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Il fascino del patriarca e la scelta del servo La distinzione liberi e servi è

riproposta anche nel disegno costituzionale elaborato da James Harrington per la Repubblica di Oceana, isola solo parzialmente immaginaria che in realtà allude all’Inghilterra (1656). Harrington divide il popolo in cittadini o freemen e servi (ser-

vants), precisando che è servo chi non è in grado di vivere in modo indipendente, ma

solo finché si trova in tale condizione. Il primo degli ordini in cui si articola la po-

147 Si veda in particolare Primo Trattato, in J. L

OCKE,Due trattati sul governo, cap. IV, n. 43, p. 116: «Quand’anche si facesse un uso così perverso della benedizione che Dio ha su alcuni versato con mano ge- nerosa, quand’anche si fosse a tal punto crudeli e privi di carità, tuttavia nemmeno in quel caso ne risulte- rebbe dimostrato che la proprietà della terra conferisce autorità sulle persone degli uomini, ma soltanto che tale autorità può essere conferita dal contratto, poiché l’autorità del ricco proprietario e la soggezione del povero mendicante non hanno avuto origine dal possesso del signore, ma dal consenso del povero, il quale ha preferito essergli soggetto che morire di fame» (il testo inglese, tratto dall’edizione londinese del 1764, suona: «Should any one make so perverse an use of God’s blessings poured on him with a liberal hand; should any one be cruel and uncharitable to that extremity, yet all this would not prove that propriety in land, even in this case, gave any authority over the persons of men, but only that compact might; since the authority of the rich proprietor, and the subjection of the needy beggar, began not from the possession of the Lord, but the confent [sic] of the poor man, who preferred being his subject to starving»). Si veda in merito anche D. GOBETTI, Private and Public, p. 74 e p. 83, che tra l’altro apporta ulteriori argomentazioni a favore dell’interpretazione che vuole i servants esclusi dal diritto di voto. Si ricordi, inoltre, che nel progetto di costituzione per la Carolina scritto da Locke (1669) il voto attivo e passivo è riservato ai proprietari: «Se- venty-one. There shall be a parliament, consisting of the proprietors or their deputies, the landgraves, and caziques, and one freeholder out of every precinct, to be chosen by the freeholders of the said precinct, re- spectively. They shall sit all together in one room, and have every member one vote. Seventy-two. No man shall be chosen a member of parliament who has less than five hundred acres of freehold within the pre- cinct for which he is chosen; nor shall any have a vote in choosing the said member that hath less than fifty acres of freehold within the said precinct».

148

J. LOCKE,Secondo Trattato, cap. VII, n. 85, p. 286. In merito C.B. MACPHERSON, Servants and Labourers, p. 220.

149

P. LASLETT, Il mondo che abbiamo perduto, pp. 208-209; R. BECKER,The Ideological Commitment of Locke, p. 644.

polazione di Oceana distribuisce infatti, «the people into freemen or citizens, and servants, while such; for if they attain unto liberty, that is to live of themselves, they are freemen or citizens»150.

Harrington è un esponente del repubblicanesimo secentesco inglese che si rifà esplicitamente a Machiavelli e agli ideali repubblicani rinascimentali. A conferma della diffusione, tra i pensatori di ispirazione contrattualista, di una visione gerarchi- ca della famiglia, al vertice della quale sta il capofamiglia, unico suo rappresentante dotato di diritti di cittadinanza, si può citare anche Pufendorf, il quale scrive:

«Quo modo foeminae, pueri et servi cives forent. Mihi videtur, cum civitas constituatur ex submissione voluntatum uni nomini vel concilio facta, cives primario illos esse, quorum pactis civitas initio coaluit, aut qui in horum locum successerunt. Id quod cum fecerint pa- tresfamilias, igitur his praecipue civium nomen competere iudicaverim; foeminis autem, pueris et servis, quorum voluntates iam sub voluntate patrisfamilias continebantur, nonni- si consequenter, quatenus et ipsi communi civitatis protectione, et quibusdam iuribus eo

nomine fruuntur»151.

Insomma, la portata innovativa del contrattualismo secentesco si ferma, per certi versi, sulla soglia di casa. Non arriva a varcarla. Che la famiglia sia una comunità pro- fondamente gerarchizzata e che l’accesso alla sfera politica non possa prescindere dalla posizione dei singoli nella sfera domestica sono convinzioni tanto radicate da resistere anche alle profonde e diversificate innovazioni che molti autori, nel corso del secolo, apportano alla riflessione. E questo nonostante il fatto che tali innovazio- ni non manchino, per altri versi, di coinvolgere anche i modi di concepire le relazioni nell’ambito domestico e il potere del paterfamilias: ché certo non è la stessa cosa – sia ben chiaro – parlare di schiavi per natura o, invece, di servi liberi, sottoposti all’autorità e alla disciplina del padrone solo nei termini e per il tempo stabilito da un contratto, per non citare che un esempio relativo alla questione che qui mag- giormente interessa.

