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L’entrata in guerra dell’Italia pose all’attenzione degli economisti la necessità di elaborare piani di ricostruzione e sviluppo per il dopoguerra. Al dibattito parteciparono anche Giovanni Demaria, Giuseppe Ugo Papi e Giuseppe Di Nardi.

Differentemente da Papi e Di Nardi, sul finire degli anni Trenta e l’inizio anni Quaranta, Demaria si contraddistinse per l’aperta critica della politica autarchica seguita dal regime, che gli costò la direzione del «Giornale degli economisti».

Giovanni Demaria aveva aperto il suo confronto con la politica economica seguita dal fascismo nel 1937, sia dalla direzione del «Giornale degli Economisti»158, sia con pubblicazioni come La politica

economica dei grandi sistemi coercitivi.

In questo scritto Demaria dimostrava come il sistema corporativo fosse sfociato in un monopolio di Stato che soffocava l’iniziativa privata

la politica economica corporativa fa pensare a un mondo di associazioni monopolistiche, in parte create ad hoc dallo Stato, in parte formatesi spontaneamente, ma che lo Stato controlla, con le quali si mira, con azione collettiva, a realizzare a un tempo i fini superiori dello Stato e gli interessi principali di carattere collettivo che sono propri dei ceti e delle categorie economiche organizzate in tali associazioni. Gigantesco mondo di associazioni economiche è dunque quello corporativo, associazioni saldamente subordinate alle autorità centrali dello Stato, e con una volontà di potenza e di espansione economica morale e militare assai differente da quella prevalentemente economica che è propria dell’imperialismo dei popoli opulenti, i quali

fanno del tornaconto economico la base prima del loro sistema politico159.

158 In una lettera indirizzata a Giuseppe Di Nardi scriveva «[…] Se sulla disciplina dei prezzi potesse raccogliere

elementi atti a consentire la preparazione di un articolo per il G.D.E. [Giornale degli Economisti] (più ampio di quanto potrà essere l’esposizione nella nostra pubblicazione, e più libero da vincoli di […] d’esposizione penso che ne verrebbe fuori qualcosa d’interessante. Ha parlato con Gardini? Penso che, [vedendo] la funzione della disciplina dei prezzi, il Partito avrebbe interesse a mettere in rilievo ciò che ha fatto…se non ha fatto troppi malanni». Afus, Adn, busta 114, fascicolo 799, lettera di G. Demaria a G. Ugo Papi del 18 aprile 1937.

Proseguendo, Demaria passava alla critica del sistema autarchico, ai suoi occhi ben lontano da quella visione che abbiamo visto essere propria di Azzolini, Papi e condivisa dallo stesso Di Nardi, secondo cui esso avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo industriale del Paese.

Per Demaria, la «ragione fondamentale» del sistema autarchico consisterebbe nella «difesa militare- politica del paese»160. Inoltre, esso costituiva

una delle maggiori cause che avviano alla collettivizzazione economica, non solo perché è necessario statizzare i monopoli privati onde impedire che questi, praticando prezzo di monopolio (caso dell’industria elettrica), abbiano a elevare, oltre il limite sopportabile, i costi dell’autarchia, ma perché soprattutto le misure di autarchia economica, essendo misure di difesa, devono essere applicate tempestivamente, con metodo e in modo coordinato161.

Secondo Demaria, gli obiettivi dell’autarchia potevano essere raggiunti solo disciplinando con un regolamento generale imposto dall’alto, tanto la domanda quanto l’offerta, tanto i metodi di produzione quanto i tipi dei beni da prodursi, tanto la quantità da ottenersi quanto le materie prime e il lavoro da impiegarsi, sulla base di una valutazione unitaria che, per essere tale, doveva prescindere dai bisogni economici dei soggetti privati.

Inoltre, agli occhi di Demaria il sistema autarchico generava una serie di costi diretti e indiretti, alla lunga insostenibili per lo Stato162.

