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3. GLI ANNI SESSANTA: PROGRAMMAZIONE NAZIONALE SENZA PIANIFICAZIONE REGIONALE

3.3 Di Nardi vs Saraceno

Come abbiamo visto, era ormai diffusa la percezione che occorresse porre rimedio alle distorsioni prodotte dalla crescita economica con l’elaborazione di piani di sviluppo. Inizialmente con Colombo fu annunciata l’elaborazione di piani di sviluppo regionale che aprivano necessariamente la strada alla elaborazione di un programma economico nazionale385.

Il tema divenne caldo quando nell’aprile 1960 il presidente del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, Giulio Pastore, nella sua relazione annuale sottolineò le difficoltà incontrate nell’armonizzare le politiche di sviluppo attuate negli anni Cinquanta nell’ambito di una politica economica unitaria386. A seguito della relazione di Pastore, dal 25 gennaio all’8 febbraio 1961 si sviluppò un dibattito parlamentare che portò all’approvazione di una mozione con cui il governo si impegnava a presentare «uno schema di sviluppo nel quadro di una politica nazionale, coordinata in ogni campo, decisamente rivolta all’eliminazione dei dislivelli e delle strozzature che [impedivano] di saldare l’economia del Mezzogiorno e delle altre aree sottosviluppate con quella in sviluppo crescente in altre parti d’Italia»387.

Il 20 marzo il governo presieduto da Fanfani istituì una Commissione incaricata di elaborare uno Schema organico di sviluppo nazionale dell’occupazione e del reddito. Richiamiamo l’attenzione su due elementi. Il primo consisteva nell’obiettivo di elaborare uno “schema” di sviluppo nazionale, che già nei termini ricordava il piano Vanoni, vale a dire un approccio alla programmazione meramente indicativo. Il secondo elemento è che a presiedere la commissione fu nominato uno dei maestri di Di Nardi, vale a dire Giuseppe Ugo Papi, che già nel 1953 intervenendo all’Accademia dei Lincei aveva chiarito la distinzione tra una programmazione indicativa (a cui aderiva) ed una programmazione prescrittiva388. Giuseppe Di Nardi, in virtù dei suoi numerosi scritti dedicati al

385

Sulla esperienza della programmazione economica cfr. F. Di Fenizio, La programmazione economica (1946-1962), Utet, Torino 1965; S. Lombardini, La Programmazione. Idee, Esperienze, Problemi, Einaudi, Torino 1967; M. Carabba,

Un ventennio di programmazione (1954-1974), Laterza, Bari 1977; Id. (a cura di), Mezzogiorno e Programmazione (1954-1971), Giuffré, Varese 1980; C. Cristiano, Come si fa politica di programmazione. Pasquale Saraceno e i lavori della Commissione nazionale della programmazione economica, in «Rivista italiana degli economisti» n. 2, 2006, pp.

279-307; F. Lavista, La stagione della programmazione. Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, Il Mulino, Bologna 2010.

386 S. Zoppi, La classe dirigente meridionale e il fattore umano negli anni 1958-1965 nel progetto del ministro Giulio

Pastore, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», n. 4, 2002, pp. 1391-1432; S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), cit., pp. 65-67.

387 F. Lavista, La stagione della programmazione. Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, cit., p.

298.

388

G.U. Papi, G. Luzzatto, P. Greco (a cura di), Pianificazione economica in regime democratico. Relazioni e

problema, fu chiamato dal suo maestro a prendere parte ai lavori389.

