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3. GLI ANNI SESSANTA: PROGRAMMAZIONE NAZIONALE SENZA PIANIFICAZIONE REGIONALE

3.5 Intervento straordinario e programmazione economica centralizzata

Nel corso della prima metà degli anni Sessanta l’intervento straordinario nel Mezzogiorno si indirizzò lungo la linea tracciata dalla legge 634 del luglio 1957 che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, intendeva incentivare lo sviluppo delle aree di sviluppo industriale (Asi) e dei nuclei di industrializzazione (Ni).

La legge 26 giugno 1965 n. 717 prolungò poi l’attività della Cassa per il Mezzogiorno, inquadrandola nell’ambito della programmazione nazionale. In questo senso, i risultati delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno dalla seconda metà degli anni Sessanta non sarebbero dipesi solo dall’azione della Cassa, ma anche dall’attuazione della programmazione economica, come del resto sottolineava lo stesso cda della Casmez451. Nel presente paragrafo terremo dunque conto dei due aspetti – azione della Cassa e riflessi della politica di programmazione per valutare i risultati dell’intervento straordinario negli anni Sessanta.

La legge n. 717 prevedeva un ulteriore impegno della Cassa per l’industrializzazione del Mezzogiorno. Era una direttiva che traduceva le conclusioni cui era giunta la sottocommissione industria della Casmez nel 1964, che di fronte alle difficoltà registrate dall’economia nazionale dal 1963, riteneva che un intervento in questa direzione nel Sud Italia avrebbe potuto fornire una nuova spinta alla crescita economica di tutto il Paese, risolvendo al contempo il problema della disoccupazione e della emigrazione meridionali452.

Partendo dai segnali di “congestione” industriale nell’Italia settentrionale e facendo affidamento sulla disponibilità delle imprese private ad impiantare la loro produzione al Sud in cambio di incentivi, la sottocommissione indicava come obiettivo da raggiungere entro il 1975 la piena occupazione a redditi non lontani da quelli percepiti dal resto del Paese. In termini numerici, si trattava di generare posti di lavoro per un minimo di 500.000 e un massimo di 800.000 lavoratori, ed un aumento del prodotto industriale a tassi compresi tra il 7 e il 9%453. Il processo di industrializzazione avrebbe dovuto seguire due strade. Da una parte la diffusione di piccole e medie industrie su tutto il territorio meridionale, dall’altra, come previsto dalla legge 634

451 Nella relazione al bilancio 1963-64, presentata in occasione della seduta del cda del 25 novembre 1964, il

vicepresidente della Cassa per il Mezzogiorno Cifarelli affermava che il Mezzogiorno era nella fase precedente

all’avvio di un processo autonomo di sviluppo che da quel momento in poi si sarebbe trattato «di provocare e accelerare lo sviluppo economico nell’ambito di una programmazione che tenga conto della misura in cui ogni settore dovrà svilupparsi e del luogo dove dovrà prevalentemente svilupparsi». Acs, verbali del cda della Casmez, vol. 356, verbale della seduta del 25 novembre 1964, p. 3018.

452 Nel 1964 parteciparono ai lavori della sottocommissione presieduta da Michele Cifarelli, Giuseppe Di Nardi,

Gandolfo Dominici, Massimo Severo Giannini, W. Giel, Mario Besusso, Augusto Graziani, Gino Martinoli, Mario Ruta, Paolo Vicinelli e Mario De Meis. Afus, Adn, busta 87, fascicolo 630, Cassa per il Mezzogiorno – sottocommissione per l’Industria.

del luglio 1957, proseguire con la costituzione di aree e nuclei industriali. Ovviamente, la loro ubicazione doveva rispondere a criteri economici. Secondo Di Nardi, ciò era però molto difficile in mancanza della elaborazione di piani di sviluppo regionale come «strumenti di conoscenza», perché in questo caso le scelte sarebbero state arbitrarie e dettate più dalla convenienza politica che economica. Al riguardo, il direttore dell’Ufficio studi della Camsez citava una riunione del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno svoltasi il 18 settembre 1963, in sui si era discussa la costituzione di aree e nuclei industriali a Reggio Calabria e ad Avezzano. Nel caso di Reggio Calabria, la spesa sarebbe stata 32 volte superiore ad Avezzano, perché «le industrie che vi si progettano non hanno per ora alcuna base naturale nella zona» ed inoltre sarebbero state costruite in sostituzione delle coltivazioni di bergamotto, che rappresentano invece una «tipica risorsa locale»454.

