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Fallimento della programmazione nazionale e affermazione degli interessi localistic

4. DEFORMAZIONE DEL SISTEMA E NECESSITÀ DI UN “ALTRO” “NUOVO MERIDIONALISMO”

4.2 Fallimento della programmazione nazionale e affermazione degli interessi localistic

A pagare le conseguenze delle crisi che si sommarono negli anni Sessanta e Settanta – crisi del sistema interno, crisi del sistema esterno, crisi energetica, crisi della Cee – fu soprattutto il sistema industriale italiano, in particolare, come vedremo, gli impianti installati nel Mezzogiorno.

Un rapporto redatto nel novembre 1977 dal ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato evidenziava le problematiche che si ponevano al settore secondario, consistenti, come abbiamo già visto, «nel mutato rapporto tra lavoratori ed imprese, nelle mutate ragioni di scambio tra materie prime e prodotti industriali, nell’accresciuta importanza della tecnologia e dell’organizzazione ed infine nell’instabilità dei prezzi e dei cambi»550.

Soprattutto in una fase di disordine, il rapporto sottolineava l’esigenza di una politica di programmazione, anche se «presumibilmente orientata al contenimento della crescita rispetto alle ipotesi precedenti»551.

Nel precedente capitolo abbiamo evidenziato come nel corso degli anni Sessanta la programmazione economica non riuscì a decollare perché dal punto di vista dell’impostazione fu impossibile realizzare una sintesi tra i due principali indirizzi che si erano confrontati nelle relative commissioni, mentre sul piano dell’attuazione mancò il raccordo tra la programmazione nazionale e i piani di sviluppo regionale elaborati dai Crpe (che comunque erano organi del ministero del Bilancio e non espressione dei territori).

Gli anni Settanta si aprirono con l’intento di imprimere alla programmazione nazionale un indirizzo più preciso, mentre, con la nascita delle regioni, si sarebbe dovuto provvedere alla elaborazione di programmi economici regionali.

L’indirizzo della programmazione nazionale fu ovviamente collegato all’approccio di politica economica che stava sempre più caratterizzando i governi italiani.

In vista dell’elaborazione del nuovo piano quinquennale 1971-75, il ministero del Bilancio presentò, nell’aprile 1969, un documento che conteneva proiezioni e indicazioni sulla evoluzione dell’economia italiana fino al 1980. Si trattava del “Progetto 80”, elaborato dal segretario della Programmazione economica Giorgio Ruffolo e dall’esponente del Pci Luciano Barca552. Partendo dalle critiche che Ruffolo muoveva al primo piano quinquennale, figlio a suo modo di vedere di una

550 Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Relazione sullo stato dell’Industria italiana, novembre

1977, conservato in Afus, Adn, busta 75, fascicolo 547.1., p. 1. In particolare per quanto riguarda l’aumento del costo del lavoro, il documento evidenziava che simili «tendenze sono in atto simultaneamente nella maggior parte dei paesi industriali, ma l’intensità del cambiamento appare maggiore in Italia». Ivi, p. 2.

551 Ivi, p. 86. 552

Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto 80: rapporto preliminare al programma

concezione “indicativa” della programmazione, il Progetto 80 intendeva procedere verso una programmazione più prescrittiva. Esso poneva l’obiettivo di una crescita economica annua del 6% e distingueva tra azioni programmatiche generale e specifiche. Inoltre, tentava di sposare due diverse anime dell’intervento pubblico: una volta ad aumentare l’offerta di fattori produttivi, l’altra rivolta a soddisfare la domanda sociale proveniente da strati sempre più larghi della popolazione. In questo quadro prevedeva interventi per la tutela ambientale e il riassetto territoriale, sia urbanistico che delle zone economicamente e socialmente povere e marginali. Come accaduto per il primo piano quinquennale, al centro del Progetto ’80 stava lo sviluppo del Mezzogiorno553.

