• Non ci sono risultati.

Il «secondo tempo» della politica meridionalista: verso lo sviluppo di una dimensione regionale?

3. GLI ANNI SESSANTA: PROGRAMMAZIONE NAZIONALE SENZA PIANIFICAZIONE REGIONALE

3.1 Il «secondo tempo» della politica meridionalista: verso lo sviluppo di una dimensione regionale?

La crescita economica registrata nel corso degli anni Cinquanta aveva determinato fenomeni di esodo dalle aree più povere e l’addensamento della popolazione nelle aree urbane che presentavano maggiori opportunità di lavoro. Fu un fenomeno che non seguì solo la direttrice Sud-Nord, ma si verificò anche all’interno dello stesso Mezzogiorno.

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, proprio per fronteggiare questi squilibri dalla metà degli anni Cinquanta Di Nardi aveva immaginato un «secondo tempo» della politica meridionalista che coinvolgesse i territori nella elaborazione delle politiche di sviluppo. Non avendo ancora avuto attuazione la disposizione costituzionale che prevedeva l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, egli individuava l’interlocutore locale in «comitati di persone rappresentative» da costituire nelle varie regioni351.

Questo indirizzo regionalista si andava diffondendo tra gli economisti – citiamo Alessandro Molinari352 e Manlio Rossi Doria353 come esempi vicini alla visione che vedremo essere propria di Di Nardi – e a livello istituzionale fu sostenuta anche dalla Cassa per il Mezzogiorno, che nel periodo successivo promosse, direttamente o indirettamente attraverso i suoi rappresentanti, il dibattito sulla articolazione in senso regionale delle politiche di sviluppo.

In questo quadro si colloca il “Convegno sui piani regionali di sviluppo” svoltosi a Bari nel settembre 1959, nell’ambito della Fiera del Levante presieduta da Nicola Tridente, membro del cda della Casmez.

Il convegno è ricordato soprattutto per l’intervento del ministro dell’Industria e del Commercio Emilio Colombo, che, nel solco del «secondo tempo» della politica meridionalista immaginato anche da Di Nardi, annunciò pubblicamente di aver affidato alle Unioni regionali delle Camere di commercio il compito di provvedere alla redazione di piani di sviluppo regionale354.

351

Afus, Adn, busta 28, fascicolo 246.2, appunto del 28 marzo 1956, riprodotto in allegato.

352 Cfr. S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro

Molinari, cit., pp. 239-242.

353 Cfr. S. Misiani, Manlio Rossi-Doria. Un riformatore del Novecento, cit., pp. 552 e ss. 354

Per gli atti del Convegno cfr. Aa., Vv., Convegno nazionale sui piani regionali di sviluppo, «Quaderni di civiltà degli scambi», n. 3, 1959.

All’iniziativa partecipò lo stesso Di Nardi, che vi tenne uno degli interventi centrali, poi ripreso per il contributo Prolegomeni ai piani regionali di sviluppo, pubblicato sulla «Rassegna Economica» di luglio-settembre 1959, che è fondamentale per comprendere il suo indirizzo355.

In questo scritto egli chiariva tanto gli obiettivi quanto le modalità di elaborazione e attuazione dei piani di sviluppo regionale. Tenendo conto che, come anticipato da Colombo al Senato nel giugno 1959, i piani regionali dovevano servire a indirizzare lo sviluppo industriale sul territorio356, Di Nardi spiegava che essi costituivano il «mezzo di ricognizione delle occasioni di investimento, secondo le loro possibili ubicazioni che, quando siano alternative, pongono alle pubbliche autorità problemi di scelta nell’uso degli strumenti di governo (es., come distribuire gli incentivi?)»357. I piani regionali rappresentavano dunque un fondamentale «strumento di conoscenza», da far poi confluire in un organico piano nazionale. Ci soffermeremo nel prossimo paragrafo sull’indirizzo della programmazione nazionale immaginata da Di Nardi, essendo ora il nostro obiettivo quello di evidenziare la centralità della dimensione locale – non dunque di quella nazionale – nella elaborazione delle politiche di sviluppo dell’economista pugliese. Nella sua visione era dall’ambito locale che si doveva passare a quello centrale e non viceversa.

Infatti, secondo Di Nardi per giungere alla elaborazione di una pianificazione economica a livello nazionale, occorreva prima vagliare le richieste provenienti dai territori:

Ogni regione ed ogni provincia lamentano di avere zone arretrate ed invocano in proprio favore provvedimenti di sostegno. Una prima necessità sorge da questa situazione: mettere ordine nelle richieste,

rilevarle, soppesarle, graduarle secondo la loro urgenza […]358.

