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quaccherismo: atteggiamento rigidamente allineato alle regole religiose dell’Antico Testa- Testa-mento

Svolazzando nella zona crepuscolare

2) quaccherismo: atteggiamento rigidamente allineato alle regole religiose dell’Antico Testa- Testa-mento

APPENDICE 3

Un momento autobiografico

Narro ancora un momento autobiografico, a maggior chiarimento di quanto sia imponderabile e fuggevole il nostro “Sincrodestino”

Un atto di gentilezza e un panino al formaggio

Dovete sapere che, durante il mio periodo di lavoro trascorso in Nigeria, vennero di tanto in tanto momenti delicati, quando certe lavorazioni richiedevano la massima attenzione.

In quei momenti dovevo fornire tutte le istruzioni prima dell’inizio del turno di giorno, che co-minciava verso le 6 del mattino.

Venne uno di quei momenti, ed io mi alzai che non erano ancora le 5 .

A quella latitudine, il passaggio dalla notte al giorno è repentino: finché il sole non è ancora sorto, è notte fonda: quando, verso le 6, il sole compare all’ orizzonte, nel giro di mezz’ora si passa dalla notte buia al pieno giorno.

Uscii dal mio bungalow che era buio pesto, e mi stava aspettando una Land Rover con autista, pronto a trasferirmi nel cantiere. Infatti il campo-base in cui vivevamo era parecchio lontano dal cantiere, circa una ventina di chilometri, in una zona leggermente sopraelevata rispetto la savana, e ben lontana dal fiume che scorreva in una golena dal clima umido e malsano.

Per prima cosa mi feci portare alla mensa, dove avevo intenzione di farmi una ricca colazione.

Con mio disappunto, la mensa era buia e deserta: avrebbe aperto solo più tardi.

Alle mie rimostranze, un imbarazzato cameriere mi confezionò un enorme panino e me lo conse-gnò in un sacchetto di carta: il convento non era in grado di passarmi altro che questo.

Stizzito e di cattivo umore, salii sull’auto e l’autista si mise in viaggio verso il cantiere. Io nel frattempo guardai nel sacchetto, e in mio malumore crebbe a dismisura: pane raffermo con den-tro un’enorme fetta di formaggio Cheddar, freddo come un pesce morto.

Io odio il formaggio Cheddar, e il primo impulso fu di gettare il panino fuori dal finestrino.

Stavo per farlo, ma un improvviso, bizzarro impulso mi trattenne: forse all’autista sarebbe pia-ciuto.

Fino a quel momento, già di cattivo umore per la levataccia, non avevo degnato di uno sguardo l’autista, e voltandomi verso di lui vidi nel buio due grandi occhi bianchi, e una schiera di grossi denti candidi.

Gli chiesi se gradiva il panino, e i denti bianchi nel buio aumentarono enormemente di numero.

Mentre proseguivamo il viaggio, l’autista divorò di gusto il panino, declamando a bocca piena lunghi discorsi nel suo “pidgin english”, di cui non compresi quasi nulla.

Comunque mi fece passare le paturnie, quando arrivai al cantiere il sole splendeva ormai alto, ed io ero divertito e di buon umore.

Alla sera mi organizzai: andai a prelevare nella mensa burro, marmellata, toast, frutta, tutto l’occorrente per farmi una colazione decente, e me lo portai nel mio bungalow.

Così il mattino seguente non avrei più avuto bisogno di andare alla mensa.

Venne il mattino, nuova levataccia alle 5, però questa volta mi gustai la mia brava colazione in camera mia.

Ancora la Land Rover che mi aspettava. Avrei potuto avviarmi direttamente al cantiere, ma ri-pensando all’appetito dell’autista, gli feci compiere una deviazione fino al fabbricato della mensa, e mi feci consegnare ancora il panino al formaggio, per il puro gusto di regalarlo all’autista.

E così feci per tutto il periodo in cui dovetti fare la levataccia.

L’autista mi mostrava enorme gratitudine per il dono, che a me non costava nulla, solamente la perdita di un quarto d’ora di tempo per ritirare il panino.

Ma per lui era molto di più: era che lo trattavo alla pari, era caduta una barriera, e gli dimostravo la mia amicizia.

Durante il viaggio parlava a mitraglia a bocca piena, mi raccontava di tutto.

Vennero giorni più calmi, andavo in mensa più tardi e trovavo tutto funzionante.

Non ebbi mai più bisogno della Land Rover con autista.

M’incontravo con altri tre amici, con i quali avevo organizzato il trasferimento al cantiere: tutti insieme avevamo comprato un’auto.

Erano passati in cantiere degli autentici avventurieri, che vendevano di tutto. E in quattro ci comprammo una vecchia Chevrolet Impala, un’auto comicamente fuori luogo nella savana: una specie di transatlantico, molleggiatissimo, con un motore di potenza infinita: viaggiando sulle pi-ste in terra sembrava di essere su un aereo che vola molto basso. Le nostre gite nella savana si trasformarono in una cosa comica e divertentissima.

Vi ricordate la barzelletta della rana, e dei sindacati?

Ebbene, i sindacati vennero a far danno anche qui.

Dovete sapere che il cantiere si era organizzato nel seguente modo:

Le maestranze locali erano pagate a ore lavorate; ogni operaio italiano diventava automatica-mente un capo, dal momento che gli venivano affidati una decina o più di operai africani.

E l’operaio italiano li gestiva a suo piacere: se erano scansafatiche li pagava con le ore effettive, ma se erano diligenti, operosi, simpatici, gli segnava sul foglietto un numero maggiore di ore.