Secondo Di Nardi, lo stesso criterio di efficienza economica doveva guidare anche l’impiego delle industrie a partecipazione statale, che avrebbero potuto trainare lo sviluppo industriale di vaste aree. A questo fine rispondeva la decisione della Finsider di installare a Taranto il suo quarto polo siderurgico, dopo quelli di Cornigliano, Bagnoli e Piombino. Di Nardi aveva dato un giudizio positivo di questo investimento. La scelta di Taranto era giusta perché dovuta alla presenza di uno dei maggiori arsenali della marina militare e di un cantiere di costruzioni navali. Inoltre, dal punto di vista geografico, la città si collocava al centro del Mediterraneo ed era dunque funzionale alla conquista dei mercati del Medio Oriente e dei paesi africani. Infine, il retroterra di Taranto, costituito dalla Puglia, dalla Basilicata e dalla Calabria orientale, era interessato da un processo di industrializzazione che aveva il suo motore nello sfruttamento dei pozzi di metano di Ferrandina. Di Nardi riteneva dunque che

il metanodotto che da Ferrandina dispenserà il gas naturale alla regione pugliese, che è fra le più dinamiche del Mezzogiorno, lascia adito alla speranza di un non lontano sviluppo delle già progettate zone industriali di Bari, Brindisi e Taranto. Agricoltura in espansione ed energia a buon mercato fanno ritenere che, con l’ausilio delle provvidenze già in atto, che saranno sempre più rigorosamente coordinate in uno schema di programmazione dello sviluppo, la trasformazione economica della Puglia, della Basilicata e della Calabria, mediante una più decisa affermazione di nuove attività industriali, è fra le prospettive plausibili di un avvenire non lontano. Questo processo sarà certamente favorito dall’insediamento di una industria di base come la siderurgia. Nessuno può dire oggi in quale misura e con quale ritmo temporale potranno realizzarsi queste speranze, ma può ritenersi per fermo che la creazione del centro siderurgico di Taranto introduce una

componente fortemente dinamica in un ambiente già predisposto ad affrontare il cambiamento della sua struttura economica455.

Per consentire la trasformazione in senso industriale di questi territori erano però necessari due fattori ancora carenti: un capitale umano opportunamente formato e un sistema creditizio efficiente. Sul primo appunto Di Nardi aveva ripetutamente richiamato l’attenzione nel decennio precedente. Le indagini svolte dall’Ufficio studi sui risultati dei primi dodici anni di attuazione della Cassa per il Mezzogiorno avevano dimostrato che il deficit di capitale umano nel Sud Italia poteva comprometterne lo sviluppo, non solo generando carenza di personale qualificato, ma anche intaccando il tessuto civile della comunità. Grazie a queste rilevazioni la legge n. 555 del 19 luglio 1959 aveva autorizzato la Cassa a promuovere e finanziare attività a carattere sociale e educativo456. In questo quadro si collocava anche la costituzione nell’ambito della Casmez di una sottocommissione per il fattore umano, con il compito di orientare gli interventi nella formazione457. Il dibattito in questa sottocommissione riguardò principalmente il livello dell’intervento della Cassa, che doveva sottrarsi il più possibile a opere di edilizia scolastica (compito delle amministrazioni locali) facendo risaltare la propria “straordinarietà” in una attività di formazione successiva alla scuola dell’obbligo. Di Nardi suggeriva di orientare questa attività in direzione del settore industriale, in antitesi con una proposta, sostenuta in particolare da Gino Martinoli, mirante a predisporre corsi di formazione polivalenti458. L’esito del dibattito fu una relazione dell’8 gennaio 1964 firmata da Francesco Tagliamonte, direttore del Servizio Istruzione professionale della Cassa, che costituì la base del definitivo “Rapporto sui problemi del fattore umano nel Mezzogiorno” e che accoglieva entrambe le proposte suggerite da Di Nardi e da Martinoli, distinguendo tra l’attività di formazione da svolgere presso i poli di sviluppo economico a carattere industriale e le “zone di assestamento”459. Fu così rafforzato l’intervento della Cassa sul piano della formazione. Le

455

Afus, Adn, busta 33, fascicolo 284, copia di un articolo sul Polo di sviluppo di Taranto consegnato da Giuseppe Di Nardi al vicedirettore generale della Finsider Alberto Capanna il 25 agosto 1961, pp. 19-20.

456 Sul ruolo della Cassa per il Mezzogiorno per l’avvio di una politica culturale nel Mezzogiorno cfr. D. Telmon, Prime

note sulla politica culturale del Mezzogiorno, in «Rivista italiana di sociologia», n. 2, 1974, in particolare pp. 304-309.