Nel 1941 Demaria sferrò una dura critica alla politica industriale del fascismo con l’articolo Il

problema industriale italiano163. Nel corso del ventennio, dal dominio dell’economia sulla politica si passò al dominio della politica sull’economia con «una direzione ed un controllo via via più accentuati, da cui lo svilupparsi e poi il trionfo incondizionato del principio corporativo dell’economia nazionale, regolata dall’alto secondo gli interessi statali»164. Demaria non negava il

160

Ivi, p. 249

161Ivi, p. 256

162 Tra i costi, Demaria annoverava quelli relativi alle misure e agli strumenti necessari per realizzare il programma

autarchico; il maggior costo delle materie prime e dei prodotti ottenuti in casa rispetto al costo comparato dei prodotti che prima si esportavano in pagamento di tali beni; l’inaridimento di alcune fonti di ricchezza in seguito alla soppressione di certe correnti commerciali internazionali; la necessità di nuovi tirocini e di maggiori rischi industriali gravanti sulla produzione autarchica; le perdite per operazioni di disinvestimento e di deprezzamento degli impianti delle industrie di esportazione colpite dalla politica di autarchia; i costi di interruzione e quelli relativi alle produzioni ottenute negli impianti semi-industriali lavoranti a capacità ridotta, perché tenuti in vita solo per le necessità di guerra; gli interessi relativi alle scorte d’oro, di materie prime e di prodotti conservati indefinitamente per il futuro a scopo di difesa e di autarchia. A questi costi diretti si sommavano una serie di costi indiretti, quali l’annessione dei nuovi territori necessari ai fini autarchici; il maggior costo, a parità di ogni altra condizione, proprio delle industrie autarchiche legate necessariamente a un mercato avente un potere d’acquisto molto modesto; la maggior difficoltà nel far fronte ai rischi stagionali; l’aumento del costo del credito internazionale essendo esso garantito su una base relativamente minore di scambi internazionali.

163 «Giornale degli economisti», settembre-ottobre 1941, pp. 516-552. 164

G. Demaria, Il problema industriale italiano, la versione citata è contenuta in Aa. Vv., Ricostruzione dell’economia

potenziamento dell’apparato industriale operato dal fascismo, affermando che «ben difficilmente si sarebbe potuto, nel 1913, prevedere la capacità industriale italiana nel 1940»165, ma nonostante ciò, il reddito industriale italiano era comunque rallentato nei nove anni seguenti al 1929, per ricominciare a crescere solo nel 1939 e nel 1940 come risultato della preparazione bellica e delle connesse aspettative. Le ragioni di questa dinamica negativa erano da ricondurre innanzitutto alla limitazione della partecipazione al commercio estero, che determinò una crescita dei costi di produzione interni e la conseguente stazionarietà del reddito nazionale pro capite. In secondo luogo, aveva pesato lo sviluppo dato ad attività economiche a basso reddito (ma ad alto costo relativo). Questi stessi concetti furono ribaditi da Demaria nel maggio del 1942, presentando una relazione dal titolo “L’’ordine nuovo’ e il problema industriale italiano del dopoguerra” al convegno “Per lo studio dei problemi economici dell’ordine nuovo”, organizzato dalla Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative dell’Università di Pisa. A causa della sua critica alla politica economica seguita dal fascismo la sua relazione non fu pubblicata negli atti ufficiali del Convegno166 e Demaria dovette dimettersi dalla direzione del «Giornale degli Economisti».

Nella relazione, Demaria criticava tutti i «vaneggiamenti» in tema di pianificazione internazionale e di autarchia europea per ribadire, in vista della ricostruzione da attuare nel dopoguerra, una politica di chiaro stampo liberale, criticando l’orientamento prevalente, favorevole ad una programmazione economica che avesse garantito l’autarchia dell’Europa.

Agli occhi di Demaria, il progetto era velleitario perché «l’economia europea scarseggia e scarseggerà sempre delle materie prime fondamentali indispensabili al suo progresso industriale» tanto da far pensare che «anche in avvenire il substratum di tutto lo sviluppo economico dell’Europa risiederà per gran parte nel commercio extraeuropeo»167. Inoltre, un simile progetto avrebbe portato verso una forma di «collettivismo burocratico più o meno egemonico che si sprigionerebbe dalla direzione dei cartelli internazionali, collettivismo il quale, anziché tendere alla libera attività delle unità aziendali dei vari stati europei […] ne restringerebbe e guiderebbe continuamente l’operare»168.

165 Ivi, p. 155.

166 Come sottolinea Giuseppe Parlato, dopo la pubblicazione dei primi due volumi degli Atti del convegno, «il terzo

volume degli atti, nel quale sarebbe dovuta apparire la relazione di Demaria non venne mai pubblicato». G. Parlato, Il

sindacalismo fascista. II. Dalla “grande crisi” alla caduta del regime (1930-1943), Bonucci, Roma 1989, p. 140. La

relazione di Demaria fu poi pubblicata in G. Demaria, Problemi economici e sociali del dopoguerra (1945-1950), a cura di T. Bagiotti, Malfasi, Milano 1951. Al convegno furono presentate altre quattro relazioni, da parte di Giuseppe Bruguier Pacini (Università di Pisa), Gino Borgatta (Università di Milano), Mario Tofani (Università di Pisa) e Ferruccio Lantini (presidente Inps). Al dibattito intervennero numerosi professori, tra cui Giuseppe Di Nardi. Per una panoramica delle tesi sostenute cfr. V. Zincone, Il convegno corporativo di Pisa, in «Critica fascista», XX, n. 16, 1942, pp. 218-219 e le cronache del convegno pubblicato da “Il lavoro fascista” del 20, 21 e 23 maggio 1942.