La paga oraria era così bassa che potevamo permetterci il lusso di segnare anche una ventina di ore nello stesso giorno, pur di premiare gli operai buoni.

Vennero in pomposa delegazione i rappresentanti sindacali, e carte alla mano dimostrarono che le leggi sul lavoro della Nigeria prevedevano la paga giornaliera, e non oraria.

Questo ci creò delle difficoltà, perché non potevamo segnare 40 o 50 giorni di lavoro al mese:

Ci venne tolta l’arma che ci consentiva di premiare gli operai migliori.

Quando venne il giorno di paga, chiamammo l’esercito, che mandò i soldati a proteggere con le armi spianate la baracca in cui si consegnava il salario.

Infatti gli operai si trovarono la busta – paga enormemente ridotta, e si crearono tensioni e tu-multi.

Per combinazione, la notte di quel giorno dovetti attardarmi nel cantiere per seguire lavorazioni delicate (anche la notte scendeva di colpo, poco dopo il tramonto, verso le 18)

Nessuno sapeva che i malumori erano enormemente cresciuti, gli africani si eccitavano a vi-cenda, erano corsi fiumi di liquori artigianali e di erbe allucinogene.

Nel buio della notte cominciarono a rullare i tamburi.

Il cuore selvaggio dell’Africa si era risvegliato, l’odio verso i bianchi, che non era mai scom-parso, ora veniva di colpo tutto a galla.

Io, ignaro di tutto questo, mi stavo spostando da una postazione a un’altra nel cantiere, che era sparpagliato nella foresta.

I fari illuminarono un collega italiano che stava fuggendo a piedi.

Lo raccolsi sull’auto, ed egli mi raccontò che il cantiere era percorso da ondate di follia: negri drogati e fuori di testa gridavano che i bianchi avevano ucciso tanti neri, era ora di uccidere i bianchi.

La cosa risultò poi una fandonia completa, ma ormai quella notte un vento di follia aveva invaso l’aria.

Il collega mi supplicò di abbandonare l’auto e di fuggire con lui nella foresta, dove il buio ci avrebbe salvato. Era in preda ad un terrore che non avevo ancora conosciuto: per la prima e unica volta nella mia vita vidi un adulto piangere di terrore.

Io, fino a quel momento, non avevo visto nulla di terrificante, avevo solamente udito il lontano rullo di tamburi e grida indistinte, sembrava le feste che di tanto in tanto gli indigeni organizza-vano nel loro campo. Ero tranquillo, e cercai inorganizza-vano di calmare e rassicurare il collega.

Questi mi supplicò ancora una volta di seguire il suo esempio, poi scese dall’auto e scomparve nel buio della foresta.

Io proseguii con l’auto, preparandomi nel mio cuore ad affrontare civilmente gli scalmanati.

Dopo pochi chilometri, mi trovai circondato dalla folla.

E troppo tardi mi accorsi che il collega aveva ragione: non era più una delegazione di gente ar-rabbiata, non c’era più nulla di umano in quelle infinite mani che mi estrassero dall’auto, mi te-nevano sollevato dal suolo e mi strattonavano, mentre occhi iniettati di sangue mi fissavano con odio e bocche bavose vomitavano insulti, al lume di fiaccole comparse da chissà dove.

Ai loro occhi rappresentavo tutti i bianchi, tutte le umiliazioni inflitte, la disparità di civiltà.

Tante volte, durante il lavoro, avevo sentito operai mormorare alle mie spalle che il bianco be-veva birra mentre l’africano bebe-veva l’acqua del fiume, che mangiava a sazietà mentre l’altro aveva fame… quante lagnanze, per un’infinità di soprusi e privilegi, alcuni veri, altri inventati.

Chissà come, era corsa la voce che un bianco avesse ucciso un nero, poi la voce si era ingigan-tita, i neri uccisi erano diventati folla, la rabbia era diventata incontenibile.

Ora tutto il malumore era esploso, finalmente potevano infliggere una punizione esemplare al bianco che aveva ucciso tanti fratelli neri.

E nella loro mente allucinata e schizzata quel bianco ero io! Ero assolutamente precipitato in un incubo.

Ormai sotto choc, il cuore mi si fermò quando compresi a cosa stavano armeggiando: intende-vano infliggermi il collare di fuoco!

[si tratta di una cosa semplicissima: legare le mani del condannato dietro la schiena, versare ben-zina in un vecchio copertone d’auto, infilarlo attorno alla testa del disgraziato e dargli fuoco].

In quel momento tra la folla impazzita si fece largo furiosamente un individuo, che gridava a più non posso per farsi ascoltare.

Compresi che gridava: “Non è stato lui, non è stato lui a uccidere! Questo bianco è amico dei neri, lui è mio amico e mi ha trattato bene!”

Quando mi fu vicino lo riconobbi anche nel buio: erano gli stessi occhioni e i dentoni del mio autista di tempo prima.

Fu talmente convincente da calmare, almeno momentaneamente, la furia degli ossessi.

Sentii che le cento mani che mi stringevano stavano allentando la presa…

Io ne approfittai per saltare sull’auto e darmi a una fuga precipitosa.

Ed ora eccomi qui.

Vi ricordate il film “Sliding Doors”? Un attimo di esitazione di fronte alle porte della metropoli-tana, e il destino cambia di colpo.

La mia “Sliding door” fu quando fui sul punto di gettare il panino fuori dal finestrino: se lo avessi fatto…

La mia impressione è che questo sia un perfetto esempio di come opera il

Karma

:

se fai del bene, questo ti ritorna,

se fai del male, anche questo ti ritorna……

e se non fai del bene quando potresti, riceverai lo stesso