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SINDROME DELLO SPETTRO AUTISTICO

2.1 Classificazione e criteri diagnostic

2.1.2 Eziologia e teorie neuropsicologiche

La storia delle ipotesi eziopatogenetiche sull’autismo è complessa e caratterizzata da contrapposizioni (Barale e Uccelli, 2006).

L’autismo è ad oggi riconosciuto come un disturbo neurocognitivo dello sviluppo, con insorgenza entro i 3 anni di età e un’eziologia multifattoriale in cui molteplici fattori di

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Conosciuta anche come sindrome di Bourneville-Pringle e comporta lesioni a livello del sistema nervoso centrale, della cute e di altri organi interni. Nella forma più tipica si manifesta con alcune caratteristiche quali ad esempio l’epilessia, convulsioni o ritardo mentale; Treccani, Dizionario di

Medicina (2010); http://www.treccani.it/enciclopedia/sclerosi-tuberosa_%28Dizionario-di- Medicina%29/, (consultato in data 16/02/2018).

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Malattia genetica determinata da una mutazione del cromosoma X. Oltre a deficit intellettivi (variabili da moderato a severo) comporta la presenza di altre caratteristiche fisiche quali il volto allungato e grandi orecchie. Inoltre anche dal punto di vista comportamentale possono presentarsi movimenti stereotipati e uno sviluppo sociale atipico; Treccani, Dizionario di Medicina (2010), M. Frontali; http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/sindrome-dell'x-fragile/, (consultato in data 16/02/2018).

28 Malattia ereditaria che colpisce le cellule nervose ed è caratterizzata dalla presenza di numerosi fibromi

(tumori benigni fibrosi) e neurofibromi (tumori della pelle e del tessuto nervoso). Si distingue in tipo 1: presenza di neurofibromi; in alcuni casi tumori cerebrali ed extracerebrali; in altri presenza di disturbi dell’apprendimento e difficoltà linguistiche). Il tipo 2 invece è meno frequente, ed oltre ai problemi cutanei, si caratterizza per la presenza di tumori che colpiscono principalmente il nervo acustico causano sordità o altri disturbi neurologici; Treccani, Dizionario di Medicina (2010); http://www.treccani.it/enciclopedia/neurofibromatosi_res-d6526379-9b53-11e1-9b2f-

d5ce3506d72e_%28Dizionario-di-Medicina%29/, (consultato in data 16/02/2018).

29Malattia genetica rara che causa ritardo nello sviluppo e deficit cognitivi; Treccani, Dizionario di

Medicina (2010); http://www.treccani.it/enciclopedia/fenilchetonuria_%28Dizionario-di-Medicina%29/,

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natura genetica interagiscono con altri fattori ambientali (Markram, Rinaldi e Markram, 2007; Moldin e Rubenstein, 2006).

L’importanza eziologica rivestita dai fattori genetici è ormai ampiamente riconosciuta (Vicari et al., 2012:33) ed è stata evidenziata da vari studi di genetica comportamentale. Queste ricerche hanno fornito un’elevata evidenza empirica sull’alta ereditabilità che caratterizza i DPS (Rutter, 2005).

La prima ricerca pioneristica venne condotta da Folstein e Rutter (1977) e poi replicata successivamente da Bailey et al. (1995) con uno studio condotto su gemelli monozigoti ed eterozigoti. Dalla ricerca emerse circa un 69% di concordanza nella manifestazione della patologia nei gemelli monozigoti (derivanti dalla fecondazione dello stesso ovulo e possedenti lo stesso patrimonio genetico), rispetto al 5% riscontrato invece nei gemelli eterozigoti. Diversamente, il rischio di insorgenza nella popolazione normale è circa del 0.6%. Confrontando i dati quindi si può osservare come la probabilità di insorgenza sia di circa 5-10 volte più alta nei gemelli monozigoti, rispetto al resto della popolazione. Studi successivi sono stati volti all’identificazione dei geni potenzialmente determinanti e nell’ultimo decennio diverse ricerche pubblicate (AGPC30

, 2007) hanno identificato varie regioni cromosomiche presumibilmente implicate e la regione 7q (denominata AUTs 1) sembra essere quella con la più alta concordanza nei diversi studi condotti (Bacchelli e Maestrini, 2006). Le difficoltà risiedono principalmente nel fatto che i

pattern di trasmissione genetica sembrano essere complessi e i geni coinvolti

probabilmente sono multipli (Vicari, Valeri e Fava, 2012:39).

Rimane minore la percentuale in cui entrano in gioco i fattori ambientali (Ianes e Zappella, 2009:19) come per esempio condizioni prenatali: ad esempio intossicazioni da talidomide (Rodier, 1997) o un’infezione intrauterina da citomegalovirus (Sweeter et al., 2004).

In ogni caso il solo fatto che una malattia preceda la comparsa di sintomi specifici, non prova che sia essa stessa ad essere la causa della presenza della sindrome (Frith, 1989, 2003).

