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4. DEFORMAZIONE DEL SISTEMA E NECESSITÀ DI UN “ALTRO” “NUOVO MERIDIONALISMO”

4.1 Fermi tra capitalismo e socialismo

Gli anni del centrosinistra furono caratterizzati dall’attuazione di riforme volte ad allargare lo spettro dei diritti sociali riconosciuti e dunque protetti dallo Stato500.

Emblematiche a tal proposito furono la riforma saniatrai e quelle pensionistiche.

Con la legge 12 febbraio 1968, redatta dal ministro della Sanità Luigi Mariotti del Psi, le istituzioni ospedaliere, ancora regolate dalla legislazione del 1890 come istituzioni di assistenza e beneficenza, furono trasformate in enti pubblici e inserite all’interno di una organizzazione settoriale di programmazione sanitaria nazionale e regionale. In questo modo, lo Stato si dotava di una rete ospedaliera pubblica, ponendo le premesse per l’istituzione, dieci anni più tardi, del servizio sanitario nazionale.

Alla riforma delle pensioni furono dedicati invece tre provvedimenti. Il primo istituiva un Fondo sociale per la corresponsione a tutti i lavoratori dipendenti e autonomi di una pensione minima. Un secondo provvedimento estese poi ai lavoratori autonomi del commercio il regime pensionistico già riconosciuto ai lavoratori autonomi dell’agricoltura e dell’artigianato. Al termine della quarta legislatura, fu approvata una nuova riforma del sistema pensionistico che determinava al 65% dello stipendio percepito nell’ultimo triennio la pensione per i lavoratori dipendenti. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inzio degli anni Settanta l’economia italiana evidenziò segni di crescente difficoltà501. Di Nardi attribuì la responsabilità ad una “deformazione” del sistema, conseguenza del diverso indirizzo che il centrosinistra stava dando all’intervento pubblico, non più indirizzato a scopi eminentemente produttivistici.

500 Per le conseguenze di questa concezione sulla configurazione del modello di welfare italiano e più ampiamente

europeo continentale cfr. A. Ferrera, Ancora sostenibile? Dilemmi e prospettive del welfare europeo, in «Paradoxa» 4/2012, pp. 126-139.

501

Sulla crisi economica italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta cfr. R. Antinofli, La crisi

economica italiana 1969-1973, De Donato, Bari 1974; N. Andreatta, Cronache di un’economia bloccata (1969-1973),

Il Mulino, Bologna 1973; Aa. Vv., La congiuntura più lunga: materiali per una analisi della politica economica

italiana:1972-1974, Il Mulino, Bologna 1974; M. Salvati, Il sistema economico italiano. Analisi di una crisi, Il Mulino,

Bologna 1975; A. Graziani (a cura di), Crisi e ristrutturazione nell’economia italiana. Diciotto interventi, Einaudi, Torino 1975; F. Reviglio, Spesa pubblica e stagnazione dell’economia italiana, Il Mulino, Bologna 1977.

È un elemento che emerge con chiarezza nella «lettera ad un amico», indirizzata nel 1972 al presidente del Crediop Francesco Piga502.

Secondo l’economista pugliese, durante i governi di centrosinistra il sistema economico italiano aveva «cambiato i suoi connotati». Infatti

Esso non è più certamente un sistema capitalistico, fondato prevalentemente sull’iniziativa privata. Da tempo è una economia mista, a due settori, uno pubblico e uno privato. Tuttavia la delimitazione fra le due zone si sposta frequentemente nel tempo. Nell’ultimo decennio la dinamica espansiva del settore pubblico è stata

molto forte, ma non tanto forte da poter assimilare il nostro sistema alle economie socialiste503.

Occorre chiarire che Di Nardi utilizza ora l’espressione “economia mista” con una diversa accezione rispetto al passato. Prima del centrosinistra essa indicava un sistema dove operavano sia imprenditori pubblici che privati. Lo Stato era essenzialmente un produttore di beni e si muoveva secondo una logica imprenditoriale, per cui l’economia era pienamente capitalista (pur prevedendo un mix di imprenditori pubblici e privati). Ora, dopo la nascita del centrosinistra, Di Nardi utilizzava l’espressione economia mista per indicare un sistema “ibrido” tra capitalismo e socialismo, in cui lo Stato aveva cessato di ragionare secondo una logica imprenditoriale, estendendo la sua presenza alla fornitura di prestazioni sociali.