167 G. Demaria, L’”ordine nuovo” e il problema industriale italiano nel dopoguerra. Relazione generale, in Id.

Problemi economici e sociali del dopoguerra (1945-1950), cit., p. 476.

In sintesi, il difetto dell’orientamento che mirava alla realizzazione di una autarchia continentale stava «nell’idea di poter elaborare dei piani economici per la vita europea come se questa fosse senz’altro unitaria e retta dalla stessa legge del progresso mentre il contrario è il vero»169.

Dopo aver formulato queste critiche, Demaria giungeva ad una proposta di chiaro stampo anglosassone, che doveva aprire «la via all’iniziativa e alla responsabilità privata di tutte le sue forze economiche», evitando «ogni programma di ripartizione e disciplina dell’attività industriale nei confronti dei vari paesi europei, con prestabiliti impegni di fare e di non fare, di acquisto e di vendita, con accordi statali di mercato, cartelli internazionali, priorità economiche, pianificazione statale dell’attività industriale per regolare i prezzi e ridurre la produzione»170. Di conseguenza, «una volta eliminato dalla discussione il principio della tutela burocratica e del collettivismo industriale accentrato in uno o più paesi europei, la sola possibilità di un riordinamento industriale dell’Europa su basi continentali sta, dunque, nel creare un unico mercato europeo», che avrebbe comportato «una graduale riduzione (fino alla totale eliminazione) delle barriere commerciali che ostacolano il traffico europeo»171.

La configurazione dell’Europa nel dopoguerra era uno dei punti che separavano Di Nardi da Demaria. Contrariamente al maestro, Di Nardi riteneva necessaria la costituzione di conglomerati di Stati a livello continentale regolati secondo i principi del corporativismo e dell’autarchia. L’economista pugliese aveva espresso questa posizione nel contributo Le grandi concentrazioni di

interessi nella ricostruzione economica dell’Europa, pubblicato in «Civiltà fascista» nell’agosto

1940. Proseguendo lungo la linea secondo cui la politica autarchica era funzionale ad un rafforzamento degli Stati economicamente più deboli e a una più giusta redistribuzione della ricchezza a livello internazionale, Di Nardi affermava che anche la ricostruzione economica dell’Europa andava «considerata soprattutto come un problema di necessaria redistribuzione della ricchezza fra gli Stati, essendo questa la premessa per l’attuazione di un migliore ordine sociale all’interno di ciascun paese»172. Un migliore ordine sociale che doveva realizzare «la sintesi

169 Ibidem. 170

Ivi, pp. 479-480

171 Ivi, p. 480. Nel dibattito seguito alle relazioni, Demaria presentava altri argomenti interessanti in merito alla

riorganizzazione della politica industriale nel dopoguerra. Per quanto riguarda l’industrializzazione del Mezzogiorno sostenuta da De Toma per contrastare l’emigrazione e da De Francisci Gerbino superare lo squilibrio di reddito tra nord e sud, Demaria sosteneva che «un’estensione degli impianti industriali nel Meridione potrebbe rispondere a necessità strategiche, ma dal punto di vista economico industriale dobbiamo tener presente la minor attitudine della mano d’opera rispetto a quella delle zone oggi specializzate, dobbiamo tener conto dei costi dell’energia che nel Sud italiano sono proibitivi, dobbiamo infine tener conto che sarebbe necessario creare vie di comunicazione, attrezzature portuali, ecc., il cui finanziamento sarà nell’immediato dopoguerra addirittura proibitivo» (p. 489). Riferendosi in particolare alla tesi di De Francisci che proponeva di evitare l’urbanizzazione delle nuove industrie, decentrandole in piccoli centri, Demaria affermava che un simile progetto era «contrario alla miglior utilizzazione degli scarsi mezzi produttivi che sono a disposizione dell’Italia» (p. 491).