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da numerosi studi sulle basi neuronali dell’autismo. I dati principali provengono da studi sulle anomalie cerebrali, sia funzionali che strutturali, e attualmente esiste un ampio accordo al riguardo (Moldin e Rubenstein, 2006). Restano tuttavia ancora da definire le relazioni esistenti tra i fattori

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neurobiologici e i processi emozionali e cognitivi che mediano questi comportamenti atipici. Non esiste dunque ancora un modello concettuale in grado di mettere in relazione i vari deficit tra loro (Frith, 2003; Surian, 2002). I tre principali modelli teorici neuropsicologici sono i seguenti: il deficit nella Teoria della Mente (TdM – ToM,

Theory of Mind), il deficit nelle funzioni esecutive (FE), quella che viene definita debolezza di coerenza centrale (DCC).

La “teoria della mente” (Baron-Cohen, Tager-Flusberg e Cohen, 1993, 2000)

La ToM è fondata sull’idea che gli esseri umani abbiano sviluppato meccanismi dedicati alla gestione delle interazioni sociali (Cosmides, 1989). L’evoluzione ci avrebbe quindi dotato di meccanismi mentali dedicati alla comprensione degli altri e di come i singoli comportamenti altrui siano derivati da stati mentali determinati (desideri, emozioni, credenze, intenzioni) (Premack e Woodruff, 1978).

L’ipotesi di base è che le persone con sindrome dello Spettro Autistico presentino un deficit nello sviluppo della “teoria della mente”, ovvero nella capacità di attribuire degli stati mentali (quindi credenze, desideri, ecc.) agli altri e a loro stessi (Baron-Cohen, 1995).

Il concetto di “teoria della mente” fa quindi riferimento all’ “abilità di inferire gli stati mentali degli altri, vale a dire i loro pensieri, opinioni, desideri, intenzioni e così via; oltre all’abilità di usare tali informazioni per interpretare ciò che essi dicono, dando significato al loro comportamento e prevedendo ciò che faranno in seguito” (Howlin, Baron-Cohen e Hadwin, 1999:9). Nell’iter evolutivo tipico di un bambino infatti si sviluppa quella che viene definita metarappresentazione mentale, grazie alla quale il bambino apprende, tramite l’interazione con gli altri, come i suoi stati mentali vengono definiti. Impara inoltre come quest’ultimi si rapportano con i suoi comportamenti, e come ciò avvenga anche con gli stati mentali degli altri (che è in grado di comprendere). Numerosi studi (ad es. Baron-Cohen et al., 1985) hanno evidenziato una significativa compromissione nella capacità di attribuire “false credenze” nei soggetti con autismo. Utilizzando il paradigma sperimentale noto come test della falsa credenza, in una delle sue prime formulazioni (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; v. anche Wimmer e Perner, 1983) riscontrarono nei bambini affetti da Autismo un’incapacità di passare il test. Gli autori valutarono soggetti autistici di età superiore ai 4 anni, e bambini con sindrome di

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Down più piccoli. Molti bambini con Autismo fallirono nella risoluzione del test, apportando evidenze a favore delle problematiche legate alla teoria della mente associabili alla sindrome.

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Il Sally-Ann Test (elaborato da Wimmer e Perner, 1983) serve appunto a verificare lo sviluppo della capacità di metarappresentazione, testando le abilità dei bambini di riconoscere gli stati mentali altrui e di comprendere che determinate azioni possono essere comporltate da credenze erronee. La valutazione avviene sotto forma di gioco (v. figura 131) e al soggetto viene presentata la storia di due bambole: Sally e Ann.

Sally porta con sé un cestino, nel quale inserisce una palla; Ann invece una scatola. Successivamente Sally esce a fare una passeggiata e Ann, recuperata la palla dal cestino di Sally, la mette nella sua scatola. A quel punto Sally torna, con l’intenzione di giocare con la sua palla e l’esaminatore chiede al bambino dove secondo lui Sally guarderebbe alla ricerca della sua palla (se dento il cestino o la scatola). Risulta evidente come il test comporti la comprensione del fatto che dal momento che Sally non era presente quando la sua palla è stata spostata, una volta ritornata creda che si trovi ancora dove lei stessa l’ha lasciata. Alla domanda quindi dell’esaminatore “Dove cerca Sally la sua palla?” un bambino con sviluppo tipico risponderebbe “dentro il cestino” e non “dentro la scatola”. Numerosi studi inoltre hanno dimostrato come la maggior parte dei bambini sotto i 4 anni con sviluppo tipico non sia in grado di rispondere correttamente, indicando la posizione “attuale” della palla e ignari del fatto che Sally creda che il suo gioco si trovi ancora nella cesta (Wellman, Cross e Watson, 2001; Wellman e Liu, 2004). Sulla base di questi risultati gli psicologi dello sviluppo hanno concluso che prima dei 4 anni i bambini non siano in grado di attribuire credenze. Al contrario, dopo i 4 anni, iniziano a considerare il comportamento altrui come qualcosa determinato da stati mentali interni (capacità della “teoria della mente”).