In un sistema come questo, la capacità di intervento dei tecnici era estremamente ridotta. Infatti era

necessario prendere atto che gli esperti dispongono di strumenti conoscitivi strettamente legati alla logica di un sistema, privatistico o socialista e non possiedono esperienza sufficiente per interpretare la fenomenologia dei sistemi misti, fortemente dinamici, perché largamente dipendenti dalla mutevolezza imperscrutabile del

potere, esercitato con arbitrio, rispetto alla logica funzionale dei sistemi economici504.

In sostanza, tecnici e politici non condividevano più le stesse regole del gioco e ciò determinava incomunicabilità. Di fronte alle difficoltà in cui versava l’Italia all’inzio degli anni Settanta, scriveva Di Nardi, «gli esperti continuano a diagnosticare il malessere dell’economia italiana come se il nostro fosse ancora un sistema privatistico». In realtà, la nascita del centrosinistra aveva trasformato il sistema italiano in un ibrido:

502 Afus, Adn, busta 73, fascicolo 521, «lettera ad un amico», indirizzata il 18 gennaio 1972 al presidente del Crediop

Franco Piga.

503

Ivi, p. 2.

È necessario ora più che mai avere presente che l’economia non si attua autonomamente dal complesso istituzionale in cui si svolge e che pertanto è fortemente influenzata dalla politica, almeno nel tempo breve. Per uscire dalla confusione in cui siamo immersi – e che costituisce la ragione più profonda del dissesto dell’economia – bisogna decidersi a una scelta politica senza equivoci. Se il disegno politico fosse di fare del nostro sistema un’economia socialista, bisognerebbe procedere speditamente a preparare le strutture portanti di tale sistema, cosa che finora non si è fatta. Se, al contrario, il disegno politico fosse, come sembra più plausibile, di mantenere il carattere pluralistico del nostro sistema, bisogna decidersi a semplificare, rivedendo le riforme sbagliate che sono state introdotte nell’ultimo decennio505.

L’azione dei governi aveva perso l’orientamento. Riferendosi al dissesto del sistema economico italiano, Di Nardi concludeva: «è ingenuo credere che, per il modo come esso si è determinato, esso possa essere curato con i pareri dei tecnici».

La ragione del distacco di Di Nardi dai vertici della politica risiedeva dunque nella consapevolezza dell’impossibilità per i tecnici di operare in quell’”ibrido” in cui si era tramutato il sistema economico italiano. Solo una volta effettuata una chiara scelta «si potranno impegnare gli esperti dell’economia a disegnare politiche razionali di recupero, ma fino a quando sussisterà la attuale incertezza politica appare un gioco da dilettanti quello di spiare i sintomi labili di una ripresa che non ci può essere, per mancanza di presupposti fondamentali»506.

Per Di Nardi l’indirizzo da percorrere era chiaro. Avendo scelto la strada del benessere, non si trattava di procedere verso una economia socialista, ma attuare riforme che avrebbero dovuto dare nuovo slancio all’iniziativa economica.

Se tra gli anni Trenta e tutti gli anni Cinquanta Di Nardi aveva posto più l’accento sulla necessità di riconoscere il ruolo dello Stato come regolatore del mercato e motore dello sviluppo, ora, di fronte a un sistema che prevedeva la continua espansione della spesa pubblica, egli esaltava la necessità di liberare l’iniziativa privata, sia nel settore industriale che in quello agricolo, dove lamentava il

505 Ivi, p. 3. Più avanti Di Nardi spiegava meglio il collegamento tra quadro istituzionale di riferimento e andamento

dell’economia: «Noi stiamo vivendo in un sistema sottoposto a una profonda trasformazione strutturale, con l’aggravante che le riforme tentate non sono state così radicali da cambiare totalmente i connotati del sistema, per farne un’economia socialista e perciò risultano sbagliate in considerazione della coesistenza dell’attività privata con quella pubblica. È illusorio pensare che la grande massa delle piccole e medie aziende private possa riprendere l’attività di investimento in un clima di crescente incertezza. D’altra parte la struttura dell’economia pubblica non è pronta a surrogarsi all’iniziativa privata; ma le stesse imprese pubbliche o a partecipazione statale non sono fiere di svolgere la loro attività con bilanci contrassegnati da perdite crescenti e anch’esse, come le imprese private, anelano a vedere ricostituiti i profitti. Tutto ciò non può accadere finché perdura l’attuale stato di confusione. Le aziende, private e pubbliche, si riorganizzano per rendere più razionale la loro condotta. Esse programmano la loro attività allo scopo di neutralizzare i fattori di incertezza, ma tutto questo sforzo teso ad aumentare la produttività del sistema è reso vano dalla incertezza continua in cui la politica costringe l’economia. Cosa si può programmare in un sistema sottoposto a frequenti spinte eversive? Tutto diventa estremamente aleatorio e il rischio delle perdite patrimoniali annulla qualunque prospettiva di profitti. Finché perdura l’incertezza è vano sperare nella ripresa dell’economia; mentre si fa sempre più consistente il timore che la crisi esploda con manifestazioni più gravi di quelle finora rilevate». Ivi, pp. 7-8.

persistere dal secondo dopoguerra di «un permanente regime di esproprio, variamente camuffato»507.