172

G. Di Nardi, Le grandi concentrazioni di interessi nella ricostruzione economica dell’Europa, «Civiltà fascista», n. 8, 1940, p. 594.

ordinata delle tumultuose aspirazioni delle classi lavoratrici» e che non poteva che essere garantito dal principio corporativo, chiamato ad armonizzare la presenza di diversi blocchi economici (autarchici) a livello europeo. I due blocchi più importanti sarebbero stati guidati da Italia e Germania. Il progetto rifiutava l’unificazione dell’intero continente, tema già ampiamente dibattuto in Italia e Germania per configurare il nuovo ordine post-bellico:

Si è nuovamente parlato di unione europea, che, sia pure con limitazioni e qualificazioni tendenti a salvaguardare le insopprimibili unità etniche e politiche, susciterebbe gravi problemi di coordinamento, data la struttura geopolitica del nostro continente, e perciò non sembra che possa costituire la soluzione più adatta ad assicurare la pacifica convivenza europea. Più concreta sembra, invece, la soluzione accennata dalla nostra stampa, di procedere, cioè, alla costruzione di un nuovo ordine «fondato su grandi concentrazioni di interessi e di mezzi», mediante la costituzione di blocchi economici organizzati intorno ad un nucleo nazionale centrale, al quale si possano legare le economia complementari di altri paesi. Alla frammentarietà delle singole economie nazionali, incapaci di bastare a se stesse, si dovrebbe sostituire un regime di concentrazione di mezzi e di interessi in grandi aggruppamenti, costituenti pochi blocchi continentali e imperiali, operanti come grandi unità173.

Si trattava di un sistema che Di Nardi riteneva coerente con la naturale evoluzione delle strutture economiche, tendenti alla concentrazione e aderente allo sviluppo del sistema corporativo, «che presuppone la costituzione di grandi unità rappresentative degli interessi di categoria», ovviamente guidata dai poteri pubblici, ed era in grado di operare una giusta redistribuzione del reddito interno mediante la difesa dei salari.

Ề interessante notare come Di Nardi sposasse un approccio “funzionalista” alla formazione dei blocchi economici. La partecipazione dei singoli Stati a questi conglomerati doveva infatti essere dettata da criteri di interdipendenza economica, sostenuta solo in un secondo momento dalla definizione di fini più propriamente politici. Le relazioni economiche tra gli Stati appartenenti ad ogni blocco doveva essere regolata da piani, mentre gli scambi commerciali effettuati mediante un’unica moneta di conto, rappresentata dalla moneta del paese leader del blocco. Tra questa moneta e quella dei paesi appartenenti al blocco si sarebbero stabilite delle parità fisse. Più complicata, secondo Di Nardi, era la definizione dei rapporti commerciali tra blocchi, che non

173 Ibidem, p. 595. La tempestività dell’apertura in Germania del dibattito sull’unificazione dell’Europa era colta da

Mario Marcelletti «Ciò che colpisce l’osservatore del movimento culturale tedesco è forse la straordinaria tempestività del suo orientamento verso le idee di ricostruzione europea. Si può dire che la Francia non avesse ancora ceduto le armi quando i circoli germanici mostravano già di avvertire la più immediata conseguenza del suo crollo nell’ordine politico- economico e l’importanza dei compiti che ne sarebbero derivati al vincitore. Si trattava infatti di gettare – almeno sul terreno culturale – le basi di quella unità che il crollo del sistema franco-britannico può finalmente assicurare all’Europa […]». M. Marcelletti, La ricostruzione economica europea nel pensiero germanico, «Civiltà fascista», n.8, 1940, p. 603.

poteva più fondarsi sulla presenza di un mezzo di pagamento dotato di valore intrinseco (l’oro alla vigilia della guerra era quasi integralmente defluito nelle casse della Federal Reserve). Di Nardi immaginava dunque la costituzione di una banca centrale che regolasse i trasferimenti e le aperture di credito fra gli Stati. Di Nardi avrebbe ribadito anche nel settembre 1940 – sempre su «Civiltà fascista» – il concetto di un ordine economico internazionale fondato su grandi aggregati di interessi «mediante il coordinamento di economie complementari intorno a centri capaci, per la loro densità demografica e per le forze di espansione che da essi possono sprigionarsi, di mantenere saldi legami fra le parti di ciascun sistema e di assicurare il più completo avvaloramento delle risorse economiche disponibili nella propria zona d’influenza»174. Ovviamente, il grande aggregato guidato dall’Italia doveva essere quello mediterraneo per Di Nardi, lasciando alla Germania l’Europa continentale. Nel complesso, una integrazione delle economie dei Paesi europei (organizzate nei suddetti conglomerati) era secondo Di Nardi necessaria per garantire migliori equilibri internazionali, perché «fino a quando la enorme concentrazione di interesse rappresentata dal mercato degli Stati Uniti si troverà di fronte le economie frazionate ed in continuo antagonismo dei paesi europei, la politica economica del grande blocco americano sarà sempre decisiva per il resto del mondo»175.