150

J. HARRINGTON, The Commonwealth of Oceana and A System of Politics, a cura di J.G.A. Pocock, Cam- bridge, Cambridge University Press, 1992, p. 75.

151

S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium (1672), cap. VII, 2, 20, p. 153 (riproduzione digitale dell’edizione Farancofurti & Lipsiae, Ex Officicina Knochiana, 1744).

A questo proposito, non si può fare a meno di notare che – mentre l’esclusione dalla sfera politica di uomini ritenuti schiavi per natura è fondata su un argomento “forte” – quella dei servi liberi per certi versi sembra più ardua da motivare. Detto altrimenti: se si assume, con Aristotele, che la sfera politica sia l’arena dove si con- frontano individui liberi e uguali e che esistano uomini per natura schiavi, cioè infe- riori ai loro padroni e privi di libertà, va da sé che gli schiavi siano esclusi dalla poli- tica. Se invece si assume che servi e padroni siano per natura uguali, trovare argo- menti che giustifichino l’esclusione dei servi può apparire più difficile, soprattutto quando la disuguaglianza tra il signore e il suo servo sia considerata conseguenza passeggera di un accordo temporaneo, come appunto avviene nel caso dei servitori liberi. Tale esclusione risulta così ricondotta a inveterate e vischiose tradizioni e/o a rapporti di forza che il servo deve accettare, consensualmente o obtorto collo. Quan- to più, tuttavia, si pone in primo piano il contratto intervenuto tra le due parti, e si sorvola sulle circostanze che hanno indotto la parte più debole ad accettarlo, tanto più si sposta l’origine del rapporto servo-padrone da un fatto presentato come “og- gettivo” (la differenza “naturale” tra due individui; lo stato di guerra) a una precisa “scelta”. Il servo, un tempo visto come strumento passivo nelle mani del padrone, fi- nisce per essere considerato come attivo e volontario responsabile del suo asservi- mento e delle conseguenze che esso porta con sé. La sua stessa scelta è, allora, il “nuovo” argomento forte che ratifica e giustifica la disuguaglianza.

Pur variamente legittimata, la visione della sfera domestica come ambito gerar- chizzato nel cui seno viene precostituita la possibilità di godere, o meno, di diritti politici resiste d’altronde anche in autori che superano l’impostazione contrattuali- sta. La condivide addirittura Spinoza, la cui ricerca mira a stabilire quale sia il siste- ma politico «in grado di offrire i più ampi margini di crescita per la potenza della moltitudine» e – per quel che consente di stabilire il Trattato politico (1677), inter- rotto dalla morte dell’autore –, individua nella democrazia «la più ampia possibilità di inclusione non autoritaria»152. Trattando della democrazia, anch’egli esclude

152

A. PANDOLFI, Spinoza, in A. PANDOLFI (ed), Nel pensiero politico moderno, Roma, Manifestolibri, 2004, pp. 233-275 (p. 269 e p. 274).

infatti i servi (così come le donne e i bambini) dall’elettorato attivo e passivo. Giustifica l’esclusione alla luce della loro mancanza di indipendenza, con un richiamo esplicito alla definizione, prevista al diritto romano, del civis come persona

sui iuris in opposizione a coloro che sono alieni iuris – salvo che nel diritto romano la

definizione, che si riferiva allo status familiae, indicava ogni soggetto che godeva di autonomia familiare: anche le donne, pur escluse dalla partecipazione alla vita poli- tica, potevano essere sui iuris153.

Scrive Spinoza:

«Da quanto detto nell’art. precedente risulta chiaro che possiamo concepire diversi generi di potere democratico; ma il mio intento non è di trattare di ciascuno di essi, bensì unicamente di quello in cui assolutamente tutti coloro che sono sottoposti solo alle patrie leggi e inoltre sono soggetti solo a sé [sui iuris nel testo latino, n.R.S.] e vivono onestamente, hanno diritto di voto nel consiglio supremo e di accesso alle cariche pubbliche. Dico espressamente coloro che sono sottoposti solo alle patrie leggi, per escludere gli stranieri che si suppone siano sottoposti ad altro potere. Ho aggiunto inoltre che, oltre ad essere sottoposti alle leggi, siano però per il resto soggetti solo a sé [sui iuris nel testo latino, n.R.S.], per escludere le donne e i servi, che sono in potestà degli uomini e dei padroni, e anche i figli e i pupilli, sottoposti alla potestà dei genitori e dei tutori. Ho detto infine e vivono onestamente, affinché fossero in primo luogo esclusi coloro che sono

disonorati per un crimine o per un genere di vita vergognoso»154.

