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L’indirizzo di cui Di Nardi divenne un interprete all’interno della Banca d’Italia rese possibile l’avvicinamento del giovane economista pugliese alla figura di Giuseppe Ugo Papi.

Nella seconda metà degli anni Trenta il fascismo rafforzò ulteriormente il controllo dello Stato sull’economia, lanciando ufficialmente il sistema corporativo con la legge del 5 febbraio 1934, che istituiva le corporazioni, e poi, dalla primavera del 1936, annunciando l’inizio della politica autarchica.

Le suggestioni di questi due nuovi modelli economici – corporativismo e autarchia – conquistarono Di Nardi, che da quando aveva cominciato a collaborare con la Banca d’Italia risiedeva per buona parte della settimana a Roma, città che alla metà degli anni Trenta stava sottraendo a Milano lo scettro di centro di elaborazione della teoria economica, grazie alla presenza di numerosi qualificati centri studi, oltre che all’interno dell’Istituto di via Nazionale, anche all’interno dell’Istat e di altri enti pubblici.

Fu così, che sul finire di quel decennio l’economista pugliese si avvicinò ad una delle figure più impegnate nel dibattito sul nuovo ordine corporativo. Il titolare della cattedra di Economia politica all’università “La Sapienza” di Roma, Giuseppe Ugo Papi.

Il passaggio dalla scuola di Demaria a quella di Ugo Papi non era così difficile dal punto di vista dell’impostazione teorica. Anche Papi riconosceva il dualismo tra economia statica e dinamica, affermando che l’«economia pura finora costruita è quasi esclusivamente statica, laddove la realtà

relazione alle eventuali assenze che si dovessero verificare nei rimanenti tre giorni di ciascuna settimana. Di quanto precede renderete integralmente edotto l’interessato, invitandolo ad apporre, in caso di accettazione, la propria firma in calce alla presente»; Ivi, lettera del governatore della Banca d’Italia V. Azzolini al capo del Servizio studi economici e statistici della Banca d’Italia Carlo Rodella del 20 giugno 1940.

98 Ivi, lettera di G. Di Nardi al capo del Servizio studi economici e statistici della Banca d’Italia Carlo Rodella dell’8

dicembre 1940.

99 Ivi, lettera di G. Di Nardi al governatore della banca d’Italia V. Azzolini del 12 agosto 1941. 100

Ivi, lettera di G. Di Nardi al governatore della banca d’Italia V. Azzolini del 15 ottobre 1941.

che si vuole studiare è dinamica»102. A fare la differenza, erano gli “impulsi” ed i “sentimenti” che determinavano la vita umana, a fronte della “logica” e dell’“esperienza” su cui invece si fondava l’economia pura. Ne conseguiva che anche nel pensiero di Papi un regime di concorrenza perfetta poteva esistere solo a livello teorico, mentre nella realtà il caso più probabile era la formazione di regimi di oligopolio.

In una situazione di concorrenza imperfetta, secondo Papi era necessario l’intervento pubblico, soprattutto per controllare le fasi di fluttuazione economica. Questo orientamento emerge dal terzo volume delle Lezioni di economia generale e corporativa (1934), intitolato proprio “Teoria delle fluttuazioni economiche”, poi separatamente pubblicata nel 1936 con il titolo La crisi come

negazione di conoscenza.

Qui Papi sottolineava le difficoltà dell’imprenditore ad adattare la produzione al consumo, a causa degli intervalli di tempo che separavano questi due momenti, nel corso dei quali mutavano le condizioni di partenza, generando «un disquilibrio ora in un senso ora nell’altro, che costituisce non l’eccezione, sì la continua realtà del mercato»103. Ciò rendeva estremamente difficile la realizzazione dell’equilibrio di mercato perché «occorrerebbe prevedere esattamente sia le condizioni della domanda, sia i risultati del processo produttivo» aggiungendo che la qual cosa «non è agevole»104. Nella visione di Papi, quando questi squilibri si verificavano «contemporaneamente e nello stesso senso in parecchi rami di produzione», avevano luogo delle crisi di «varia ampiezza e durata» che costituivano «ricorrenze con carattere di periodicità». L’andamento della crisi adottato da Papi mutuava il modello dell’economista americano Wesley Clair Mitchell e prevedeva un susseguirsi dei periodi di depressione, ripresa, ascesa e recessione, con un momento specifico di crisi situato al culmine del periodo di ascesa, per cui la recessione e la depressione (con cui generalmente si immedesima la crisi) rappresentano conseguenze della crisi stessa. Questo ciclo era frutto dello «sviluppo di una serie di errori nell’offerta di prodotti, prima in difetto poi in eccesso, messi in azione da “eventi” favorevoli all’attività produttiva»105 e in particolare da errori di «conoscenza» della «intensità», della «durata» e del «sovrapporsi degli eventi che influiscono sulla produzione»106. Papi sottolineava che questi cicli si potessero verificare indipendentemente dalla erogazione del credito da parte delle banche. Tuttavia, chiariva che se in regime di gold standard, o anche di managed standard, il credito non influiva sull’attivazione di un ciclo economico perché doveva essere contenuto nei limiti della riserva aurea, il discorso mutava in regime di corso forzoso, dove l’emissione dei biglietti è soggetto ad un limite massimo estendibile