In funzione di queste indicazioni, si sarebbe proceduto a definire «obiettivi e tempi di attuazione degli stessi». Gli obiettivi dovevano essere classificati sinteticamente, mediante l’indicazione del tasso medio annuo di incremento del reddito reale pro-capite atteso per un certo numero di anni. Terminata questa fase di accertamento degli obiettivi, occorreva da una parte indicare il livello di investimento necessario per raggiungere quegli obiettivi e dall’altro effettuare una ricognizione delle risorse disponibili sul territorio.

Dal confronto tra queste grandezze sarebbe emersa la richiesta da rivolgere al governo centrale (determinata dalla differenza tra il livello di investimento indicato e le risorse economiche disponibili sul territorio) e dunque la fattibilità dei piani di sviluppo regionali (che ovviamente

355 G. Di Nardi, Prolegomeni ai piani regionali di sviluppo, in «Rassegna economica», luglio-settembre 1959, pp. 435-

454.

356 Ivi, p. 436, nota 2. 357

Ivi, p. 437.

andava valutata anche sulla base di grandezze non finanziarie, quali la manodopera disponibile, le risorse naturali, il livello di sviluppo delle attrezzature capitalistiche ecc).

Come già più volte in passato, Di Nardi tornava a sottolineare l’importanza che lo sviluppo dei territori fosse il più possibile collegato alle risorse disponibili localmente:

Lo sviluppo si consegue mediante una più intensa accumulazione e con la mobilitazione di tutte le energie umane per accrescere la produttività in ogni settore. Esso è in primo luogo il prodotto di una più fertile iniziativa e di una più ferma volontà di risparmio delle popolazioni locali. È vero che ogni collettività, in particolare quelle più povere, possono fare un “salto” nello sviluppo solo o soprattutto con l’apporto di risorse dall’esterno (per spezzare il circolo vizioso della povertà, come oggi si dice). Ma la nozione, caso per caso, della dimensione di tale apporto è un fattore indispensabile a stabilire la compatibilità dei piani regionali. Infatti, sia che quelle risorse aggiuntive provengano dall’interno, attraverso il movimento interregionale dei fattori di produzione, sia che provengano dall’estero (ma con garanzie fornite dal potere centrale e quindi a carico di tutta la collettività nazionale, com’è, ad esempio, il caso dei prestiti Birs per investimenti nel Mezzogiorno) esse definiscono il grado di dipendenza di una collettività dall’economia di altre collettività359.

Attraverso l’elaborazione di piani di sviluppo regionale, Di Nardi intendeva dunque definire un percorso di sviluppo delle diverse aree del Mezzogiorno il più possibile indipendente dall’intervento di fattori esterni (pubblici e privati). Al riguardo, l’economista pugliese riprendeva anche alcune idee espresse all’inizio del secolo da Antonio de Viti de Marco, il quale proponeva che fosse affidata alle amministrazioni locali l’attuazione delle opere pubbliche, facendo perno sui tributi pagati dalle popolazioni da loro amministrate.

Secondo Di Nardi, l’elaborazione di piani di sviluppo regionali sarebbe stata indispensabile per individuare quali settori valorizzare, in funzione delle naturali inclinazioni di ciascun territorio. In questo senso, essi avrebbero dovuto innanzitutto accertare «la possibilità tecnica di espansione delle attività industriali, per la lavorazione e la conservazione di materie prime e semilavorati prodotti dall’economia locale»360. Per portare un esempio concreto, Di Nardi evidenziava come il vino prodotto in Puglia e Basilicata fosse non sufficientemente elaborato. In questo caso, il processo di lavorazione doveva essere completato all’estero, provando l’esistenza di una risorsa locale non sufficientemente valorizzata. Di fronte a situazioni del genere, il piano regionale doveva anche indicare le ragioni della insufficiente utilizzazione delle risorse locali, indicando le possibili soluzioni.

I piani regionali non dovevano prevedere investimenti diretti da parte dello Stato, che, individuati a

359

Ivi, p. 445.

livello centrale, avrebbero invece dovuto avere una funzione equilibratrice dei meccanismi di sviluppo locale. Evidenziamo questo punto perché è un ulteriore conferma della priorità del livello locale su quello centrale, che viene dunque in seconda battuta, come strumento, appunto, di riequilibrio

[…] Non è neppure sostenibile che nei piani regionali si includano previsioni di investimenti in industrie prive di basi locali, come sopra si è chiarito, confidando su una diretta attività di investimento dello Stato (attraverso i gruppi a prevalente partecipazione statale). La distribuzione regionale di tali investimenti è materia che va lasciata alla decisione del potere centrale, che potrà servirsene come strumento di riequilibrio dei meccanismi dello sviluppo locale e secondo i criteri reputati più idonei a realizzare la strategia dello sviluppo nazionale361.