L’impostazione fu data da un documento preparato da Di Fenizio – altro economista che aderiva ad un orientamento di programmazione indicativa – a partire dall’andamento registrato dalle principali grandezze dell’economia nazionale nel decennio 1950-1960, dalla cui analisi sarebbe scaturita una proiezione macroeconomica per il decennio successivo e una programmazione settoriale. Lavista e Misiani hanno evidenziato la presenza di due diversi orientamenti all’interno della Commissione Papi. Da un lato chi, come Saraceno, «considerava la programmazione uno strumento di diretto intervento nell’economia», per cui era necessario predisporre un modello fortemente disaggregato per aree geografiche e per settori. Dall’altro chi, come Papi e Di Fenizio, propendeva per modelli più aggregati, sul modello dello Schema Vanoni, perché «vedevano la pianificazione molto più semplicemente come un insieme di previsioni dalle quali derivare degli orientamenti per i tradizionali strumenti di intervento pubblico nell’economia»390. Essi propendevano per una «programmazione indicativa», che prevedeva tre fasi: l’indagine degli andamenti dell’economia per determinare un modello di previsione, l’elaborazione di strumenti atti a raggiungere i risultati prefissati nella prima fase e, infine, la redazione dei consigli di politica economica per il governo. Come è intuibile da quanto abbiamo già detto, in questo schieramento si collocava anche Di Nardi. A parte la concezione della programmazione economica come “guida” dell’iniziativa privata esposta ad inizio paragrafo, egli non condivideva neanche l’orientamento sostenuto da Pasquale Saraceno secondo cui a partire dai dati disaggregati si sarebbero individuate le posizioni di equilibrio su cui redigere il programma economico nazionale. Su questo punto riemergeva la formazione alla scuola di Demaria e in particolare il riferimento al principio di indeterminatezza.

389

La documentazione archivistica e i lavori finora pubblicati non chiariscono l’articolazione della Commissione Papi, così come i membri che ne fecero parte. Si sa che essa tenne cinque sessioni plenarie tra l’aprile e l’ottobre 1961. Per quanto riguarda le sottocommissioni, Lavista ne riporta sei: proiezioni macroeconomiche per il decennio 1960-70 (coordinatore: Di Fenizio); prospettive demografiche e delle forze di lavoro (Parenti); produttività dell’industria e problemi settoriali (Saraceno); politica di sviluppo in agricoltura (Bandini); politica della bilancia dei pagamenti e relazioni internazionali (Guidotti); politica dei trasporti e delle comunicazioni (Della Porta). F. Lavista, La stagione

della programmazione. Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, cit. p. 298, nota 5. Misiani ne riporta

invece sette, aggiungendo una sottocommissione Turismo (Tagliacarne). S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica,

programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro Molinari, cit. p. 260, nota 146. Nella documentazione

archivistica conservata presso l’Istituto Sturzo compaiono invece altre due sottocommissioni: Risparmio e credito (A. Gambino) e Settore pubblico (dove non compare però il nominativo del responsabile). Quest’ultima sottocommissione era suddivisa in altri gruppi di lavoro, tra cui sicuramente partecipazioni statali e programmazione regionale, in cui era stato inserito Di Nardi. l’Istituto Luigi Sturzo, Archivio Storico, Segreteria Politica, Atti dei segretari, 8. Aldo Moro, scatola 95, fascicolo 27. Incrociando le informazioni, risultano aver partecipato ai lavori della Commissione, oltre a Papi e Di Nardi: Luigi Americo, Stanislao Ceschi, Cesare Cosciani, G.M. Di Simone, Lorenzo Isgrò, Mario Bandini, Ugo Caprara, A. Gambino, Glauco Della Porta, Ferdinando Di Fenizio, Franco Feroldi, G. Frisella Vella, Innocenzo Gasparini, Silvio Golzio, Salvatore Guidotti, Libero Lenti, Gastone Miconi, Alessandro Molinari, Giuseppe Parenti, Giannino Parravicini, Francesco Parrillo, Pasquale Saraceno, Gaetano Stammati, Guglielmo Tagliacarne, Bruno Tenti, Volrico Travaglini e Giovanni Landriscina.