Considerazioni sulla necessità di liberare l’iniziativa privata sono più esplicite in una lettera inviata nel 1973 al Direttore Generale della Casmez, Francesco Coscia. Qui Di Nardi, ribadendo la necessità di operare una scelta di sistema508, affermava che l’”ibrido” italiano aveva prodotto «una congerie di vincoli entro i quali l’impresa appare irrigidita e incapace di autonome decisioni senza le quali non vi può essere diretta responsabilità».

Ma la paralisi del sistema, indeciso se procedere sulla strada del capitalismo o intraprendere quella del socialismo, aveva finito per imbrigliare non solo l’iniziativa privata, ma anche quella delle partecipazioni statali, determinando quindi una crisi dell’intero sistema produttivo:

Quello che voglio far notare è che oggi tanto l’impresa privata quanto l’impresa a partecipazione statale, e persino l’ente pubblico produttore di servizi, non sono più in grado di attuare una gestione delle proprie attività. La crisi della vita italiana, in questo momento, s’identifica con la crisi della organizzazione produttiva in tutte le sue manifestazioni. Non è perciò una difficoltà circoscritta all’impresa privata, ma è una difficoltà che investe tutte le forme dell’organizzazione economica in questo nostro Paese. È evidente che, nella generale incertezza e ambiguità dei principi che regolano ogni forma di organizzazione, l’impresa privata è quella che più avverte il dissesto perché ancora soggetta all’istituto del fallimento, mentre è

507 Ivi, p. 10. Alla fine degli anni Settanta Di Nardi criticò, dal punto di vista strettamente economico, anche i risultati

della riforma agraria nello scritto Della relatività dei giudizi valutativi sulla riforma fondiaria, in «Rivista di economia agraria», n. 4, 1979, pp. 843-848. Scriveva infatti che «la riforma fondiaria è stata determinata dalla volontà del potere di redistribuire il possesso terriero in una vasta regione del nostro paese. In una economica di mercato, com’è la nostra, mediante tale riforma si sono alterati i dati del sistema, costituiti dalla distribuzione iniziale dei patrimoni e dei redditi fra la popolazione che partecipa all’attività di scambio. Ne consegue una alterazione di tutto il sistema dei prezzi, a causa degli aggiustamenti provocati da tale atto d’imperio […] Pur limitando all’economia il campo di osservazione, non si potrebbe in questo caso utilizzare come termine di riferimento l’ottimo paretiano, perché all’innegabile miglioramento della posizione del gruppo che ha beneficiato direttamente della riforma, si contrappone l’altrettanto innegabile peggioramento della posizione di chi ha subito l’esproprio».

508 «Il discorso sul tipo di ordinamento economico diventa caratterizzante nel dialogo fra i partiti. Su questo tema,

contrasti possono risultare piuttosto accesi, ma è proprio su questo terreno controverso che si misura la reale possibilità d’intesa fra dialoganti dalle voci discordi. Non si vuole certamente significare che l’economia assuma posizione determinante nei rapporti sociali caratterizzati da concezioni diverse della vita, ma non si può neppure accedere all’idea opposta che l’economia sia una componente trascurabile nel contesto del discorso politico. È superfluo indugiare su considerazioni acquisite ormai al buon senso. Oltre tutto, il discorso sul tipo dell’ordinamento economico va fatto con fermezza proprio perché l’esperienza di un decennio di collaborazione governativa tra cattolici e socialisti ha reso praticamente irriconoscibile il sistema economico che aveva permesso lo sviluppo prodigioso dell’economia italiana negli anni 1950-1961. Eppure in quegli anni la socialità delle scelte era stata largamente soddisfatta, come è facile provare dall’esame dell’espansione della spesa pubblica, dall’attuazione della riforma agraria, dalla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e dalla diffusione dell’edilizia popolare mediante il piano Fanfani. Questa esperienza prova che è possibile andare incontro alle esigenze di una maggiore giustizia sociale, potenziando il sistema produttivo fondato sulla responsabilità dell’impresa». Afus, Adn, busta 88, fascicolo 637.2, “Appunto per il signor Direttore Generale” datato 13 febbraio 1973 allegato ad una lettera inviata da Giuseppe Di Nardi al Direttore Generale della Casmez del 14 febbraio 1973, pp. 1-2. Con riferimento alle considerazioni appena svolte, si evidenzia il giudizio, in questo caso positivo, della riforma agraria in un diverso contesto storico e nel quadro del sistema economico in vigore prima del centrosinistra.

praticamente impedita di trovare le vie dell’efficienza a causa della rigidità del fattore lavoro e dei connessi oneri sociali509.