Di Nardi criticò il documento, proprio per la sua volontà di voler tenere insieme l’esigenza di una economia di mercato fondata sull’attività privata e il contemporaneo desiderio di espandere l’intervento pubblico, senza tuttavia chiarire la via da seguire554. In poche parole, agli occhi di Di Nardi, il “Progetto 80” era figlio dell’ambiguità in cui giaceva il sistema.

Per certi aspetti, il progetto non soddisfò neanche chi, come Saraceno, chiedeva lo sviluppo di una programmazione più prescrittiva. Il problema era l’arco temporale di riferimento, dal momento che il Progetto 80 era concepito come rapporto preliminare al nuovo piano 1971-75.

Intervenendo sul «Mondo Economico» con un articolo dal titolo Il programma quinquennale non è

forse uno strumento superato?555, Saraceno evidenziò il carattere troppo “indicativo” dei piani elaborati fino a quel momento, perché legati ad un orizzonte temporale troppo ampio in cui definire il comportamento del sistema. Saraceno proponeva invece l’adozione di programmi rivolti ad un arco temporale inferiore ai cinque anni e dunque più dettagliati556.

Il “Progetto ‘80” non ebbe seguito, ma ispirò l’elaborazione dei piani redatti nel corso degli anni Settanta, a cominciare dal secondo piano nazionale 1971-75. Sulla scia del “Progetto ’80”, esso prevedeva disposizioni più prescrittive per gli attori in gioco, e faceva maggiormente affidamento su un diretto intervento pubblico in economia557. Ruffolo recepiva tra l’altro le critiche mosse da

553 F. Fiorelli, Assetto territoriale e Mezzogiorno nel “Progetto ‘80”, in M. Carabba (a cura di), Mezzogiorno e

programmazione (1954-1971), cit., pp. 751-770.

554

Afus, Adn, busta 15, fascicolo 166, appunto del 3 ottobre 1969 (riprodotto in allegato).

555 P. Saraceno, Il programma quinquennale non è forse uno strumento superato?, in «Mondo Economico», del 22

novembre 1969, pp. 21-23.

556 Saraceno proponeva così dei “programmi-verifica” che avrebbe dovuto «identificare il futuro comportamento del

sistema quale è determinato da tali iniziative e valutare quello che potremmo chiamare lo scarto esistente tra il presumibile comportamento del sistema e quello preconizzato dal mondo di pensiero che è alla base delle decisioni prese. […] Esso in sostanza descrive lo stato prevedibile del sistema nel periodo futuro cui si estendono le decisioni prese e mette in evidenza sia l’insufficienza delle risorse rispetto alle azioni in corso, sia le inefficienze delle azioni rispetto ai fini, sia eventualmente l’incongruità di certi fini». Inoltre, secondo Saraceno, dovevano essere predisposti dei programmi ad obiettivo, con il compito di definire le politiche in cui l’azione pubblica era impegnata, con una durata non predeterminata e uguale per tutte le politiche, ma calmierata sui problemi da risolvere e gli obiettivi da raggiungere.

Ibidem.

557

G. Ruffolo, Primo programma quinquennale. Lezione di un’esperienza, in «Mondo economico», n. 31, 1970, riprodotto anche in M. Carabba (a cura di), Mezzogiorno e programmazione (1954-1971), cit., pp. 731-750. Ruffolo

Saraceno ai piani quinquennali, prevedendo «la necessità di strumenti correttivi» da attuare quando «le variazioni del quadro superano i margini di tolleranza», manovrando gli strumenti della politica di breve periodo (bilancio e credito) e, «se necessario», anche i progetti e i programmi operativi «in modo da modificare o da compensare gli effetti dei comportamenti devianti e delle circostanze non previste». Aggiungeva dunque che «in tal modo, la programmazione non rischia di tramutarsi in una cerimonia quinquennale, ma diventa una politica continuamente e concretamente esercitata»558. A causa dei ritardi nel dibattito parlamentare il piano fu poi aggiornata al periodo temporale 1973- 77, per non essere mai approvato.