Esattamente come sostenuto da Molinari nello stesso convegno di Bari, anche per Di Nardi era sulla base delle indicazioni fornite dai singoli piani regionali che lo Stato avrebbe poi dovuto elaborare il piano nazionale, consistente in tutti quei provvedimenti di politica economica (incentivi, distribuzione della spesa pubblica, modifiche del sistema tributario ecc.) ritenuti più idonei a favorire lo sviluppo delle regioni362. Nell’ambito del presente discorso è opportuno sottolineare come l’accento posto sulla dimensione locale non si ponesse in antitesi con l’interesse generale rappresentato dallo Stato. In un successivo scritto del 1964, l’economista pugliese avrebbe sottolineato la necessità che tra i piani di sviluppo regionali e il piano nazionale ci fosse uno stretto coordinamento, al fine di «fare salva l’unità di indirizzo della politica economica»363.

Come detto, per provvedere alla elaborazione dei piani regionali Di Nardi prefigurava l’istituzione di comitati di persone rappresentative nelle singole regioni, mentre successivamente Colombo aveva proceduto incaricando le Unione regionali delle Camere di commercio. Si trattava ovviamente di soluzioni pro-tempore, in attesa della costituzione delle regioni a statuto ordinario, previste dalla VIII e dalla IX disposizioni transitorie della Carta costituzionale.

Fino a quel momento la loro entrata in funzione era stata rimandata principalmente a causa delle preoccupazioni che la Dc nutriva per la possibile vittoria delle sinistre a livello locale. Ma l’avvio del dibattito sulla redazione di piani di sviluppo regionale da parte di esponenti della stessa Dc, o comunque ad essa vicini come Di Nardi, riproponeva il problema, in maniera apparentemente ineludibile. Così, pochi mesi dopo l’annuncio dato da Colombo alla Fiera del Levante, il terzo governo Fanfani, con decreto 29 agosto 1960, istituiva la Commissione per lo

361 Ivi, p. 449.

362 S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro Molinari,

cit., pp. 239-242.

Studio degli aspetti giuridici e finanziari connessi con l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario, presieduta dal senatore Dc Umberto Tupini.

La Commissione era composta da esperti parlamentari, dai presidenti della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, dall’Avvocato generale dello Stato e da alcuni economisti. Tra questi Giuseppe Di Nardi, nominato membro della commissione direttamente su indicazione di Amintore Fanfani364, l’esponente politico per il quale l’economista pugliese aveva nutrito, fino a quel momento, il maggior rispetto365.

La commissione fu articolata in due sottocommissioni. La prima impegnata sugli aspetti tecnico- giuridici, presieduta da Raffaele Pio Petrilli e composta da Antonio Amorth, Feliciano Benvenuti, Ludovico Camangi, Amedeo D’Albora, Mauro Ferri e Edgardo Lami-Starnuti.

La seconda sottocommissione, che doveva dedicarsi alle problematiche tecnico-finanziarie, era invece presieduta dal presidente della Corte dei Conti Ferdinando Carbone e composta da Celestino Arena (relatore), Aldo Bozzi, Edgardo Castelli, Giuseppe Di Nardi, Francesco Ferrarotti e Salvatore Scoca366. Il lavoro di questa sottocommissione era particolarmente delicato dal momento che, nella precedente legislatura, l’elezione dei consigli regionali era stata almeno formalmente bloccata da un emendamento che richiedeva, preventivamente, l’emanazione di apposite disposizioni sulla finanza regionale.

Le riunioni delle due sottocommissioni si svolsero presso il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, alla presenza anche del segretario della Commissione per le regioni, Alessandro Agrimi. I lavori si aprirono il 10 novembre 1960 per concludersi il 27 giugno 1961.

Essenzialmente, i compiti della commissione erano due. Sotto il profilo tecnico-giuridico esaminare la legge del 10 febbraio 1953 n. 62 «Costituzione e funzionamento degli organi regionali», per valutare, anche alla luce dell’esperienza maturata dalle regioni a statuto speciale, se quella stessa legge potesse rappresentare uno strumento ancora valido per l’entrata in funzione delle Regioni a statuto normale. In ambito economico procedere invece ad indagini e conseguentemente formulare indicazioni in materia di finanzia regionale, in linea con quanto espresso dall’art. 119 della Costituzione.