Avremo modo di tornare diffusamente sul problema del costo del fattore lavoro. Per ora ci manteniamo su un piano più generale, “di sistema”, in cui Di Nardi puntava esplicitamente l’indice contro le posizioni del Psi

Da parte nostra non si può tacere una spiccata preferenza al ripristino delle condizioni affinché l’impresa, sia essa privata o a partecipazione statale, possa ritrovare le vie dell’efficienza. Mi rendo conto che il ripristino di tali condizioni comporta un discorso e una trattativa difficile a realizzarsi con il Partito Socialista Italiano, ma se difficile o impossibile risultasse l’intesa su questo punto, non si potrebbe sfuggire alla conclusione che l’Italia è in una crisi politica di straordinarie dimensioni, alla quale si potrebbe far fronte soltanto con il

ricorso alla volontà del Paese, che deve essere chiaramente reso consapevole della gravità del disagio510.

Di Nardi riteneva che l’efficienza dell’impresa fosse compromessa dal «massimalismo socialista, che spinge la masse ad alterare profondamente la distribuzione del reddito nazionale, senza considerazione alcuna delle conseguenze negative sul processo di accumulazione». Per questa ragione, da economista, espresse le sue preoccupazioni per l’aumento della spesa pubblica prevista dalla citata riforma sanitaria511. Si trattava di spese che compromettevano la produttività del Paese, determinando una situazione in cui «ogni persona che lavora ne mantiene in media altre due, cioè su tre persone che consumano soltanto una svolge una effettiva attività produttiva»512. Il punto nodale era dunque la questione della produttività

509 Ivi, p. 3. 510 Ivi, p. 4.

511 Nella lettera a Piga, Di Nardi sottolineò come essa fosse generatrice di inflazione. Tornò più ampiamente sul tema

della spesa pubblica di carattere assistenzialistico intervenendo nel 1979 al dibattito promosso dalla rivista «Prospettive nel Mondo», sul tema “Sei milioni di anziani: cosa fare per loro?”, Di Nardi affermava: «[…] A me pare invece che lo stato di fatto espresso con toni drammatici trovi anzitutto spiegazione in alcune contraddizioni della politica di sviluppo adottata dal nostro paese ed inoltre nella enorme crescita della spesa pubblica corrente, largamente finanziata con la creazione di moneta a corso forzoso anziché dal prelievo tributario, sostenuto dalla crescita del reddito reale. Ho chiesto di intervenire in questa discussione, per esprimere anzitutto una raccomandazione ai numerosi parlamentari qui presenti. Qualunque possa essere l’indirizzo della politica sociale, per contribuire a risolvere i problemi degli anziani, saranno necessari dei provvedimenti di legge che autorizzino ulteriori spese a carico del pubblico bilancio. […] L’economista ha un messaggio da portare in ogni dibattito dal quale emergano nuovi bisogni pubblici e nuove necessità di trasferimento di reddito da chi produce a chi è relegato soltanto al rango di consumatore. Il messaggio al quale mi riferisco è che all’insorgere di ogni fatto nuovo che provochi alterazioni nell’ammontare e nella ripartizione della spesa pubblica, l’intervento dell’autorità di controllo deve farsi carico di ristabilire le compatibilità fra le grandezze del sistema economico, ad evitare che si perpetuino gli squilibri iniziali. Il rispetto di questo principio inesorabilmente comporta scelte, a volte drammatiche per il Parlamento, che vorrebbe dare ascolto a tutte le voci di soccorso ed è costretto invece a soppesare le varie necessità per la ristrettezza dei mezzi disponibili». L’intervento, con il titolo, L’inflazione

danneggia soprattutto i meno giovani, fu poi pubblicato in «Prospettive nel Mondo», n. 37-38, 1979, pp. 159-160.

512

Afus, Adn, busta 88, fascicolo 637, “Appunto per il signor Direttore Generale” datato 13 febbraio 1973 allegato ad una lettera inviata da Giuseppe Di Nardi al Direttore Generale della Casmez del 14 febbraio 1973, p. 4.