Il punto di divergenza maggiore tra Di Nardi e Demaria era, comunque, la scelta tra la programmazione economica ed un approccio di stampo liberista.

In occasione del dibattito seguito alle relazioni esposte nel convegno “Per lo studio dei problemi economici dell’ordine nuovo”, Giuseppe Di Nardi per la prima volta criticò l’eccessivo vincolismo in cui stava sfociando la politica industriale del regime, evidenziando un peso eccessivo della burocrazia che svilupperà meglio in analisi successive176. Tuttavia, Di Nardi criticò apertamente anche l’orientamento difeso da Demaria, ricordando come esso avesse condotto alla crisi del 1929. Rispondendo alla critica dell’allievo, Demaria sottolineò come le fluttuazioni economiche della grande crisi non erano state, in Italia, inferiori per ampiezza e durata di intensità a quelle dei paesi in cui l’attività economica era stata ispirata a principi liberisti. Demaria chiedeva poi «fino a che punto l’intervento statale contro lo spontaneo e perciò razionale gioco delle forze economiche può essere conservato senza ledere gli interessi della collettività, e se vi sono forti ragioni per pensare che la disciplina non è legittima non dovrà senz’altro invocarsene l’abolizione?»177.

174 G. Di Nardi, Sviluppo economico dell’area mediterranea, «Civiltà fascista», n. 9, 1940, p. 700. 175

G. Di Nardi, La politica economica internazionale degli Stati Uniti, «Civiltà fascista», n. 9, 1940, p. 702.

176 Cfr. la relazione che raccoglie le osservazioni svolte da Di Nardi al Convegno di Pisa, dal titolo Il problema

industriale italiano fra libertà e disciplina delle iniziative, in Atti del Convegno per lo studio dei problemi economici

dell’ordine nuovo, Pisa 18-23 maggio 1942, Pacini Mariotti, Pisa 1942, pp. [16].

177

G. Demaria, L’”ordine nuovo” e il problema industriale italiano nel dopoguerra. Relazione generale, cit., pp. 492- 493

Alla questione, tentarono di rispondere Papi e Di Nardi, intervenendo alla 41° riunione della Società italiana per il progresso delle Scienze, svoltasi a Roma dal 27 settembre al 21 ottobre. Ai lavori Di Nardi partecipò oltre che in qualità di relatore, anche con la funzione di segretario della sezione “Scienze giuridiche e sociali”, presieduta da Giuseppe Ugo Papi e dedicata al tema del piano economico178.

La problematica affrontata era proprio come coniugare la programmazione economica dello Stato con la libertà d’iniziativa privata. Papi presentava argomentazioni già espresse nell’articolo

Elementi e principi direttivi di un “piano”, pubblicato sul «Giornale degli Economisti» di gennaio-

febbraio 1942, dove aveva sostenuto che il piano economico rappresentava il tentativo di “razionalizzare” le incertezze sull’attività economica che derivano dal tempo. Al Convegno della Sips, Papi affermò infatti che «il piano, qualunque sia il regime economico realizzato (da quello più individualista, a quello collettivista) si prospetta esigenza inscindibile da ogni azione che affronti il futuro», perché «se i piani mancassero, l’attività umana resterebbe in balìa di eventi capaci di modificarne la coerenza in rapporto alla sensibilità che la ispira e la guida». Papi ribadiva dunque una visione che rifiutava il prevalere del burocraticismo statale sull’agire privato, perché, al contrario, il piano «tende a difendere proprio questo agire da eventuali illogicità, alle quali gli eventi volessero forzarlo»179. Per questa ragione Papi riteneva incompatibili una forma di organizzazione economica programmata ed una organizzazione invece fondata sulla libera iniziativa individuale, secondo un concetto già espresso nell’articolo Economia per piani ed economia

corporativa, pubblicato su «Il Giornale degli Economisti» nell’aprile 1936.

Di Nardi, nella relazione intitolata Economia di mercato ed economia per piani: condizioni di

mutua compatibilità, problematizzava questo aspetto. Anche l’economista pugliese sosteneva

l’impossibilità dell’assoluta compatibilità tra le due forme di organizzazione economica, perché sarebbe necessario che «l’autorità centrale disponesse in ogni istante di tutti i dati relativi alla psicologia individuale (funzioni di utilità e curve di domanda) e all’ordinamento tecnico-economico delle imprese (funzioni di produzione) e ne seguisse la variabilità nel tempo, in modo da poter