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C’era una volta, tanto, tanto tempo fa, una famiglia in crisi.

I nemici ormai erano troppi, non facevi in tempo a mettere al mondo una marea di figli, che subito qualcuno te li mangiava. Era in pericolo addirittura la sopravvivenza della loro specie.

Non sarebbe stata una grave perdita per il pianeta, ma per loro lo era, eccome, anche se erano soltanto una specie di piccoli insetti.

La famiglia era sgangherata perché tra moglie e marito c’era un’assoluta incompatibilità di giudizio. Uno pensava in un modo, l’altra in modo completamente opposto.

E così un bel giorno furono costretti ad affrontare il problema, ma ognuno di loro studiò una soluzione diversa.

La femmina era più pigra, aveva poca immaginazione, invece il maschio era un vulcano di idee.

(ho conosciuto una famiglia del genere: la moglie si lagnava notte e giorno di non avere ab-bastanza denaro per tirare avanti, il marito disoccupato si difendeva dicendo che non sapeva dove trovare i soldi. La risposta della consorte era sempre la stessa: “Insomma, datti da fare, esci di casa e imbroglia qualcuno.” Ogni tanto lo vedevamo sul marciapiede di fronte che si sbracciava a descrivere la nostra casa, e il nostro commento era: “Ci risiamo, quel tizio sta di nuovo vendendo la nostra casa!”).

E così il povero insetto maschio si diede da fare e cominciò a trasformarsi: divenne piccolis-simo, con tre bei vantaggi:

- Gli bastava pochissimo cibo per campare

- Era molto facile rendersi invisibile nel sottobosco.

- Era talmente piccino che non era più un boccone appetitoso per i suoi nemici.

Il problema gli venne dalla moglie: priva di fantasia, non seppe inventare nulla di meglio che fare un numero maggiore di figli, e per questo le serviva molto cibo: divenne carnivora, crebbe di proporzioni fino a diventare un bruco lungo parecchi centimetri, e per difendersi divenne stanziale, si fece una tana in cui stava nascosta, e si tinse di un verde pallido per confondersi con l’erba.

E così le loro strade si divisero, il povero marito correva velocissimo nel sottobosco, non aveva un recapito fisso, ma così facendo si allontanava troppo dalla consorte: e quando era ora di fare l’amore, erano guai.

Dovette risolvere il problema della distanza: siccome aveva un numero abbondante di zampe, ne sacrificò un paio, scegliendo le meno utilizzate, e cominciò a fare ginnastica: le sollevava, le agitava, ed esse cominciarono ad allungarsi, poi ed emettere delle sottili mem-brane, finché un bel giorno poté fare il suo volo inaugurale: era diventato un insetto volante, poteva spostarsi a suo piacimento.

Ma qui sorse un altro problema: doveva affrontare un intero esercito di nuovi nemici, insetti-vori volanti: uccelli, pipistrelli, per aria c’era una miriade di specie che acchiappavano gli in-settini aviatori.

Ma avrete capito che la sua fantasie era inesauribile: decise che gli conveniva volare di notte, era molto più sicuro. Si tinse di nero, e piccino com’era, non aveva più problemi.

Risolto anche quel problema, ne restava un altro, ben più grave: come poteva, nel buio pesto della notte, trovare la sua adorata compagna, che fremeva anch’essa di amore?

Si consultarono, e fecero un patto: lui volava di notte, ma avrebbe lanciato un segnale lumi-noso; quando la fidanzata avesse visto quella lucina nel buio, si sarebbe fatta fosforescente anche lei, in modo da guidarlo verso il talamo.

Rimaneva un ultimo problema, che riguardava solo il marito: volando nel buio ed emettendo luce, sarebbe stato facile preda degli insettivori notturni, che volavano velocissimi in cerca di preda.

Anche qui trovò una brillante soluzione: la luce che emetteva non sarebbe stata continua, bensì intermittente: in tal modo i nemici non riuscivano ad acchiapparlo, perché non volava con rotta rettilinea, bensì cambiando continuamente direzione.

La femmina non aveva bisogno di quello stratagemma, e continuò a emettere luce continua, ma si accendeva solo per il tempo necessario a guidare il maschietto verso di lei.

Come premio di tanta fatica, si guadagnarono un nome romantico: “Lucciola,” e sono amati da tutti, come massima espressione della fantasia poetica della natura.

Mentre quella famigliola risolveva in modo tanto brillante i suoi problemi, tutto il creato era un brusio di invenzioni: insetti che erano commestibili si mimetizzavano, altri diventavano velenosi e assumevano colori sgargianti per non essere confusi con i bocconcini appetitosi, altri passavano all’offensiva e si armavano di pungiglioni, mascelle robuste, veleni mortali.

E questo avvenne in tutte le specie viventi: qualcuno uscì dal mare, poi se ne pentì, come il delfino e le balene, e tornò negli oceani; altri si diedero al volo acrobatico, una miriade infi-nita di soluzioni, una più ingegnosa dell’altra, nella continua gara per la sopravvivenza.

Pensate all’astuzia del ragno: ha inventato un filo che nessun chimico è ancora riuscito a imi-tare per robustezza e durata: quel filo è estremamente appiccicoso, ma non per le sue zampe, altrimenti non potrebbe correre sulla sua stessa rete, rimarrebbe impigliato anch’egli.

Per non parlare della abilità nel comporre il reticolo, disporlo nei punti più strategici, ecc.

Anche le piante si comportarono nello stesso modo, qualcuna diventò urticante, altre vele-nose, altre con lunghe spine: provate a fare una ricognizione in un bosco, e vedrete quante strabilianti invenzioni sono state fatte.