102 G.U. Papi, Lezioni di economia generale e corporativa, vol. I, Cedam, Padova 19352, p.15. 103 G.U. Papi, La crisi come negazione di conoscenza, Cedam, Padova 1936, p. 1.

104 Ivi, p. 2. 105

Ivi, p. 73.

in funzione delle pressioni politiche. Ciò, secondo Papi, determinerebbe aggravi di costo per l’impresa ed errori di calcoli perché la produzione sarebbe effettuata in funzione della previsione (mai precisa) dei prezzi futuri, per cui:

L’azione delle banche – liberando il singolo imprenditore dalla necessità di vincere la resistenza di privati per il conseguimento del risparmio e mettendogli a disposizione larghi fondi fin dall’inizio dell’opera produttiva – lo rende anche meno sollecito di controllare il momento, in cui sta per ingolfarsi in un’offerta eccessiva; e accresce la possibilità che incorra in errori. A seconda dei sistemi in cui opera e della durata dell’inflazione che può provocare, l’azione dell’organismo bancario tende ad accrescere l’ampiezza del ciclo – rispetto a quella che si sarebbe prodotta in un paese privo di banche – e ad aggravare l’entità della crisi107.

Era una posizione che differiva da quella di altri noti pensatori, a cominciare da Keynes, secondo cui la fase di ascesa era costituita dall’aumento del prezzo dei beni di consumo e dalla possibilità di profitti che ne derivavano per i produttori, senza considerare gli effetti della concessione di prestiti sull’attrezzatura produttiva e sui costi di produzione. Questi errori potevano essere limitati dall’azione dello Stato corporativo, la cui organizzazione «deve tendere ad accrescere i redditi» attraverso una «sistematica riduzione dei costi»108. Lo Stato corporativo, in funzione del controllo esercitato sui salari e sui prezzi, era, secondo Papi, il sistema che poteva tenere sotto controllo l’inflazione e dunque arginare il ripetersi dei cicli economici.

Cosicché, nell’atto stesso in cui esplica la propria efficienza e guadagna la ragione di continuità storica mediante riduzione dei costi e accrescimento dei redditi rispetto a quelli di regimi anteriori, l’ordinamento corporativo appresta anche il rimedio per superare con maggiore successo la stasi economica. Coincidono la sua ragione di vita e il bisogno di evadere dalla «crisi», attraverso una via dimostratasi l’unica ragionevole, dopo il fallimento delle altre109.

Secondo Papi l’intervento pubblico doveva rispondere ad un principio assicurativo con l’obiettivo di sostituire un costo certo attuale sostenuto dallo Stato ad un costo incerto futuro sostenuto dai privati110. L’assunzione da parte di enti pubblici di responsabilità dirette nel campo della produzione rappresentava un processo di conversione di costi variabili, sostenuti dai singoli cittadini per fruire dei servizi di cui avevano bisogno, in costi fissi, gravanti in modo costante su tutti gli individui.

107 Ivi p. 103.

108 G.U. Papi, Lezioni di economia generale e corporativa, vol. III, Cedam, Padova 19352, p. 241. 109 Ivi, pp. 241-242.

110

G.U. Papi, La nozione di costo nell’attività assicurativa, in «Giornale degli economisti e rivista di statistica», n. 10, 1934, pp. 765-772.

Questa linea di pensiero fu ulteriormente sviluppata da Papi, giungendo a configurare l’attività economica degli enti pubblici come ispirata ad un principio di assicurazione.