Appare subito evidente, da questo dato, che la popolazione italiana, se vuole continuare a progredire, deve necessariamente tendere ad accrescere la produttività del lavoro. Le rivendicazioni che non rispettano questa condizione, continuano ad alimentare l’illusione che si possa elevare il livello dei consumi soltanto mediante alterazioni nella distribuzione del reddito nazionale realizzato mediante i rapporti di forza. Non possiamo

essere d’accordo con quelle forze politiche impegnate ad alimentare tale illusione513.

Nel maggio del 1973 – dunque prima della guerra dello Yom Kippur del successivo ottobre che avrebbe determinato l’impennata dei prezzi petroliferi – Di Nardi segnalava come il calo della produttività associato all’aumento dei livelli di consumo avesse avviato un processo inflattivo ed a catena la richiesta di nuovi aumenti salariali «in una corsa sregolata che mette capo al dissesto delle aziende» per cui «alla fine la disoccupazione di massa diventa fatale»514. Di Nardi sottolineò ripetutamente nelle sue analisi come l’inflazione degli anni Settanta non fosse solo importata dall’esterno – a causa prima della fine del sistema di cambi fissi nel 1971, che per i Paesi a valuta debole significava aumento del costo delle materie prime, e poi dalla fine del 1973 a causa dello shock petrolifero – ma prima di tutto frutto delle distorsioni del sistema economico italiano, che sommava calo della produttività a crescita dello Stato assistenziale515. Il problema incideva anche sulla capacità dello Stato di poter reperire finanziamenti sul piano internazionale. L’Italia era entrata in una fase di crescente ricorso al credito estero per sostenere il suo sviluppo e, scriveva Di Nardi, «i paesi che ci aiutano con il loro credito non possono riporre una illimitata fiducia in un paese che nonostante tutto continua a espandere i consumi e la spesa pubblica senza un parallelo aumento della produttività»516. Si trattava di tematiche che Di Nardi ebbe modo di approfondire direttamente all’interno di alcune commissioni istituite dal ministero del Tesoro517.

513

Afus, Adn, busta 88, fascicolo 637, “Appunto per il signor Direttore Generale” della Casmez, del 4 maggio 1973, pp. 2-3.

514 Ivi, p. 5.

515 «Alcuni sono pronti a dire che l’inflazione c’è in tutti i paesi industrializzati e che in Italia l’abbiamo importata

attraverso gli scambi con i paesi europei. Ciò è vero solo in parte. Se l’inflazione di origine interna non portasse i prezzi sul nostro mercato ad aumentare più di quanto aumentano i prezzo sui mercati esteri, essa non produrrebbe grave danno, per quanto sarebbe sempre da evitare. Ma ora siamo al punto in cui i prezzi italiani aumentano più velocemente dei prezzi all’estero e questo fatto è indice della minore competitività della nostra produzione». Ibidem. Inoltre, nella postilla ad un appunto del 19 settembre 1974, riprodotto in allegato, evidenziava come «la lotta all’inflazione può avere successo se si imposta come rinunzia allo Stato assistenziale».

516 Afus, Adn, busta 89, fascicolo 639, nota al Direttore Generale dalla Casmez del 22 aprile 1974.

517 Nel corso degli anni Settanta Di Nardi fu chiamato a partecipare a due commissione sulla spesa pubblica. La prima

dedicata alla Finanza pubblica e istituita dal ministro del Tesoro Mario Ferrari Aggradi nel 1971, composta anche da Beniamino Andreatta, Pietro Armani, Mario Coppini, Ferdinando Di Fenizio, Mario Ercolani, Corrado Fiaccavento, Salvatore Guidotti, Giuseppe Laccesaglia, Giovanni Landriscina, Libero Lenti, Antonio Marzano, Francesco Masera, Gastone Miconi, Vincenzo Milazzo, Francesco Parrillo, Fernando Nascetti, Giuseppe Parenti, Giannino Parravicini, Antonio Pedone, Giorgio Ruffolo, Luigi Spaventa, Gaetano Stammati, Paolo Sylos-Labini, Ferdinando Ventriglia, Salvatore Viaggio. La commissione fu suddivisa in quattro gruppi di lavoro: Bilancio (Stato ed enti previdenziali); Finanziamento (Rapporti Tesoro-Banca d’Italia e ricorso al Mercato monetario e finanziario); Europa (Armonizzazione dei bilanci nell’ambito della Cee); Regioni (Politica di bilancio e riflessi a livello regionale e di enti locali). Afus, Adn, busta 72, fascicolo 517. Come riferisce Carabba, questa Commissione svolse solo indagini conoscitive, tra l’altro parziali a causa della volontà del ministero del Tesoro di difendere il monopolio delle sue conoscenze. M. Carabba, Un