Il cervellino della lucciola è meno grande della punta di uno spillo: eppure ha inventato le più sofisticate applicazioni della chimica, della elettroforesi, dell’aereonautica, delle strategie di combattimento in volo.

Le piante addirittura non hanno il cervello, eppure si comportano in modo intelligente.

Domanda: vi sembra possibile che quelle specie animali e vegetali abbiano fatto tutto da sole, come sostiene Darwin, semplicemente in base alla “selezione naturale di mutazioni casuali con-genite ereditarie”?

Darwin sostiene che tutto cominciò da un brodo primordiale, che in modo misterioso prese vita, cominciò a rimescolarsi creando le più straordinarie forme di vita, in grado di creare den-tro di sé l’intelligenza, i sentimenti, e tutto il resto.

Ma anche quel brodo primordiale è costituito da molecole generate dall’ aggregazione di una serie di atomi diversi tra di loro, dal più semplice, l’Idrogeno, ad altri via via più complessi man mano che aumenta il numero degli elettroni che ruotano attorno al nucleo.

Il lavoro intelligente necessario a creare gli atomi, da dove viene, forse da un altro brodo pri-mordiale, ancora più elementare?

Potremmo ripetere il ragionamento all’infinito, come chi vuole trovare dove finisce lo spazio.

Punto 3: l’Intuizione

Ogni passo avanti della conoscenza è sempre preceduto da una qualche forma di intuizione:

una sensazione dapprima indistinta, che poi viene successivamente elaborata per farla

qua-drare in ogni dettaglio: allora potrà diventare una formula matematica, una legge sempre va-lida.

Narra la storia che un giorno il grande matematico e inventore, Archimede (287 – 212 A.C.), fosse alle terme pubbliche a godersi un bagno igienico e salutare. Mentre se ne stava beata-mente a mollo, gli balenò nella beata-mente un’idea improvvise: una formula che sarebbe diven-tata una delle leggi fondamentali dell’idraulica, il principio dei pesi specifici.

La folgorazione fu tanto improvvisa che egli ebbe il timore che, come d’incanto gli si era pre-sentata, altrettanto rapidamente sarebbe potuta svanire.

L’eccitazione fu tale che nella fretta di correre a casa a fissare su carta la sua intuizione, si dimenticò persino di rivestirsi, e corse tutto nudo e grondante acqua per le vie di Siracusa, tra i lazzi e le risate dei passanti.

Famosa è la scoperta della formula del Benzene ad opera del chimico tedesco Friedrich Ke-kulé (1829 – 1896) che ebbe l’intuizione della struttura ciclica esagonale della molecola del Benzene (che sarà capostipite della materia plastica,) quando si addormentò davanti al cami-netto e sognò che le fiamme si modellavano in un cerchio a forma di serpente che si morde la coda. Di qui l’idea della molecola a struttura chiusa ad anello.

Una infinità di indizi ci induce a supporre che lo spazio, che gli scienziati ritenevano vuoto, in realtà sia quanto più pieno possiamo immaginare: e le intuizioni degli scienziati vi stanno arri-vando a poco a poco; un primo passo importante potrebbe essere la definizione coniata di re-cente, il “vuoto quantomeccanico”.

L’energia presente in ogni punto dello spazio può manifestarsi in infiniti modi: permeare tutta la materia e manifestarsi come forza di gravità, tenere in movimento gli elettroni, trattenere as-semblati i componenti dell’atomo (se la si libera si trasforma nell’immenso calore della bomba atomica); se stimolata da un campo magnetico rotante diventa elettricità; oppure è luce, ca-lore.

Nella materia vivente, sia vegetale che animale, è l’energia che li tiene in vita: potremmo chia-marla energia vitale.

Il passaggio che il mondo scientifico non è ancora pronto a fare è di considerare come un’energia onnipresente, che permea tutto l’universo, e costituisce una entità unica, anche quella che avvertiamo come sentimenti, sensazioni, armonia, , bellezza, che vediamo esprimersi nelle infinite varietà di esseri viventi, in ogni minimo elemento della natura.

E si tratta di una unica energia che compenetra tutto l’universo senza soluzioni di continuità.

Come la possiamo chiamare?

Josè Silva la chiama “Intelligenze Superiori”, Gustavo Rol la chiamava “Coscienza Sublime,”

Gregg Braden la chiama “Matrix divina”; io la chiamo “Intelligenza Cosmica.”

Ogni essere vivente è assimilabile ad un trasformatore di quella energia: la riceve, la trasforma, la invia nel cosmo.

Per chiarire il concetto, riferisco un esempio:

I ricercatori hanno scoperto negli stagni del Centro America un’insignificante ranocchia ve-lenosa. Quello che li ha lasciati sbalorditi è la potenza del suo veleno: con un semplice goc-cia del suo muco potrebbe uccidere un reggimento di Marines. Si sono chiesti perché mai abbia sviluppato una difesa tanto micidiale, a quali nemici sia destinata, e lo hanno sco-perto: la ranocchia ha un nemico naturale, un serpente che si nutre quasi esclusivamente di quel genere di rana. E da tempo immemorabile è in corso una guerra: da un lato la rana si difende producendo il veleno, dall’altro lato il serpente produce un antidoto. Quando la rana aumenta la velenosità del suo muco, il serpente aumenta la potenza dell’antidoto.

E questa gara sta andando avanti da troppo tempo, con il risultato di esagerata velenosità dell’anfibio.

Ciò costituisce un’ottima opportunità per i ricercatori, che dall’antidoto del serpente spe-rano di ricavare importanti sostanze medicinali.

Chiaramente non siamo di fronte alle mutazioni casuali di Darwin, bensì a un