457

Fecero parte della sottocommissione Franco Bernstein, Michele Cifarelli, Francesco Compagna, Giuseppe Di Nardi, Augusto Graziani, Gino Martinoli, Francesco Tagliamonte, Paolo Vicinelli, Francesco Simoncelli, Mario De Meis, Nino Novacco, Giovanni Silva. Afus, Adn, busta 87, fascicolo 629.

458 Ivi, seduta della Commissione consultiva della Cassa per il Mezzogiorno – Sottocommissione fattore umano, del 7

novembre 1963.

459 A livello finanziario, il programma delineato ammontava a 169 miliardi di lire. Il ritardo accumulato in questo

settore era tale che in base allo sviluppo economico previsto, si calcolava che entro il 1975 il meridione avrebbe avuto bisogno di 2.270.000 unità come personale qualificato, 95.000 dirigenti e quadri superiori, 34.000 quadri intermedi superiori e 16.000 quadri intermedi inferiori. La formazione avrebbe dovuto tener conto della differenziazione zonale tra poli di sviluppo economico a carattere industriale e “zone di assestamento”. Nelle prime, l’attività di formazione si sarebbe dovuta svolgere principalmente in centri interaziendali ubicati in zone di sviluppo industriale (Siracusa, Bari, Caserta, Chieti, Crotone, Cagliari e Reggio Calabria) cui si aggiungevano il Cife di Salerno in funzione dal 1959 e i centri interaziendali dell’Iri a Napoli e Taranto. Nelle seconde si doveva puntare soprattutto su centri di addestramento a carattere polivalente. A queste strutture si affiancavano, in funzione delle necessità del territorio, alcuni centri privati di

“Direttive per la predisposizione del primo piano pluriennale di coordinamento degli interventi pubblici nel Mezzogiorno”, approvate nel 1965 dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, prevedevano un aumento dei centri di formazione interaziendali coordinati, finanziati ed assistiti dalla Cassa sul piano amministrativo e tecnico didattico, mentre invitava a costituirne ex-novo nel settore turistico-alberghiero. A tal proposito, il 25 novembre dello stesso anno fu costituito un Comitato di coordinamento dei centri professionali interaziendali (Ciapi), presieduto dal direttore generale della Cassa e composto da rappresentanti dello stesso istituto, del comitato dei ministri per il Mezzogiorno, dell’Iri (precisamente dell’Iri Formazione Addestramento Professionale – Ifap), della Confindustria, del ministero del Lavoro, da un esperto sindacale e dai direttori dei sette centri interaziendali, cui si aggiunsero, in funzione di una convezione siglata nel dicembre 1965, anche due rappresentanti di Confindustria e dell’Istituto nazionale per l’addestramento ed il perfezionamento dei lavoratori dell’Industria (Inapli)460.

Come ha sottolineato Telmon, le indicazioni del “Rapporto sui problemi del fattore umano nel Mezzogiorno” troveranno inoltre rispondenza a livello normativo nella legge 717 e nel Piano di coordinamento del 1967461.

Per quanto riguarda il credito, la sottocommissione industria rilevava l’esigenza di un maggior coordinamento tra gli enti erogatori sotto la direzione alla Cassa. Due erano le problematiche cui si voleva in questo modo far fronte. La prima riguardava l’insufficiente raccordo tra le operazioni della Cassa e quelle del ministero dell’Industria. Quest’ultimo aveva provveduto a ridurre i tassi di interesse sul credito sia al sud che al centro-nord ed inoltre si era mostrato incline ad ammettere al beneficio del contributo tutte le richieste, purché rientranti nella classificazione industriale dell’Istat. La sottocommissione chiedeva invece un indirizzo volto a privilegiare l’industrializzazione nel meridione e una maggiore selezione delle operazioni industriali da sostenere462.

Il secondo problema riguardava la scarsa efficienza e trasparenza degli interventi condotti dagli istituti speciali di credito.

Da una riunione che Di Nardi tenne con i presidenti di Isveimer, Irfis e Cis il 5 marzo 1965, volta ad analizzare gli interventi creditizi in favore dell’industrializzazione del Sud, emerse da parte degli

addestramento nell’industria e nell’artigianato e centri di addestramento per le opere pubbliche e i servizi. Erano previsti inoltre un addestramento accelerato presso le aziende e una attività di aggiornamento degli istruttori. Afus, Adn, busta 87, fascicolo 629, Rapporto sui problemi del fattore umano nel Mezzogiorno del 10 febbraio 1964.