La necessità di fronteggiare la situazione di emergenza connessa alla crisi economica interruppe infatti il processo di programmazione a livello nazionale. Soltanto sul finire del 1975, il quarto governo Moro ripropose l'opportunità di collocare le scelte di politica economica in un quadro programmatico. Fu così presentato un “piano di medio termine”, che, a causa di ritardi, sarebbe sfociato nel piano triennale 1979-1981, anche in questo caso senza essere mai approvato. Di fronte all’idea di elaborare un nuovo piano a scadenza, Saraceno ripropose le critiche formulate qualche anno prima, in una lettera indirizzata al segretario della Dc Fanfani559.

Al contrario, Di Nardi continuava a ritenere necessaria la predisposizioni di programmi economici a medio e lungo termine, anche perché, ricordava sovente nei suoi scritti e nei suoi appunti, il problema dello sviluppo è «un problema di tempi lunghi». Tuttavia, era la filosofia di fondo che guidava i piani a non soddisfarlo.

Commentando una prima versione del piano triennale pubblicata da “Il Sole 24 ore” nel novembre 1975, Di Nardi ripropose le stese critiche mosse all’indirizzo di politica economica generale seguito dai governi di quegli anni. Il piano si fondava infatti «sul “principio del trasferimento” di oneri insostenibili dal settore produttivo alla finanza pubblica» e sulla «economia del dono», ponendo al centro del sistema la spesa pubblica e non, se non in via subordinata, l’iniziativa privata. Un simile indirizzo rendeva dunque puramente teorici i riferimenti, pur giusti, alla esigenza di aumentare la

esplicitava così «una meno grossolana tecnica della programmazione che si tenterà di introdurre nell’elaborazione del nuovo Piano» (Ivi, p. 741).

558 Ivi, p. 747.

559 In un documento allegato alla lettera, dal titolo “Pasquale Saraceno: esperienze di programmazione”, l’economista di

Morbegno sottolineava «l’assurdità della pratica dei programmi a scadenza fissa» perché «governare significa prendere continuamente decisioni per conseguire obiettivi la cui scadenza può essere molto varia», per cui occorreva «inserire in modo coerente ogni nuova decisione nelle azioni in corso», tenendo conto che «le decisioni si prendono quando il sistema le richiede». Aggiungeva poi che «il programma infatti altro non è – e non può non essere – che lo strumento mediante il quale, periodicamente, si accerta che la moltitudine di azioni in corso costituisce un sistema». Concludeva infatti sottolineando come si considerasse che il piano dovesse consistere «col fare o con il non fare una data cosa», invece «di una grande vicenda costituzionale» in grado di coinvolgere e armonizzare l’attività di tutte le parti costituenti l’ordinamento italiano». Acs, Cps, busta 108, fascicolo “Democrazia cristiana [corrispondenza], sottofascicolo “Fanfani Amintore”, lettera di Pasquale Saraceno a Amintore Fanfani del 29 aprile 1975 con allegato documento dal titolo “Pasquale Saraceno: esperienze di programmazione”.

produttività degli stabilimenti industriali560. Sono critiche che ribadì poi di fronte alla versione definitiva del piano triennale 1979-1981561.

A fronte del fallimento della programmazione nazionale, cominciava invece a muovere i suoi passi la tanto invocata programmazione regionale, a seguito della entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario nel 1970562.

Come sottolineava il ministro del Bilancio Giolitti «Piano e Regioni offrono l’occasione per una svolta profonda nella evoluzione economica e sociale del Mezzogiorno»563. Questo perché «sin dalle origini della vicenda dello Stato unitario “questione meridionale” ed accentramento burocratico hanno rappresentato due aspetti dello stesso problema di fondo: il disagio e il distacco della società civile dalle istituzioni politiche e la scarsa vitalità del sistema liberale-democratico, specialmente nel Sud»564. Le Regioni avrebbero dunque potuto costituire in questo rapporto tra livello nazionale e livello centrale «un punto di incontro per coagulare un ceto dirigente meridionale»565. In questo discorso, dunque, «il nesso tra politica di piano e Regioni è essenziale»566.