390 F. Lavista, La stagione della programmazione. Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, cit., p.

302. Per le divergenze tra le due visioni in seno alla Commissione si veda anche S. Misiani, I numeri e la politica.

Sul rapporto tra indeterminatezza e pianificazione economica, del resto, Di Nardi si era già espresso nel 1948, sottoponendo ad una severa critica lo schema di pianificazione delineato da Carl Landauer in Theory of National economic planning391

[…] Già altra volta ci fu dato di osservare che le fluttuazioni cicliche sono intimamente connesse alla “indeterminazione dinamica”, che nel sistema economico è moltiplicata dalle relazioni di interdipendenza [il riferimento era allo scritto Interdipendenza e indeterminazione dinamica nella teoria economica, 1942], per cui ci parve legittima la conclusione a cui pervenne il Demaria circa tre lustri orsono che “qualunque sforzo venga tentato per determinare il livello e il grado o le quantità di equilibrio è votato ad un insuccesso più o meno completo”. La pianificazione impostata sulla determinazione quantitativa a priori delle posizioni di equilibrio economico risulta pertanto legata ad ipotesi non verificabili. È razionalmente fondata perciò la presunzione che qualunque tentativo volesse farsi per renderla operante in concreto sarebbe votato

all’insuccesso, cioè a non conseguire i fini da cui muove […]392.

Ecco dunque che la posizione di Di Nardi in merito alla programmazione economica finiva per essere ispirata dagli insegnamenti di tutte e due i suoi maestri.

Ma c’è un altro aspetto che ci interessa soprattutto sottolineare in relazione all’impegno di Di Nardi nell’ambito della Commissione Papi.

Il 10 luglio il ministro del Bilancio Giuseppe Pella inviò a Papi una lettera in cui chiedeva di focalizzare l’attenzione della commissione su una serie di aspetti di cui tener conto sia per l’elaborazione di orientamento programmatico decennale che per una programmazione operativa più a medio termine. Tra questi aspetti figuravano lo sviluppo del reddito nazionale, la sua distribuzione, la politica per il Mezzogiorno, la stabilità monetaria, la bilancia dei pagamenti, gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, le condizioni ambientali, la politica economica generale, il livello dei consumi e dei risparmi, la situazione agricola, l’istruzione professionale, le esportazioni, le fonti di energia ecc. Ma, e questo è ciò che ci interessa, richiamava anche l’attenzione sul rapporto tra piano nazionale ed elaborazione di piani regionali.

Il compito fu affidato a Di Nardi nell’ambito di un gruppo di lavoro sulla programmazione regionale, di cui faceva parte anche Manlio Rossi Doria, che tra l’altro sostenne una posizione sul rapporto tra programmazione nazionale e regionale molto vicina a quella di Di Nardi393. In una memoria redatta per la Commissione, l’economista pugliese ribadiva così la centralità della dimensione regionale, scrivendo che «i piani regionali di sviluppo sono dunque suscitati dalla

391 C. Landauer, Theory of National economic planning, University of California Press, Los Angeles 1944.

392 G. Di Nardi, Osservazioni intorno a una teoria della pianificazione democratica (1948), in Id, Il controllo sociale

dell’economia, cit., p. 248.

conformazione del nostro stesso ordinamento e lo saranno ulteriormente a mano a mano che l’attuazione della Costituzione porterà al riconoscimento delle regioni a statuto normale, che si aggiungeranno a quelle già rette da statuti speciali»394.

I lavori della Commissione furono penalizzati dalla contrapposizione tra opposte visioni, riconducibili a Papi e Saraceno. Lo evidenziano le memorie di quest’ultimo. Nel giugno del 1962 Saraceno presentò un programma di ricerche redatto in ambito Svimez, che, come scrisse, «credetti di comprendere accettato da tutti e che poi ho visto disatteso in modo totale in una riunione tenutasi a distanza di pochi giorni, senza che di questo mutamento – dal quale doveva prendere avvio il lavoro di un gruppo di esperti “econometrici” che era in grado di riunirsi a Roma a sole 24 ore dalla riunione della Commissione – io abbia avuto, né allora né poi, alcuna valida spiegazione». Saraceno ne concluse che «tra la concezione che aveva presieduto alla redazione del documento Svimez e quella che invece aveva determinato l’indirizzo di fatto seguito, vi fosse una divergenza tale di opinioni che, se non ha impedito l’ulteriore collaborazione, ha però dato a me la ferma persuasione che dai lavori della Commissione non sarebbero potuti derivare i necessari elementi per quell’azione concreta di Governo ai cui fini la Commissione era stata costituita»395.