Questa convergenza su una visione gerarchica della famiglia da parte di autori tanto diversi e a partire da argomentazioni tanto differenziate, permette di affronta- re quello che è, qui, il punto cruciale. L’enfatizzazione dell’analogia o dell’identità tra potere del paterfamilias e potere politico appare funzionale alla difesa di approcci e interessi ora aristocratici e nobiliari (come avviene nel caso di molti testi riconduci- bili al filone dell’economica), ora decisamente assolutisti (come nei casi, pur per altri versi lontanissimi, di Filmer e Hobbes). In modo speculare, l’enfatizzazione dell’intrinseca differenza tra di essi appare in genere funzionale alla difesa di punti di vista che, con definizioni piuttosto approssimative, possiamo definire anti-assolutisti e/o democratici – comunque aperti a una partecipazione ampia dei cittadini, visti

153

C. FAYER, La famiglia romana: aspetti giuridici ed antiquari, Roma, L’«Erma» di Bretschneider, 2005, pas- sim.

come tendenzialmente liberi e uguali, alla vita politica (e lo si vedrà meglio nel pro- sieguo del discorso)155.

Nihil sub sole novi, si dirà: Aristotele stesso non aveva forse sottolineato, come si

è ricordato, che «l’autorità del padrone e dell’uomo di stato non sono la stessa cosa» e che sebbene moglie e figli, a differenza degli schiavi, siano liberi, «l’ammini- strazione della casa è comando d’un solo (e infatti tutta la famiglia è retta da uno so- lo) mentre l’autorità dell’uomo di stato si esercita su liberi ed eguali»156? E qui sta il punto: che la famiglia sia una comunità strutturata lungo precise gerarchie (sia pur variamente fondate e concepite in modo ora più rigido, ora meno) è un dato che non viene messo in discussione da nessuno degli autori analizzati. Assumendo la sfera domestica come sede di relazioni necessariamente asimmetriche tra superiori e infe- riori, coloro che intendono difendere una visione anti-assolutista e/o democratica non possono allora che distinguere nettamente tra le due sfere per affermare la so- stanziale lontananza della dialettica politica dalle gerarchie domestiche, salvo tutta- via il fatto di ammettere nell’agone politico solo coloro che di tali gerarchie si trova-

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B. SPINOZA, Trattato Politico, a cura di L. PEZZILLO, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 111. In merito S. VISENTIN, La libertà necessaria. Teoria e pratica della democrazia in Spinoza, Pisa, ETS, 2001, pp. 405-406; A. MATHE- RON, Femmes et serviteurs dans la démocratie spinoziste, «Revue Philosophique», 2/1977, pp. 181-200 e in S. HESSING (ed), Speculum Spinozanum, London, Routledge – Boston, Kegan Paul, 1977, pp. 368-386; ripubbl. in A. MATHERON, Anthropologie et Politique au XVIIIe siècle. Études sur Spinoza, Paris, Vrin, 1986, pp. 181-

200; ora tradotto da A. Pardi con il titolo Donne e servitori nella filosofia di Spinoza, in A. MATHERON, Scritti su Spinoza, Milano, Ghibli, 2009, pp. 19-38. Il testo latino suona: «Ex dictis in praeced. Art. patet, nos posse imperii Democratici diversa genera concipere, sed meum institutum non est de unoquoque, sed de eo so- lummodo agere, in quo omnes absolute, qui solis legibus patriis tenentur, et praeterea sui juris sunt, hone- steque vivunt, jus suffragii in supremo Concilio habent, muneraque imperii subeundi. Dico expresse, qui solis legibus patriis tenentur, ut peregrinos secludam, qui sub alterius imperio esse censentur. Addidi prae- terea, quod, proeterquam quod legibus imperii teneantur, in reliquis sui juris sint, ut mulieres, et servos secluderem, qui in potestate virorum, et dominorum, ac etiam liberos et pupillos, quamdiu sub potestate parentum, et tutorum sunt. Dixi denique, honesteque vivunt, ut ii apprime secluderentur, qui ob crimen, aut aliquod turpe vitae genus infames sunt» (questo il testo latino, digitalizzazione del Tractatus Politicus (1677) in Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, a cura di C. GEBHARDT, Heidel- berg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972, vol. III, pp. 269-360).