460 Acs, verbali del cda della Casmez, vol. 387, verbale dei 15 dicembre 1965, pp. 2045-2046. I sette centri

interaziendali avevano sede a Bari, Cagliari, Caserta, Crotone, Reggio Calabria e Siracusa. In quella stessa seduta del cda fu approvata una convenzione che, superando quella siglata tra Cassa e Confindustria nel 1962, prevedeva una collaborazione tra questi due istituzioni e l’Inapli nella gestione dei centri interaziendali.

461 D. Telmon, Prime note sulla politica culturale del Mezzogiorno, cit., p. 306. 462

Afus, Adn, busta 87, fascicolo 630, Cassa per il Mezzogiorno – sottocommissione per l’Industria, Bozza di rapporto sui problemi dello sviluppo industriale del Mezzogiorno, 1 febbraio 1964, p. 30.

istituti una carenza nell’acquisizione dei dati relativi alle iniziative finanziate e dei loro possibili sviluppi. Era un elemento che ovviamente comprometteva la possibilità della Cassa di valutare la solidità delle imprese costituite con finanziamenti agevolati nell’ambito dell’intervento straordinario e di conseguenza pianificare l’intervento finanziario per il decennio 1965-1975463. Questa mancanza di raccolta dei dati convinceva ancor di più Di Nardi della necessità di individuare nella Cassa un centro non solo di coordinamento delle attività ma anche di raccolta

delle informazioni, necessario per programmare interventi efficaci464.

In realtà, proprio sulla base di queste considerazioni, il sistema degli incentivi fu riformato, sulla base di un unico testo legislativo che concentrava i poteri decisionali in un solo organo, il Cipe, cui sarebbe spettata la gestione del Fondo per lo sviluppo economico. Come scriveva Antonio Giolitti, «da tale unificazione dovrà derivare un efficiente coordinamento dell’attività di tutti gli organi e istituti che intervengono nella concessione degli incentivi, fino a giungere alla unificazione delle procedure di istruzione delle relative operazioni465». Di fatto, si cominciavano ad erodere le capacità di elaborazione e attuazione degli interventi della Cassa, che costituiranno un fattore di forte criticità negli anni Settanta.

Dal canto suo, anche la Casmez cominciava comunque a manifestare dei deficit interni nella elaborazione di programmi d’azione ponderati sulla base di una attenta analisi dei dati. Dalla descrizione che ne fornisce Di Nardi, la prassi era infatti quella di presentare e discutere piani molto approssimativi. Si evince dalle sue considerazioni in merito alla relazione sui problemi dello sviluppo agricolo del Mezzogiorno discussa in una seduta plenaria del 4 gennaio 1964, in base alla quale la Cassa avrebbe assunto i poteri del Ministero dell’agricoltura e le funzioni dei consorzi di bonifica nei settori della bonifica e della trasformazione fondiaria, agendo mediante propri organismi locali. Si trattava di una evoluzione importante perché segnava il passaggio da problemi affrontati per gruppi di opere ad azioni dirette su zone omogenee. In maniera molto ambiziosa, la relazione puntava ad un innalzamento della produttività dell’agricoltura466. Di Nardi riteneva che tuttavia gli obiettivi fossero posti «male e superficialmente», senza una meditazione condotta sulla base di analisi approfondite, necessarie per definire una programmazione a lungo termine. Inoltre – ed è un punto che sottolineiamo perché investe la concezione di Di Nardi in merito ai limiti dell’intervento pubblico – rimproverava alla Cassa di realizzare opere pubbliche talvolta inutili perché non concepite a partire da una effettiva domanda del territorio, e di sopravvalutare la

463 Afus, Adn, busta 88, fascicolo 634, Promemoria di Giuseppe Di Nardi per il Direttore Generale della Cassa per il

Mezzogiorno del 26 aprile 1965.

464 Afus, Adn, appunto del 17 marzo 1960 riprodotto in allegato.

465 A. Giolitti, Il Mezzogiorno nel programma quinquennale (1965), in M. Carabba (a cura di), Mezzogiorno e

programmazione (1954-1971), cit., p. 547.