La relazione finale fu presentata al ministro Pella il 19 febbraio 1962, con il titolo Proposte per uno

schema organico di sviluppo dell’economia e del reddito.

Il documento affermava che la programmazione doveva inserirsi nell’ambito di una economia di mercato aperta al commercio con l’estero e tenendo conto del processo di integrazione europea, favorendo la partecipazione delle iniziative statali o pubbliche in forma integrativa e sostitutiva dell’iniziativa privata396. Sulla base di un modello macroeconomico aggregato elaborato dal gruppo di lavoro coordinato da Di Fenizio a partire dalle grandezze registrate dalla contabilità nazionale nel decennio 1951-60 – vale a dire di un decennio di sviluppo che però, proprio nel 1962, cominciava a chiudersi – furono presentate tre ipotesi di crescita entro il 1970, in funzione di tre probabili

394

Afus, Adn, busta 34, G. Di Nardi, Contenuti e limiti dei piani regionali di sviluppo, memoria per la Commissione Papi datata 4 gennaio 1962, p. 5.

395 Acs, Cps, busta 113, fascicolo “Commissione Papi, occupazione e reddito”, sottofascicolo “Corrispondenza con prof.

Ugo Papi a proposito dei lavori della Commissione per la elaborazione di uno schema organico di sviluppo nazionale della occupazione e del reddito”, lettera di Pasquale Saraceno a Giuseppe Ugo Papi del 13 settembre 1962. Il documento Svimez in effetti prevedeva un grado di disaggregazione delle grandezze che non corrispondeva all’indirizzo di Papi. Acs, Cps, busta 113, fascicolo “Commissione Papi, occupazione e reddito”, sottofascicolo “Corrispondenza con prof. Ugo Papi a proposito dei lavori della Commissione per la elaborazione di uno schema organico di sviluppo nazionale della occupazione e del reddito”, “Sulla elaborazione di proiezioni macroeconomiche per l’Italia”, appunto redatto dalla Svimez in occasione della riunione ristretta della “Commissione Papi” del 28 giugno 1961.

396 G.U. Papi, Proposte per uno schema organico di sviluppo dell’economia e del reddito, rapporto presentato al

ministro del Bilancio Giuseppe Pella il 19 febbraio 1962, in Ministero del Bilancio, La programmazione economica in

rapporti tra capitale e reddito397. Presentato il rapporto, la commissione rassegnò le dimissioni nel marzo 1962.

Tuttavia, l’avvio del dibattito sulla formazione di un governo di centrosinistra organico avrebbe mutato anche l’indirizzo da seguire per la elaborazione del programma economico nazionale, favorendo il salto da una posizione indicativa tipica dell’epoca del centrismo, ad un indirizzo prescrittivo, dunque più centralizzato e basato su un maggiore intervento dello Stato. Ad incarnare questa posizione, sostenuta per un brevissimo periodo dalla Dc, fu Pasquale Saraceno.

Saraceno aveva pubblicamente espresso le sue posizioni al Primo Convegno nazionale di studio della Democrazia cristiana svoltosi dal 13 al 16 settembre 1961 a San Pellegrino. Egli prefigurava infatti una politica di piano per favorire «l’unificazione economica del Paese», attraverso un complesso sistema che prevedeva misure volte a favorire il dislocamento nel Sud dell’iniziativa privata (attraverso misure fiscali, creditizie, doganali e incentivi atti a determinare una diversa allocazione degli investimenti) e pubblica. Oltre ad intensificare l’impegno nei settori tradizionali (creazione di infrastrutture, piani urbanistici per rispondere allo spostamento di popolazione, formazione di capitale umano ecc.) egli faceva particolare affidamento sulla possibilità di poter indirizzare gli investimenti delle aziende a partecipazione statale398.