Questo approccio non significava però che Papi sposasse la teoria keynesiana. Egli infatti riteneva che una politica indiscriminata di intervento pubblico potesse accrescere i costi di produzione, generare inflazione e dunque ridurre il reddito nazionale:

[…] Ma una conseguenza anche più saliente dell’attività dello Stato è che, impiegando il gettito dei tributi, distrugge gran parte dei beni presenti – diretti e indiretti – senza certezza di ricostituirli in misura pressoché eguale nel futuro. Consideriamo, ad es., l’attività produttiva e una spesa frequente in tutti i climi politici: quella per opere pubbliche, volte ad ovviare alla disoccupazione e magari, nell’opinione di alcuni, a favorire un a ripresa economica. Quali ne sono le conseguenze?

Senza dubbio maggiore impiego di fattori produttivi, applicati direttamente alle opere; o volti a produrre beni strumentali, complementari, succedanei per le opere da eseguire; o volti a servizi di trasporto di beni esistenti in paese, o importati dall’estero. Rialzo del prezzo di uso di questi fattori produttivi, spiccatamente dei salari. Rincaro dei beni, in cui le maggiori remunerazioni vengono spesso successivamente. Maggiori importazioni dall’estero. Minori consumi delle classi a reddito fisso. […] In definitiva una spesa statale in opere pubbliche – anche quando assuma carattere di attingimento senza fondo al risparmio nazionale – dà luogo, sì, alle accennate retribuzioni di ricchezze in favore di quanti risultano direttamente, o indirettamente, impegnati nelle attività dello Stato. Sta in ciò la giustificazione politica fondamentale di queste spese. Ma, quanto al maggiore impiego dei fattori produttivi, lo provoca solo transitoriamente. E, dopo che le opere si sono compiute, il redito nazionale non si ricostituisce in misura almeno pari a quella preesistente; poiché l’investimento dei beni diretti e indiretti in opere pubbliche non avviene secondo criteri di vera e propria capitalizzazione – in vista, cioè, di un risultato, che ripaghi le spese di ammortamento e di assicurazione dei capitali investiti e fornisca un utile netto.

La prosecuzione di opere per il fine esclusivo della loro utilità transitoria non può non distruggere molte ricchezze nel paese e decurtare il reddito complessivo111.

Proseguendo, Papi giungeva a criticare la teoria del moltiplicatore formulata da Keynes, Kahn e Mitritzky112, per non aver compreso che l’intervento pubblico dello Stato aumenta l’inflazione e nel lungo termine ha quindi effetti negativi sul reddito della collettività113. Nella concezione di Papi,

111

G.U. Papi, Equilibrio fra attività economica e finanziaria, Giuffré, Milano 1942, pp. 25-26.

112 Gli scritti cui Papi fa riferimento sono J.M. Keynes, The general theory of employment, interests and money,

McMIllan, London 1936; R. Kahn, The relation of home investment to unemployment, in «Economic Journal», vol. 41, 1931, pp. 173 e ss.; M. Mitritzky, The effects of public works on business activity and employment, in «International Labor Review», ottobre 1934.

113

G. Ugo Papi, Equilibrio fra attività economica e finanziaria, cit., p. 37. Più avanti aggiunge Papi: «Ề noto che somme prelevate da redditi, o da risparmi, e successivamente spese, possono costituire soltanto in parte reddito

addizionale per la situazione di equilibrio, che tende a ricostituirsi a seguito di un prelevamento statale. Gran parte

infatti della spesa pubblica o sostituisce spese precedenti (ad esempio per sussidi, quando poi si eseguono opere pubbliche); o ritorna allo Stato sotto forma di imposte (ad esempio, sui redditi degli operai chiamati di fresco al lavoro);

l’intervento pubblico doveva essere invece commisurato alla capacità contributiva del Paese, tenendo conto dell’obiettivo della realizzazione di una giustizia sociale, che è innanzitutto «giustizia tributaria». Ciò significava «porre molta cautela in ogni nuovo ricorso ai redditi dei cittadini, tenendo presente che l’assunzione di nuovi compiti da parte dello Stato aggrava più che