Successivamente Baron-Cohen (2002) ha proposto di estendere l’ipotesi di un deficit nella metarappresentazione, con la formulazione di una teoria inerente all’empatia-

sistematizzazione. Secondo questa teoria quindi l’autismo sarebbe caratterizzato da

compromissioni nella capacità di possedere empatia.

Deficit nelle funzioni esecutive (FE) (Lezak et al., 2004)

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’autismo sia caratterizzato da difficoltà neuropsicologiche legate alla pianificazione e al controllo del comportamento. Uno dei lavori in questione è stato quello di Damasio e Maurer (1978) in cui si osservò come le

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caratteristiche dei soggetti con sindrome dello spettro autistico fossero simili a quelle riscontrate in soggetti che presentavano una lesione del lobo frontale. Le difficoltà consistevano nel far fronte alle abilità inerenti appunto alle funzioni esecutive32: pianificazione, flessibilità cognitiva, automonitoraggio, inibizione e working memory. Una rassegna di Hill (2004) riporta l’analisi di studi inerenti alle FE nell’autismo e prendendo in considerazione tre sottodomini specifici: flessibilità33, pianificazione34 e

inibizione35. Per quanto riguarda la pianificazione diversi studi dimostrano come in adolescenti e adulti con DGS vi siano deficit in prove di questo tipo; sia in rapporto a gruppi di controllo con sviluppo tipico (Ozonoff e Jensen, 1999) che a gruppi di controllo clinici (Sergeant, Geurts e Oosterlaan, 2002).

Anche relativamente alla flessibilitàadolescenti e adulti con autismo hanno presentato compromissioni in prove di questo tipo, sempre messi a confronto sia con soggetti a sviluppo tipico che affetti da altri disturbi del neurosviluppo (Ozonoff, 1997; Hughes, Russel e Robbins, 1994).

Nei test di inibizione invece, non hanno manifestano difficoltà, a differenza di quanto riscontrato per altri disturbi del neurosviluppo (come ad. es. l’ADHD36

). La teoria del

deficit nelle funzioni esecutive offre una buona spiegazione di molti dei deficit che

caratterizzano gli individui con sindrome dello spettro autistico, ma non spiega però la presenza di alcune peculiari capacità preservate come quelle osservate nelle abilità visuo-spaziali (Vicari et al., 2012:45). Può essere considerata però una buona spiegazione teorica per quanto riguarda i comportamenti ripetitivi e gli interessi ristretti (Kenworthy et al., 2008; O’Hearn et al., 2008).

Teoria della debolezza di coerenza centrale (DDC) (Frith, 2003; Frith e Happé, 1994)

Secondo quest’ipotesi di ricerca le disfunzioni vengono ipotizzate a livello dell’input e la presenza di uno “stile cognitivo” caratterizzato da una debolezza della coerenza

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Funzioni corticali superiori deputate alla pianificazione e al controllo del comportamento.

33 Spostamento flessibile e rapido sulle informazioni rilevate, e quindi tra compiti o set di compiti. 34 Pianificazione delle azioni in obiettivi e sotto-obiettivi.

35 Inibizione di risposte non adeguate e ricerca di strategie idonee allo svolgimento di un compito; con

conseguente abilità di inibizione dei comportamenti perseverativi e dell’impulsività.

36 Attention-Deficit/Hyperactivity-Disorder (disturbo dello sviluppo neurologico caratterizzato da

iperattività, disattenzione e impulsività); Treccani, Dizionario di Medicina (2010), http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/ADHD/; (consultato il 16/02/2018).

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centrale. Da ciò deriva quindi un’anomalia cognitiva che influenza determinate funzioni psicologiche, ovvero quelle sociali, quelle linguistiche e quelle percettive.

I processi di elaborazione centrale delle informazioni sono tendenzialmente caratterizzati da una “coerenza”, che permette di dare un significato alle informazioni che ci arrivano, e di inserirle all’interno di un contesto più ampio. Secondo Firth e Happé (1994) questa tendenza si presenterebbe molto debole nei soggetti autistici, comportando un’elaborazione dell’input “pezzo per pezzo” piuttosto che in modo contestualizzato.

Risulta deficitaria quindi la capacità di elaborare uno stimolo a livello globale in quanto le informazioni analizzate sono frammentarie e isolate. Questa “debolezza” potrebbe anche contribuire ad altre compromissioni tipiche dell’autismo come il deficit di attenzione condivisa, abilità che richiede la capacità di dare significato ad un insieme di comportamenti e dunque ad un gruppo formato da più elementi (il sé; l’altra persona e l’oggetto in questione; Jarrold et al., 2000).

Ricerche più attuali però (Happé e Booth, 2008) indicano come le persone con DGS siano in grado di elaborare stimoli in modo globale, nel caso in cui siano specificatamente istruiti. Risulterebbe quindi più corretto parlare di uno “stile cognitivo” orientato all’elaborazione dei dettagli più che di un deficit di elaborazione globale (Happé e Frith, 2006). Un ulteriore elemento di criticità riguarda la presenza di casi di “debolezza” anche in altre patologie, come ad es. la depressione o la sindrome di Williams; e questo indicherebbe quindi la sua non specificità associata all’autismo (Vicari et al., 2012:46).

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