Lo stesso Di Nardi, intervenendo su «Mondo economico» nel novembre 1969, dunque alla vigilia dell’entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario, continuava a manifestare tutte le sue speranze per una riforma che poteva porre fine all’insufficiente collegamento che si era registrato tra la Cassa per il Mezzogiorno e le amministrazioni ordinarie, pur essendo questo un obiettivo esplicitamente posto dagli articoli 1 e 4 della legge 1950. Di Nardi manifestava così la sua speranza affinché «le autonomie locali possano contribuire ad accelerare il processo di crescita del Mezzogiorno». Il loro compito, lo abbiamo già visto nel precedente capitolo, consisteva precisamente nell’indicare le strategie di sviluppo territoriale da inserire nel piano nazionale, altrimenti «un programma concepito a Roma, per tutto il Paese, non può essere che un abbozzo di larghissima e forse lontanissima approssimazione alla realtà globale del Paese», con il rischio «di

560

Afus, Adn, busta 16, fascicolo 180, appunto del 18 novembre 1975, riprodotto in allegato.

561 Afus, Adn, busta 90, fascicolo 647, “Qualche riflessione sul piano triennale del governo (1979-1981)” del 18 maggio

1979. Il piano confermava come obiettivi lo sviluppo del Mezzogiorno e l’aumento dell’occupazione, che doveva assorbire i 160.000 lavori in esubero nell’industria, i precari impiegati nel settore agricolo e creare inoltre 600.000 posti di lavoro. Tuttavia anche in questo caso, Di Nardi rilevava come il meccanismo propulsivo fosse fondato sulla finanza pubblica. La dichiarata intenzione di aumentare la produttività del lavoro era ancora una volta giudicata velleitaria da Di Nardi, perché non riscontrava il consenso dei sindacati.

562 Sulla esperienza della programmazione economica regionale cfr. F. Fiorelli, Programmazione regionale in Italia –

Metodi ed esperienze, Giuffré, Milano 1979 e P. Belcaro, La programmazione economica delle regioni. Esperienze del periodo 1970-1990, Cedam, Padova 1991.

563 A. Giolitti, Regioni, Mezzogiorno e programmazione, in «Rassegna economica», cit., p. 1186. 564 Ivi, p. 1187.

565

Ivi, p. 1188.

rimanere una esercitazione a tavolino»567. Una esercitazione che avrebbe perpetuato quegli squilibri interni al paese che invece la programmazione era chiamata a risolvere

Se continuiamo ad applicare una strategia unica, continueremo a soffrire degli squilibri interni e non soltanto del diverso saggio di sviluppo fra Nord e Sud.

C’è da chiedersi: come si può differenziare la strategia dello sviluppo, all’interno dello stesso sistema? Questo è il problema che dobbiamo risolvere. La Programmazione centrale non può risolverlo, perché considera il sistema nel suo complesso e operando sui grandi aggregati perde di vista la molteplice varietà delle situazioni interne568.

Da questo punto di vista, il primo programma economico nazionale era stato inefficace ed a poco erano valsi i Crpe, perché «scarso e diseguale è stato il contributo che questi hanno potuto dare alla elaborazione del Programma nazionale». Ora si poteva invece procedere verso la strada immaginata e le regioni diventavano la chiave del successo delle politiche di sviluppo nel Mezzogiorno

Governi regionali – o, comunque, autorità locali – devono contribuire con la loro inventiva a individuare la strategia di sviluppo più adatta al proprio territorio di competenza.

Siamo a uno stadio dello sviluppo meridionale in cui l’inventiva conta più dei mezzi materiali.