proporzionalmente il carico della collettività»114. I lavori pubblici, secondo Papi, andavano invece rimborsati attraverso il ricorso alle annualità e dunque commisurati a questa disponibilità115. Papi avrebbe ribadito questi concetti anche qualche anno più avanti. Parlando della ricostruzione nel secondo dopoguerra, si augurava infatti che «negli enti pubblici ogni attività così di prelievo – attività finanziaria propriamente detta – che di spendita – attività di politica economica – mai giunga a menomare l’entità dell’afflusso del reddito reale: che risulterebbe menomato il fulcro medesimo della ripresa, singole e collettiva»116. Per produrre reddito reale, Papi suggeriva che lo Stato elaborasse dei piani che non contraddicessero, ma integrassero le attività produttive attivate dai singoli. In conseguenza della tesi secondo cui l’intervento pubblico deve essere “strumentale” alla produzione di beni di consumo privati, anche l’elaborazione di un piano statale doveva essere finalizzata a questo obiettivo, tenendo dunque conto dell’utilità in funzione della creazione di reddito reale, «eliminando qualunque contraddizione tra gli interventi degli enti pubblici considerati in un piano; poi tra questi interventi e i piani dei singoli consumatori e produttori, che aspettano di non esserne sconvolti; infine tra i piani di singoli consumatori e di singoli produttori per

o va all’estero (ad esempio, in pagamento di importazioni, che non provochino esportazioni nazionali); o viene da privati medesimi, che beneficiano della spesa statale, risparmiata (ad esempio, sotto forma di maggiori disponibilità liquide); versata in pagamento di vecchi debiti; impiegata in acquisto di titoli dello Stato, al quale in definitiva rifluisce il provento della vendita. Le numerose elaborazioni della teoria del “moltiplicatore”, che richiamato l’interesse di studiosi di molti paesi, sta appunto a dimostrare l’”astensione dal circolo” di una erogazione, anche se più particolarmente si siano considerate le cosidette opere pubbliche. Senonché una osservazione di rilievo egualmente

spiccato può trarsi da un esame attento dei fatti. Senza dubbio lo Stato, quando provvede a organizzare la pubblica

sicurezza e la giustizia, la difesa e la valorizzazione del territorio nazionale, pone in essere servizi che si presentano condizione indispensabile del sorgere e dello svilupparsi di qualsiasi reddito. In un paese disorganizzato sarebbe vano pensare a rigoglio, o anche a semplice stabilità, della vita economica. Tuttavia è egualmente indubbio che, nel produrre beni e servizi non rispondenti a domande individualizzabili – val dire in rapporto alle quali sia possibile stabilire una qualunque convenienza economica – possa eccedere il fabbisogno e implicare una applicazione di beni presenti – diretti e indiretti – che non trovano possibilità di ricostituirsi nell’avvenire. O trattasi, infatti, di beni diretti sottratti al consumo, o al risparmio, di talune categorie, perché applicabili altresì alla produzione. In tal caso la perdita si concreta nel minore consumo, o nel minore risparmio attuale, fino a quando la destinazione produttiva perdura. O trattasi di beni strumentali applicati ad impieghi diversi dalla destinazione per cui erano stati creati; epperò sottratti alla produzione di un reddito individuale – inteso come complesso di beni pronti per il consumo – il quale, almeno rispetto alla sua composizione durante unità di tempo precedenti, dovrà diminuire, se altri motivi non ne promuovano l’incremento e, in conseguenza, la possibilità di compensare l’accennata diminuzione. In tal caso la perdita si concreta nella minore disponibilità futura di beni pronti per consumi individuali. Sicché dallo studio delle conseguenze di una spesa statale si possono ricavare due capisaldi. Come effetto verificabile in un breve periodo, parte della spesa non partecipa a scambi successivi. Come effetto verificabile in un periodo più lungo – ad esempio, l’anno, il quinquennio – la spesa statale, qualunque il motivo per cui si effettua, elimina beni dal consumo, attuale e prospettivo, degli individui; ossia infligge perdite al reddito futuro, inteso sempre come complesso di beni per la soddisfazione diretta dei bisogni degli individui»; pp. 89-90.

114 Ivi, p. 39. 115

Ivi, pp. 160-161.

promuovere armonia, entro i limiti del possibile, tra i piani dei singoli»117. Dal punto di vista fiscale ciò significava praticare una finanza ordinaria, vale a dire prelevare dal reddito individuale esclusivamente ciò che successivamente spende per la produzione dei vari servizi pubblici a patto che ciò rientri «nel circolo della produzione del reddito reale di un paese – vale a dire dei beni di consumo prodotti e consumati nell’unità di tempo»118. Sono concetti che influirono profondamente sulla formazione di Giuseppe Di Nardi e li ritroveremo frequentemente nelle analisi svolte dall’economista pugliese anche nei decenni successivi.