La conclusione della commissione giuridica fu favorevole al mantenimento della legge 1953 n. 62. Inoltre fu ribadito, per le materie di legislazione concorrente elencate dall’art. 117 della

364 Afus, Adn, busta 68, fascicolo 474.7, lettera del Presidente del Consiglio Amintore Fanfani a Giuseppe Di Nardi del

22 agosto 1960 e risposta di Giuseppe Di Nardi del 23 agosto seguente.

365

In una lettera del 2 luglio 1958 Di Nardi aveva scritto a Fanfani «consentimi di cogliere questa occasione per dirti che seguo con il più vivo interesse il tuo meritorio e assai promettente tentativo di rinvigorimento e di innovazione della condotta del governo, tentativo per il quale formulo i più calorosi auguri di successo, come merita la tua nobilissima ispirazione»; Afus, Adn, busta 68, fascicolo 475.2, lettera di Giuseppe Di Nardi ad Amintore Fanfani del 2 luglio 1958.

366

Pcm, Commissione di studio per l’attuazione delle regioni a statuto normale, I, Relazioni e monografie di carattere

Costituzione, il potere del Parlamento ad emanare una sola legge-cornice per ciascuna materia, che poi sarebbe stata dettagliata dalle Regioni.

Il lavoro della sottomissione per gli aspetti tecnico-finanziari si concentrò sul calcolo dei costi e sul reperimenti dei mezzi finanziari. Si trattava dunque di una problematica strettamente collegata all’indirizzo che intendeva sostenere Di Nardi: i costi avrebbero potuto includere anche le spese legate alle politiche di sviluppo regionale, dal momento che l’economista pugliese suggeriva di calmierarle il più possibile sulle risorse reperibili localmente?

La sottocommissione adottò un metodo di indagine proposto da Castelli, secondo cui occorreva individuare la spesa che lo Stato già affrontava nelle singole regioni nell’ambito delle materie a legislazione concorrente indicate dall’art. 117 della Costituzione e che sarebbero state trasferite a livello regionale. A queste spese si sarebbe aggiunto “un di più” collegato alla istituzione di nuovi enti necessari per una gestione più ravvicinata di problemi sottoposti prima ad una valutazione esclusivamente centralizzata. Secondo calcoli dell’Isco, la spesa trasferita sarebbe ammontata a 163 miliardi di lire, cui dovevano aggiungersi 57 miliardi relativi alla organizzazione dei nuovi uffici – desunti come percentuale della stessa spesa sostenuta dalle Regioni a statuto speciale – per un totale dunque di 220 miliardi di lire, di cui però solamente i suddetti 57 come spesa aggiuntiva367.

Dal punto di vista del reperimento delle risorse, la Regione non avrebbe goduto di potestà impositiva, perché in contrasto con l’art. 23 della Costituzione – in base al quale nessuna prestazione patrimoniale poteva essere imposta se non in base alla legge nazionale – e con la versione originaria dell’art. 119, secondo cui le leggi della Repubblica avrebbero stabilito le forme e i limiti dell’autonomia finanziaria delle Regioni. La sottocommissione proponeva dunque di attribuire alle Regioni, come tributi propri, l’imposta sui terreni e quella sui fabbricati, in quanto collegate con due materie molto importanti attribuite dagli artt. 117 e 118 della Costituzione alla competenza legislativa e amministrativa regionale, quali agricoltura e urbanistica. Oltre a questi tributi, per coprire il fabbisogno iniziale delle Regioni, la sottocommissione propose una finanza di compartecipazione determinata da una quota dell’Ige (imposta generale sulle entrate) e dell’imposta di consumo sui tabacchi.

La sottocommissione non si dedicò però ad un problema centrale nel disegno di Giuseppe Di Nardi. L’assegnazione da parte dello Stato centrale alle Regioni, prevista sempre dalla versione originaria dell’art. 119 della Costituzione, di contributi speciali per il funzionamento di particolari piani di sviluppo e valorizzazione, con speciale riferimento al Mezzogiorno. Questo perché al termine dei lavori si ritenne che tra le competenze delle Regioni non dovessero, almeno inizialmente, comparire l’elaborazione e l’attuazione di politiche regionali di sviluppo.

Celestino Arena, nella relazione conclusiva dei lavori della sottocommissione economica, sottolineava infatti che essendo la Regione «un ente di amministrazione, con finalità di mera

amministrazione» essa non avrebbe avuto funzioni di «elevata politica economica», limitandosi

dunque ad attuare la legislazione statale368.

