insieme: già si chiedono consigli, interagiscono… anche se esistono alcune differenze, per esempio quelli della parte ovest sono più fighetti, mentre quelli della parte est non hanno firme sui vestiti. Cerchiamo un mescolamento soft. Se tu gli dici che devono stare chiusi in una stanza insieme non ci stanno.”
Il progetto di ONG 19 consisteva dunque nell’offrire la possibilità, e una motivazione plausibile, per fare attraversare la frontiera a persone che altrimenti non lo avrebbero fatto o anche se avessero voluto, avrebbero incontrato forti problemi nel farlo. Come indicato dalle parole Valeria il progetto serviva a far vivere la città in maniera differente dal solito. Questo commento ricorda De Certau, il quale ha scritto che le tattiche urbane consentono di oltrepassare le strategie: permettono differenti letture della città (2001). I percorsi dei cittadini
Pratt definisce le zone di contatto come l’intersecarsi di traiettorie di soggetti precedentemente separati (in Callari Galli 2007). In questo senso i bosgnacchi e i croati a Mostar hanno trovato le intersezioni delle loro traiettorie grazie a un fattore esterno, l’intervento di una ONG. Clifford afferma che i soggetti sono definiti dalle relazioni reciproche che spesso si svolgono nell’ambito di relazioni di potere asimmetriche, come in effetti erano quelle definite attraverso i progetti di cooperazione (ibidem). Callari Galli (2007) ha affrontato uno studio delle zone di contatto nelle città che potrebbe tornare utile alla comprensione della funzione di decostruzione etnica che esse possono esercitare.
Per comprendere quanto stava accadendo in quei mesi a Mostar può risultare di qualche utilità anche la dicotomia tra subordinazione e potere (Scott 1990), dove il primo termine è impersonato dai cittadini bosniaci imprigionati nelle logiche etnicizzanti mentre il secondo dal livello politico istituito dal DPA. A questi aggiungo un terzo livello, da inserire in mezzo ai primi due, costituito dalle ONG.
Srijeda operatore della ADL di Zavidovici ha parlato di dialogo interculturale per descrivere le attività che l’associazione ha sviluppato tra ragazzi di varie comunità. A livello generale il dialogo era stato ricostruito, ma non completamente, rimanevano ancora spazi di conflitto interpersonale. Zavidovici era una città caratterizzata da una preponderanza musulmana in cui le condizioni di coabitazione erano positive; ciononostante le differenze continuavano ad essere percepite e mantenute.
“Tutto sommato a Zavidovici non c’è divisione perché la maggioranza musulmana rasenta il 90% e le altre comunità sono marginali. Ci sono sicuramente problemi, ma minori. Per esempio nel 2000, quando la guerra era ancora vicina, abbiamo unito ragazzi provenienti da Zavidovici, in maggior parte musulmani, e ragazzi croati di Zepce, per lavorare ad un giornale. Era stato un problema organizzare uno scambio in Italia in cui portare una scuola da Zavidovici e una da Zepce. Adesso, dopo molti scambi questi problemi non ce ne sono più.
Il dialogo interculturale c’è sempre nel nostro lavoro. Uno dei progetti è su come imparare a scuola, come istruire. Questo è un problema che avevamo noi dopo la guerra: quale storia insegnare? Lavoriamo sul dialogo anche perchè c’è un interesse comune di fondo. L’ADL è un ponte verso l’Europa, può aprire prospettive, migliorare gli standard di vita e le altre condizioni.
Non esiste un vero problema di fiducia, anche se ancora non è al livello in cui dovrebbe essere. Per esempio i matrimoni misti ancora non sono ben visti. C’è la possibilità ma ci sono ancora persone che non guardano bene a questa cosa. Per questo noi cerchiamo sempre di mescolare tutte le comunità. Anche i rom, che hanno una presenza importante, sono quasi integrati. Sono sparsi un po’ in città. Non è una comunità chiusa ma sono molto aperti e mescolati.”
Un esempio di divisione ricercata come criterio per operare la fornisce Marcello, cooperante di ONG 7:
“Noi abbiamo cercato all’inizio di rivolgerci a municipalità dove ci fosse una necessità di coesione sociale. Perché il programma ha come obiettivo quello di favorire la coesione. Discorsi di guerra piuttosto che discorsi legati alle condizioni stesse di vita probabilmente non fanno bene ai network sociali. E il contrario. Questo ha sicuramente uniformato la tipologia di municipalità poi ovvio che i contesti sono talmente diversi che ci sono state diverse risposte. Tutto questo per il lavoro è una chiave di accesso ottima. Quindi promuovere è più facile per la parte che riguarda l’impiego che la parte che riguarda l’accesso ad una educazione di qualità o alla cittadinanza attiva, che sono concetti che sono stati sviluppati da noi, in Europa e USA da tempo, con dei sistemi di valori diversi da quelli che loro hanno oggi qui. Con condizioni sociali economiche e politiche diverse. Ma proprio anche di comprensione che una persona ha di questo genere di concetto. La comprensione è molto limitata, legata a ragazzi che hanno fatto esperienza all’estero o con le organizzazioni internazionali. E comunque anche tra questi la maggior parte delle volte la applicano in maniera formale; in realtà non sono concetti che appartengono a loro stessi perché non appartengono alla loro comunità. Questa è la difficoltà che tutti incontrano qua in BiH, secondo me è la difficoltà cruciale nell’efficacia degli interventi… nostro, delle ADL, di tutti quelli che operano.”