Per stessa successiva ammissione di Saraceno, la sua relazione a San Pellegrino non prevedeva un raccordo tra programma nazionale e piani di sviluppo regionali399. Si trattava di una impostazione della programmazione economica dunque differente da quella proposta da Di Nardi. Se per quest’ultimo i piani regionali costituivano la base indispensabile su cui costruire il programma nazionale, per Saraceno e in generale l’ambiente Svimez i due ambiti potevano procedere slegati e potenzialmente dunque in opposizione. Di Nardi rilevava la differenza e riteneva che questo secondo approccio portasse alla elaborazione di un piano di sviluppo regionale «di ispirazione

397 V. Valli, Politica economica. Teoria e politica dello sviluppo. Il caso italiano, La Nuova Italia scientifica, Roma

1993, pp. 374-376. Le tre ipotesi prevedevano tassi di incremento del pil del 4,53% (rapporto marginale capitale-reddito pari a 5,2, propensione al consumo pari al 78,5% del reddito), del 5,50% (rapporto capitale reddito pari a 4,2, propensione al consumo sempre al 78,5%) e del 6,53% (rapporto capitale reddito del 3,8, propensione al consumo sempre al 78,5%).

398

P. Saraceno, Lo Stato e l’economia, in Il convegno di San Pellegrino, Atti del I convegno nazionale di studio della

Democrazia cristiana, 13-16 settembre 1961, Roma 1962, pp. 173-218.

399 «[…] Notisi poi che, rispetto al tempo di S. Pellegrino, il passaggio alla programmazione si è fatto oggi molto più

complesso non soltanto per l’espansione che si è avuta nella domanda di una efficiente azione pubblica, ma anche perché si è reso chiaro un aspetto pressoché assente nella primitiva concezione dell’azione di sviluppo; si è infatti reso chiaro che sviluppo economico e organizzazione del territorio sono due aspetti dello stesso problema e che la mancata considerazione del secondo aspetto vanifica i progressi che le statistiche ci dicono essere stati conseguiti sotto il primo. E quindi, opportunamente, programmazione nazionale e programmazione regionale – collegamento non considerato a S. Pellegrino e di importanza decisiva nei problemi del territorio – sono sottoposti alla nostra attenzione in una apposita relazione […]»; P. Saraceno, I problemi dell’economia italiana; superamento della crisi e nuove prospettive di sviluppo

sociale, bozza dell’intervento introduttivo tenuto al Convegno di Perugia del 9-12 dicembre 1972 sul tema “I problemi

dell’economia italiana: superamento della crisi e nuove prospettive di sviluppo sociale”, pp. 8-9, in Acs, Cps, busta 109, fascicolo contenente il materiale relativo al “Convegno Dc Perugia”, sottofascicolo “Convegno Dc Perugia”, “bozze dattiloscritte dell’introduzione di P. Saraceno ai lavori del Convegno.

rivendicativa, che frammenta l’unità del sistema economico e che pone lo sviluppo di una regione come obiettivo a sé»400.

Ma come detto Saraceno, con la sua impostazione, stava ormai divenendo il punto di riferimento nel dibattito sulla programmazione economica, come testimoniava anche un’ampia sintesi che Giuseppe Medici redasse del suo intervento a San Pellegrino per “La Stampa”401.