Non è più il tempo di andare alla ricerca indiscriminata di qualche stabilimento industriale, o alla sollecitazione di opere pubbliche o di sussidi più generosi. Siamo invece nella fase in cui, per creare nuove occasioni di lavoro, è necessario aumentare la produttività delle risorse occupate, in tutti i settori569.

Il raccordo tra livello nazionale e livello regionale era stato attentamente contemplato al momento della redazione del secondo programma economico nazionale. Erano infatti previsti quattro tipologie di progetti. La prima tipologia costituita da progetti di preminente significato nazionale, che non prevedevano il coinvolgimento delle regioni. La seconda relativa a progetti di significato nazionale e interregionale che prevedevano il raccordo con le regioni (in questo quadro rientravano progetti sociali interregionali o intersettoriali e piani di coordinamento degli interventi pubblici di ordine territoriale, come il Piano di coordinamento degli interventi nel Mezzogiorno). La terza

567 G. Di Nardi, Regioni e programmazione, in «Mondo economico», 29 novembre 1969, pp. 15-19. Nell’articolo Di

Nardi tornava ad evidenziare la sua concezione del rapporto tra programmazione regionale e nazionale. Ripercorrendo le tappe che avevano portato all’avvio del dibattito sul primo programma economico nazionale scriveva: «In vista della Programmazione, si affermava il principio che questa si formasse dal basso, cioè con l’apporto di tutte le istanze espresse dalla popolazione diffusa in ogni parte del territorio e non mediante decisioni centralizzate» Al riguardo, proseguiva affermando che «il disegno teorico non ha tuttavia trovato ancora la sua attuazione». Ivi, p. 15.

568 Ivi, p. 18. Aggiungeva Di Nardi: «dopo venti anni di intervento straordinario a sollievo del Mezzogiorno non è

difficile constatare che l’iniziativa pubblica accentrata ha potuto realizzare senza grandi difficoltà una cospicua rete di infrastrutture, ma non è riuscita con eguale sollecitudine a penetrare nelle strutture produttive e a muoverle in sincronismo verso il traguardo dello sviluppo globale».

tipologia di progetti, di significato regionale e nazionale, coinvolgeva invece più pienamente i poteri attivi regionali, che erano tuttavia condizionati in alcune funzioni dirette o collaterali da quelli statali. Infine, si prevedevano progetti di preminente significato regionale570.

La programmazione regionale comunque non partì subito. Anche se le nuove istituzioni fecero il loro ingresso sulla scena nel 1970, perché si potesse avviare una loro attività di programmazione erano necessari alcuni provvedimenti legislativi. Fondamentali furono le leggi 22 luglio 1975, n. 382, sul completamento dell’ordinamento regionale, e la legge 19 maggio 1976, n. 335, sulla riforma della contabilità regionale che, permettendo alle Regioni di tenere un bilancio pluriennale, apriva la strada ad una concreta possibilità di pianificazione degli interventi. In attuazione della legge n. 382 fu poi emanato il Decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616, il cui articolo 11 definiva il raccordo tra programmazione nazionale e programmazione regionale, affermando che «lo Stato determina gli obiettivi della programmazione economica nazionale, con il concorso delle Regioni». L’articolo proseguiva indicando che «le Regioni determinano i programmi regionali, in armonia con gli obiettivi della programmazione economica nazionale e con il concorso degli Enti locali territoriali, secondo le modalità previste dagli Statuti regionali. Nei programmi regionali gli interventi di competenza regionale sono coordinati con quelli dello Stato e con quelli di competenza degli Enti locali territoriali».

Il problema è che lo Stato non definì gli obiettivi generali, anche per il venir meno della programmazione nazionale. Se nella seconda metà degli anni sessanta avevamo avuto una programmazione nazionale senza programmazione regionale, negli anni Settanta si ebbe l’avvio della programmazione regionale, ma senza programmazione nazionale.