Marcello ha posto l’attenzione sul fatto che i concetti di partecipazione e integrazione che venivano applicati attraverso il progetto derivavano dall’esterno ed erano perciò difficili da comprendere e da sposare per i locali. Il limite delle ONG consisteva dunque nella esportazione e promozione di valori che non potevano essere compresi immediatamente in quanto contrastanti con una tradizione precedente. La negoziazione delle idee importate era fondamentale per trovare delle strade comuni, che non fossero semplicemente un’imposizione di modelli.
Lavorare in mezzo, al pari di altri aspetti della relazione, poteva costituire uno strumento in mano alle persone oggetto dei piani di sviluppo. La questione etnica era un terreno comune, dove le ONG cercavano una negoziazione che facilitasse l’implementazione dei loro progetti, con degli interlocutori che presentavano esigenze differenti.
Dall’esperienza dell’ADL di Prijedor, Leoha osservato che l’identità è diventata anche uno strumento di negoziazione, utilizzata per trattare. Questo discorso si riconnette alle deviazioni dei progetti di sviluppo di cui ho parlato in precedenza.
“A livello istituzionale la usano come scusa quando non sanno che altro dirti per dire che non sono d’accordo con quello che fai o perché non vogliono impegnarsi su un certo campo. Recentemente abbiamo fatto un incontro con il comune in cui esponevamo il nostro lavoro nei centri giovani, anche nella città di Lubljia e Barijne. Si tratta di paesi distanti, che di inverno non si riescono a raggiungere, i ragazzi non vanno a scuola, la spesa non si fa. E ci hanno detto: <voi lavorate solo con i ritornati (sottintendendo bosgnacchi)>, senza nemmeno sapere che a Lubljia ci stanno soprattutto Serbi e qualche Croato.”
Infine, riguardo alle pratiche identitarie, devo puntualizzare che coinvolgevano gli stessi operatori locali. Valeria mi ha fatto un esempio del momento in cui si inceppa il progetto, quando emerge la differenza etnica in modo problematico:
Il mio collega era croato d’Istria e non riusciva a interagire con i musulmani ne con i croati. Lui viveva l’inadeguatezza. Il fatto che io sia italiana ha facilitato le cose. Lo capivo dal rapporto che aveva con le istituzioni locali. Non sapeva più parlare croato. Mentre invece la mia presenza viene percepita in maniera diversa.
Lavorare in mezzo acquisiva un significato rilevante anche per gli operatori i quali potevano essere messi in crisi dalla relazione con una parte che era identificata come colpevole di gesti di violenza in passato. Interessa notare che questa dinamica mette in discussione uno dei presupposti dello sviluppo partecipativo, il coinvolgimento del personale locale. Paradossalmente la presenza di espatriati ha facilitato la mediazione di alcuni progetti.
Valeria, questa volta di UCODEP, ha enfatizzato questo aspetto illustrando le dinamiche a cui sono soggetti i cooperanti locali all’interno del progetto che lei gestisce.
Il concetto di dialogo non è completamente risolto. Rimane difficile toccare i ricordi della guerra. O anche creare un rapporto per essere vicini durante il lavoro. Ci sono discorsi che non si fanno.
Anche all’interno dello staff capitano queste cose. Il project manager è bosgnacco, di Tuzla, e lavora con un serbo di Bjelina, che durante il conflitto combatteva dall’altra parte. Questo crea problemi, emozioni negative e attriti. Il confronto con la politica è una sconfitta: non si è riusciti a rielaborare il conflitto nella giusta misura. Ed ora, sopiti all’interno delle persone, covano ancora pensieri antagonisti.
Questo si riflette nell’operato delle ONG. Di solito all’interno affrontiamo temi neutri, che presuppongono il confronto con il dolore causato dalla guerra ma in maniera troppo tenue. Manca la consapevolezza delle possibilità di poter toccare certi argomenti.
Il conflitto non è solo esterno dunque ma coinvolge gli stessi operatori. Questo significa che nonostante l’impegno testimoniato dai bosniaci che collaborano con le ONG, le logiche etniche non sono state completamente elaborate neppure tra chi propone i progetti di integrazione alla società civile bosniaca. Un ragionamento parallelo mi porta a considerare che il lavoro del personale locale per le organizzazioni straniere, di cui non fanno eccezione quelle italiane, aveva un significato preciso, indicava uno status sociale superiore rispetto alle persone impiegate nei settori locali. I vantaggi economici e qualitativi del lavoro con le ONG erano evidentemente ritenuti tali da giustificare un impegno che contrastava ideologicamente con i sentimenti provati.
Esistevano infine delle figure difficilmente inquadrabili, bosniaci rifugiatisi in Italia che avevano deciso di sviluppare la loro carriera lavorativa in BiH, sia per l’impegno nei confronti del proprio paese che per le opportunità lavorative coerenti con il loro percorso di studi. Questi portavano in sé sentimenti personali di dolore nei confronti della terra che erano stati costretti ad abbandonare ma una interpretazione della situazione epurata dalla logica etnica. Avevano una lettura coerente con gli operatori internazionali e una pulsione simile ai locali, dovuta al coinvolgimento totale nella crisi.