466

Afus, Adn, busta 87, fascicolo 631, Cassa per il Mezzogiorno, Sottocommissione per l’Agricoltura, Rapporto sui problemi dello sviluppo agricolo del Mezzogiorno, datato 28 dicembre 1963.

capacità che gli interventi esterni avessero di stimolare la trasformazione delle aziende locali467. Un altro settore in cui i tecnici della Cassa suggerivano di potenziare gli investimenti era il turismo, che fino all’inizio degli anni Sessanta si era concentrato in alcune città del centro-nord come Roma, Firenze, Venezia e sulla riviera adriatica. Secondo un rapporto elaborato nel 1964 dalla relativa sottocommissione della Casmez, un adeguato programma di sviluppo di questo settore avrebbe portato ad un contributo compreso tra il 2 e il 4% sull’economia complessiva del Mezzogiorno. Gli investimenti nel settore turistico sarebbero stati investimenti aggiuntivi, e non alternativi, a quelli di altri settori produttivi. Una condizione che non convinceva Di Nardi, il quale riteneva che se il turismo avesse registrato un rendimento marginale maggiore, avrebbe potuto godere anche di

467

Al fine di comprendere il punto di vista critico di Di Nardi nei confronti dell’operato della Cassa, vale la pena riprodurre parte di un manoscritto sulle sue osservazioni in merito alla discussione. «Punti focali della relazione agricoltura. 1°) Vi è posto solo per attività che consentano retribuzioni del capitale e del lavoro non molto lontane da quelle conseguibili in altri settori. Osservo: è un obiettivo troppo ambizioso e sfocato. Non è vero che il capitale investito in terre richieda un saggio di remunerazione pari agli altri investimenti, che sono generalmente mobiliari. Lo ha spiegato più volte Einaudi e lo ha rispiegato Amoroso. Per il lavoro il discorso è diverso: fugge dalla terra il lavoratore giovane che tende ad inurbarsi e non soltanto per sete di guadagno, ma anche per avidità di una presunta vita migliore. Dunque, gli obiettivi sono posti male e superficialmente. 2°) Le modifiche strutturali necessarie al conseguimento di tali obiettivi possono aversi solo mediante interventi dall’esterno. Contesto la validità generale di questa affermazione. Essa regge per le opere pubbliche e non potrebbe essere altrimenti, ma anche le opere pubbliche vanno commisurate ad una domanda effettiva delle stesse e non ad un astratto disegno, che muova da obiettivi arbitrariamente stabiliti, come purtroppo spesso di è fatto in passato, con la conseguenza di vedere inutilizzati e logorati dal tempo cospicui interventi fissi. In quanto alla trasformazione delle aziende si presume nel rapporto fra gli invocati

interventi dall’esterno siano tali da arrivare capillarmente a stabilire per le singole aziende l’orientamento delle produzioni, l’inserimento del progresso tecnico, l’adeguamento delle strutture dell’impresa agraria. Nobile ed ispirato disegno, indubbiamente, che tuttavia resta largamente utopistico, perché, ad esempio, non tiene conto in nessun modo di esperienze già vissute, come quelle dell’Onc e degli Enti di riforma agraria. Anche questi obiettivi sono posti con superficialità e leggerezza, senza un preventivo vaglio critico, che muova dalle esperienze vissute e sulla scorta di esse valuti i metodi e le dimensioni degli interventi da suggerire. 3°) Si accetta il dato di comune osservazione della estrema varietà di situazioni, non solo per le caratteristiche culturali dell’ambiente, ma anche per la sovrapposizione di millenari processi storici e sociali e senza alcuna precisazione di metodo si afferma con estrema disinvoltura che la Commissione ha approfondito (non si sa come!) il tema degli “ambienti tipici omogenei” e si accetta, da una relazione soltanto orale (e fatta a sciabolate) del prof. Rossi-Doria la classificazione assai sommaria di sei tipi ambientali. La contraddizione fra premessa e conclusione è evidente e lo è tanto più in quanto manca qualsiasi indicazione del procedimento adottato per ridurre la molteplicità all’unità. 4°) Quando si passa all’indicazione delle “linee di sviluppo agricolo per zone omogenee” si coglie un’altra perla: - a parte il fatto che la Commissione non ha compiuto quella approfondita (ma soltanto molto sommaria) analisi delle caratteristiche specifiche e delle possibilità di evoluzione dei vari tipi ambientali e meno ancora delle dinamiche in atto e in potenza nelle singole zone, non si comprende come si possa da ipotetiche

valutazioni sulle produzioni conseguibili, sui redditi e sul rapporto fra fabbisogno di lavoro e numero di addetti desumere una programmazione a lungo termine dell’agricoltura meridionale. In particolare si domanda: quando si

vuole impostare una programmazione a lungo termine è lecito partire da così sommarie valutazioni ipotetiche o non occorra invece definire esattamente in termini quantitativi la realtà da modificare e tracciare, sempre sulla scorta di valutazioni legate ai dati tecnici di partenza, il processo temporale della modificazione programmata, in modo da poterlo vagliare nelle sue consecutive attuazioni? Cosa valgono questi piani sommari, che partono da un mal definito stato iniziale e prospettano soltanto un ipotetico stato finale, senza adeguata considerazione analitica del processo e dei