Sebbene Papi figurasse già nella commissione che nel 1936 attribuì la libera docenza a Di Nardi, i primi scambi epistolari tra i due risalgono alla primavera del 1939, quando Papi insegnava Economia politica corporativa alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma119. Ciò che probabilmente aveva colpito l’economista pugliese era la concezione del corporativismo di Papi che non degenerava nel dominio della burocrazia. Si trattava di un orientamento molto vicino all’impostazione che abbiamo visto già germogliare in Di Nardi e che risulta chiaramente definita in un contributo che il giovane economista pugliese intitolò Economia mista, pubblicato nell’agosto del 1936 su «Civiltà fascista», rivista diretta da Salvatore Valitutti ed edita dall’Istituto nazionale di cultura fascista, con cui Di Nardi instaurò una collaborazione sempre più stretta fino al 1942. In questo scritto Di Nardi esaminava la tesi esposta da Sergio Panunzio nel volume dal medesimo titolo120, che identificava l’economia corporativa con l’economia mista, vale a dire con un sistema economico che tendesse consapevolmente sotto il profilo «quantitativo», «morfologico ed organico» e «qualitativo dinamico o ideale», ad una commistione di «fattori, forze e capitali pubblici e privati».

L’analisi delle tesi di Panunzio svolta da Di Nardi è estremamente interessante per comprendere l’orientamento dell’economista pugliese. Innanzitutto, egli criticava l’approccio liberista perché «a lungo andare si è visto che la concorrenza partoriva le coalizioni d’imprese e sboccava nei monopoli, irrigidendo la struttura economica delle Nazioni», con il risultato che «l’equilibrio tra costo di produzione e prezzo, in cui automaticamente si realizzava la selezione fra le imprese, cessava di verificarsi e il profitto di monopolio s’instaurava a spese della collettività dei consumatori deboli e disorganizzati»121. Proseguendo, concordava con Panunzio sulla necessità di promuovere un sistema misto:

117 Ivi, p. 248. 118

Ivi, p. 13.

119 Il primo scambio epistolare tra Di Nardi e Papi risale all’11 dicembre 1939. In questa circostanza, Papi rispondeva

positivamente ad una precedente lettera di Giuseppe Di Nardi che gli chiedeva la possibilità di incontrarlo. Afus, Adn, busta 62, fascicolo 423, lettera di Giuseppe Ugo Papi a Giuseppe Di Nardi dell’11 dicembre 1939.

120

S. Panunzio, L’economia mista, Hoepli, Milano 1936.

Manifestatasi di fatto la tendenza all’economia mista, col sorgere di forme nuove di impresa, in cui il capitale privato e quello statale sono compartecipi, e col prosperare di queste accanto alle forme tradizionali d’impresa; riconosciuto in via di principio che questa è la struttura che più si adatta all’economia dei nostri tempi ed affidato allo Stato il compito di sollecitare, con i provvedimenti di politica economica, l’avvento dell’economia mista, deontologicamente intesa, si pone il problema di ricercare il principio informatore dell’azione dello Stato, il che significa pure definire in termini rigorosi il principio economico a cui deve

obbedire la coesistenza delle varie forme di impresa determinanti l’economia mista122.

Secondo Di Nardi, questo principio informatore doveva essere «il conseguimento del massimo benessere (economico e sociale) per la collettività, non disgiunto dall’attuazione della giustizia sociale». Il riferimento al benessere lascia tra l’altro trasparire un collegamento con il pensiero di Arthur Cecil Pigou, il cui libro più celebre è proprio Economia del benessere123.

Tornando all’esame svolto da Di Nardi del volume di Panunzio, l’economista pugliese sottolineava che quello che si presentava allo Stato era dunque «un problema di distribuzione della ricchezza subordinato, però, al problema della massima produzione immanente ad ogni sistema economico»124.

Per conseguire il massimo di produzione, Di Nardi sosteneva che la struttura dell’economia nazionale dovesse essere organizzata secondo il principio del costo minimo di produzione, inteso come «la più economica combinazione dei coefficienti di fabbricazione, che significa ottenere ogni unità di prodotto col minimo consumo di energie produttive», il che significava «non quindi costi minimi in termini di moneta […], ma costi minimi in termini di lavoro»125. Anche questa attenzione al contenimento dei salari sarà uno degli aspetti ricorrenti del pensiero di Di Nardi.

In base a questa impostazione, lo Stato avrebbe dovuto farsi promotore di un sistema economico dove avrebbero dovuto agire attori privati e pubblici, animati da una mentalità “imprenditoriale”, «capaci di produrre a costi minimi»126. Imprese che, sempre ricollegandosi alle proposte di