Di Nardi manifestò la sua delusione. Alla metà degli anni Settanta, notò come «la programmazione regionale allo stato delle cose non sembra porsi come componente di quella nazionale, ripetendone, invece, i criteri e complicandola»571. Nel 1979 approfondì la questione in un parere sulla programmazione, nazionale e regionale, redatto per l’on. Attilio Jozzelli, all’epoca consigliere di amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno.

Nell’appunto Di Nardi evidenziava il fallimento dei piani elaborati, scrivendo che «di fatto fino ad oggi è mancata una vera e propria programmazione su scala nazionale». Ciò era dovuto ad un complesso di motivi:

basti pensare alle grandi difficoltà che presenta il controllo di un complesso sistema sociale, quale è quello di un paese caratterizzato dallo sviluppo dualistico. In questo caso non basta realizzare l’equilibrio globale tra il

570 A. Giolitti, Regioni, Mezzogiorno e programmazione, cit., p. 1183. 571

Afus, Adn, busta 88, fascicolo 638, bozza di un appunto sulla programmazione preparato per il Gruppo di studio Italia, senza data. La parte citata è scritta a mano come aggiunta ad una parte del testo.

reddito prodotto e il reddito speso, ma occorre anche modificare l’andamento dei flussi delle risorse, allo scopo di favorire il riequilibrio interno fra regioni suscettibili di tassi di sviluppo differenziati e perciò caratterizzate da livelli di benessere alquanto diversi.

Di fronte a questi squilibri, il documento tornava ad affermare la necessità del decentramento

È noto infatti che le caratteristiche territoriali dello sviluppo economico italiano sono tali da presentare notevoli squilibri per le diverse aree e, in ogni caso, economie regionali sensibilmente differenziate, che richiedono sia una politica economica centrale di riequilibrio, sia e soprattutto, politiche economiche e regionali da definire in relazione ai caratteri specifici di ogni regione: una politica economica che, proprio perché fa riferimento a contesti territoriali, può trovare nel decentramento le sue condizioni di massima efficienza572.

Il parere evidenziava come tuttavia l’attività di programmazione delle Regioni stesse procedendo «in misura disuguale» perché «in alcune Regioni si sono elaborati dei veri e propri piani di sviluppo locale, ai quali si è dato un inizio di attuazione, mentre in altre Regioni – anche dove si sono fatti i piani – la fase operativa è ancora arretrata»573.

Il documento individuava due ostacoli alla elaborazione di una programmazione economica regionale. Il primo costituito dalla mancanza di un «efficiente» sistema di contabilità che rispondesse ai requisiti di «tempestività» e «completezza». Superato questo ostacolo, il parere riteneva necessario predisporre dei modelli quantitativi che consentissero una valutazione degli effetti complessivi di determinati provvedimenti di politica economica, al fine «di definire la traiettoria per il raggiungimento degli obiettivi definiti dal governo regionale».

Il secondo ostacolo era invece rappresentato dalla mancanza di un «efficiente» raccordo tra programmazione nazionale e programmazione regionale. In questo quadro, il documento della Casmez sottolineava anche la necessità di meglio collegare, nelle regioni del Mezzogiorno, la programmazione economica regionale con l’intervento straordinario574. Si tratta di un aspetto che Di Nardi avrebbe evidenziato più volte, ad esempio nel corso del convegno “Venti anni di realtà del Mezzogiorno”, svoltosi a Napoli il 20 e 21 giugno 1980575 e nei suoi appunti personali di quegli stessi mesi576.

572 Afus, Adn, busta 90, fascicolo 650.1, Parere sulla programmazione regionale, datato 1 ottobre 1979, p.4. Il parere è

trasmesso all’on. Jozzelli direttamente da Giuseppe Di Nardi.

573

Ivi, p. 5.

574 Ivi, p. 8.

575 G. Di Nardi, Bilancio della politica per il Mezzogiorno, in «Realtà del Mezzogiorno», n. 11, 1980. In questo