In questo ambito ci si limitò solo a indicare una prospettiva. Tupini, nella documento finale, accennò ad un collegamento tra l’attuazione delle Regioni a statuto normale e gli sviluppi collegati non solo al varo di una programmazione nazionale, ma anche all’intervento straordinario nel Mezzogiorno, affermando che «l’introduzione dell’ordinamento regionale nell’intero territorio dello Stato potrebbe rappresentare l’occasione favorevole, non facilmente riscontrabile in futuro, per un riassestamento di talune manifestazioni che la tormentata esperienza di questi anni ha dimostrato non del tutto convincenti»369.

La Commissione concludeva dunque i suoi lavori senza aver determinato un fabbisogno per le politiche di sviluppo e programmazione, prospettandole come una evoluzione futura. L’unica teorica apertura fu l’ipotesi dell’impiego in questo senso di parte dei 57 miliardi previsti però per il funzionamento degli uffici regionali370.

Si tratta di conclusioni importanti dal punto di vista teorico, perché evidenziano il desiderio di contenere l’azione delle Regioni nell’ambito più strettamente collegato all’amministrazione e dunque all’attuazione di norme elaborate a livello centrale.

Tuttavia, l’istituzione del nuovo ordinamento subì un ulteriore rinvio. La Dc continuava ad essere preoccupata dei suoi riflessi sulla stabilità politica del Paese. Soprattutto a seguito dei ripetuti successi del Pci nelle regioni a cavallo dell’Appennino centrale e l’impasse che l’esperimento milazzista in Sicilia aveva determinato anche a livello nazionale. Come evidenziava «Mondo economico», il timore era la politicizzazione dell’attività regionale e in molti casi la creazione di «focolai locali di “legalità di sinistra”»371. Il dibattito si sarebbe concluso solo il 21 giugno 1967, quando il Ministro dell'Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge 17 febbraio 1968 n. 108). Le Regioni sarebbero finalmente entrate in funzione nel 1970.

Nel frattempo Di Nardi prese parte a diversi incontri internazionali che ponevano a tema la valorizzazione della dimensione regionale. Il boom economico, comune a tutti i Paesi industrializzati dell’Europa occidentale, aveva infatti determinato in tutti questi Stati forti squilibri. Il Conseil International des Economies Régionales organizzò degli incontri tra esperti per favorire

368 Ivi, pp. 82-83. 369 Ivi, p. 18. 370 Ivi, p. 19. 371

Si vedano le note Costituzione e regioni, «Mondo economico», 2 gennaio 1960, n. 1 p. 5 e Sicilia: alba o tramonto

uno scambio di esperienze sul tema. Di Nardi partecipò al terzo e al quarto Congresso, che si svolsero rispettivamente a Roma dal 3 al 6 maggio 1965 e a Madrid dall’8 all’11 maggio 1967372. Gli incontri trovavano anche il sostegno della Cassa per il Mezzogiorno, che per rispondere a questo indirizzo aveva creato dei gruppi di lavoro regionali373. L’istituto partecipò direttamente all’organizzazione del congresso di Roma e che poi annoverò tra i membri del comitato organizzatore del congresso di Madrid due suoi membri – il presidente Gabriele Pescatore e il capo del servizio delle relazioni esterne Francesco Simoncelli – mentre altri tre suoi esponenti tennero delle relazioni. Oltre a Giuseppe Di Nardi, intervennero il vicepresidente Michele Cifarelli sul tema dell’urbanizzazione e il capo dei servizi professionali Francesco Tagliamonte che invece affrontò il problema della formazione374.

A Madrid Di Nardi tenne la relazione introduttiva dal titolo “Lo sviluppo equilibrato delle regioni nelle nazioni e nei grandi spazi economici”, in cui ribadiva le difficoltà che avrebbero potuto incontrare le aree in ritardo di sviluppo all’interno di grandi insiemi, come la Cee, per le limitazioni imposte alle erogazioni delle sovvenzioni. Tuttavia, l’allargamento dello spazio andava anche a rafforzare la solidarietà locale, per cui «l’action regionale peut trouver d’autant plus de moyens

pour ệtre plus efficace qu’est plus grande l’aire communautaire»375. In questo senso, l’impegno di Di Nardi per lo sviluppo di una dimensione regionale può essere anche interpretato in forma complementare alla costituzione del Mec.

La posizione di preminenza che Di Nardi ebbe al congresso fu confermata dal fatto che l’Isvet lo incaricò di scrivere una introduzione alle memorie presentate nel corso del Congresso, che ci sembra interessante perché contribuisce a chiarire alcuni aspetti della sua concezione del regionalismo che ci torneranno utili.

Secondo l’economista pugliese, il problema dello squilibrio di sviluppo tra regioni aveva tre «facce». La prima era economica e legata alla necessità di superare la povertà di alcune zone. La