Questa centralità gli fu riconosciuta nell’ambito del quarto governo Fanfani, che non a caso era retto per la prima volta dall’appoggio esterno dei socialisti. Il cammino verso il centrosinistra organico passava dunque per una programmazione prescrittiva, che trovò espressione nella “Nota aggiuntiva” alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese per l’anno 1961, presentata dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa il 22 maggio 1962. Si trattava del primo documento ufficiale di programmazione economica a medio termine. Il titolo della Nota – alla cui elaborazione aveva contribuito proprio Pasquale Saraceno, insieme ad altri economisti tra cui Paolo Sylos Labini e Francesco Forte402 – era “Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano”. Il documento sottolineava l’esigenza di riportare in equilibrio il sistema economico italiano, caratterizzato da squilibri tanto territoriali (fra Centro-Nord e Meridione, tra centri urbani maggiori e centri piccoli e medi) e settoriali (fra agricoltura e industria). In dettaglio, la Nota richiedeva di aumentare i livelli di efficienza dell’agricoltura, promuovere l’industrializzazione dell’Italia meridionale e di alcune aree dell’Italia centro-orientale, adottare misure di riqualificazione urbana, espandere i consumi pubblici. A questa politica di piano finalizzata al sostegno della domanda aggregata e a correggere gli squilibri territoriali, si affiancava una poltiica dei redditi da attuare attraverso un adeguiato prelievo fiscale, l’adeguamento della dinamica salariale alla produttività, il perseguimento della stabilità monetaria e la nazionalizzazione di settori ritenuti di interesse generale, come sarebbe stato per l’energia elettrica con la nascita dell’Enel, prevista dalla legge 6 dicembre 1962.

Il documento prevedeva il coinvolgimento delle imprese private e dei sindacati nella elaborazione delle politiche di programmazione, con la «volontà di iniziare a sottrarre le rappresentanze degli interessi degli imprenditori e dei lavoratori alla semplice e immediata considerazione della dinamica di un mercato spontaneo, che quotidianamente pone i suoi problemi, per fissarle su prospettive più

400 Afus, Adn, appunto del 9 ottobre 1964 riprodotto in allegato. Di Nardi spiegava che gli ambienti Svimez

elaboravano i loro piani di sviluppo regionale a partire dalla forza lavoro disponibile in una regione e dunque dagli investimenti necessari per creare un determinato numero di posti di lavoro, che avrebbero determinato a loro volta un determinato tasso di crescita. Si trattava di una concezione che mutuava per il livello regionale l’impostazione del piano Vanoni, poiché aveva l’obiettivo di realizzare la piena occupazione delle forze di lavoro dove esse si trovavano. In questo modo però si giungeva alla elaborazione di piani regionali indipendentemente dalle indicazioni del piano economico nazionale. In questa concezione, i due piani – regionale e nazionale – erano dunque slegati e concorrenti. Nel caso di Di Nardi, come abbiamo detto, i piani regionali erano invece funzionali alla elaborazione di un piano nazionale.

401

G. Medici, L’intervento dello Stato e l’iniziativa privata, in “La Stampa”, 20 settembre 1961.

generali, più di fondo e più a lungo termine»403.

È un aspetto importante perché evidenziava l’intenzione di attuare una programmazione a forte guida statale, che certamente si basava sulla compresenza di pubblico e privato, ma laddove lo Stato intendeva indirizzare l’azione dei privati al di là di criteri di convenienza economica. Il documento esprimeva dunque una linea di pensiero più avanzata rispetto a quanto fino a quel momento espresso dai governi centristi, tanto che nel dibattito parlamentare l’esecutivo fu accusato di perseguire una «programmazione autoritaria»404.

Si trattava di una concezione della programmazione che presupponeva anche una diversa impostazione del lavoro della Commissione. La Nota evidenziava come la Commissione Papi non si fosse trovata nelle condizioni di poter disporre dei dati statistici necessari per la preparazione di un modello disaggregato per regioni e settori, facendo dunque proprie le critiche di Pasquale Saraceno405. Prefigurando invece il passaggio da una programmazione indicativa ad una programmazione prescrittiva, la Nota esigeva proprio quel livello di analiticità richiesto da Saraceno, che non a caso divenne il vicepresidente della Commissione, presieduta dal ministro del