155

Scrive D. GOBETTI (Sfera domestica e politica, p. 303): «Locke raggiunge dunque il suo obiettivo – dimo- strare che lo stato di natura è uno stato sociale e pacifico; dimostrare che non esistono in natura disegua- glianze tali da giustificare l’assegnazione del potere politico ad un individuo piuttosto che a un altro – scin- dendo le due parti del problema, separando nettamente rapporti sociali e rapporti politici e iscrivendo il controllo del superiore sull’inferiore nelle relazioni sociali come uno degli elementi attraverso i quali si au- toregolano, sono cioè relazioni pacifiche».

156

no ai vertici. Chi, invece, vuole enfatizzare il potere del sovrano spesso attribuisce ai governanti, nella sfera politica, un potere analogo, se non identico, al potere paterno e dispotico del paterfamilias, glissando sulla separazione tra sfera domestica e politi- ca. Ora legittimata dall’autorità di Aristotele, ora ricondotta direttamente a presunte leggi naturali senza la mediazione dello Stagirita, ora fondata sul testo biblico, a li- vello teorico tale concezione patriarcale della famiglia mostra una tenuta più che bi- millenaria. Come ricorda Costa, anche le elaborazioni giusnaturalistiche settecente- sche assumeranno come soggetto politico «il pater familias della società di antico re- gime», «vertice di una piramide di poteri ed obbedienze»157.

Peraltro, pure un filosofo come Montesquieu considerava le gerarchie domestiche indispensabili al mantenimento dell’ordine sociale: tra le conseguenze funeste e de- stabilizzanti dell’affermarsi di uno spirito di uguaglianza estrema, egli citava proprio il venir meno del rispetto dei giovani nei confronti dei vecchi e dei figli nei confronti dei padri, della deferenza delle mogli verso i mariti, dell’obbedienza degli schiavi158 ai padroni. «Que si l’on n’a pas du respect pour les vieillards, on n’en aura pas non plus pour les pères; les maris ne méritent pas plus de déférence, ni les maîtres plus de soumission». «Les femmes, les enfants, les esclaves n’auront de soumission pour per-

157

P. COSTA, Civitas, vol. I, p. 560. 158

Per certi versi, è sorprendente che Montesquieu parlasse di schiavi, e nei termini di una sorta di elemen- to tipicamente presente in una famiglia, se si considera il numero limitato di schiavi presenti in Europa e la sua stessa condanna della schiavitù. Si veda in part. MONTESQUIEU, L’Esprit des lois, Livre quinzième, Comme les lois de l’esclavage civil ont du rapport avec la nature du climat, Chapitre I, De l’esclavage civil, «L’esclavage proprement dit est l’établissement d’un droit qui rend un homme tellement propre à un autre homme, qu’il est le maître absolu de sa vie et de ses biens. Il n’est pas bon par sa nature: il n’est utile ni au maître ni à l’esclave; à celui-ci, parce qu’il ne peut rien faire par vertu; à celui-là, parce qu’il contracte avec ses esclaves toutes sortes de mauvaises habitudes, qu’il s’accoutume insensiblement à manquer à toutes les vertus morales, qu’il devient fier, prompt, dur, colère, voluptueux, cruel». Cito dall’edizione elettronica condotta sull’edizione Genève, Barillot, 1758 da Jean-Marie Tremblay. Va tuttavia notato che nel procedere del ragionamento Montesquieu si rivela meno radicale di quanto queste parole potrebbero lasciar pensare, distinguendo tra contesti politici e geografici diversi, dicendosi comunque contrario ad una abolizione della schiavitù generalizzata e immediata, etc. cfr. C. BIONDI, Ces Esclaves sont des hommes. Lotta abolizionista e letteratura negrofila nella Francia del Settecento, Pisa, Editrice Libreria Goliardica, 1979, in part. pp. 114-137; D.J. SCHAUB, Montesquieu on Slavery, «Perspectives on Political Science», 34/2005, pp. 70-78. Questo ha dato adito a molte polemiche sul suo ruolo (e più in generale su quello dell’Illuminismo) nella lotta alla schiavitù, cfr. P. DELPIANO,La schiavitù in età moderna, pp. 82-83, con riferimenti bibliografici (pp. 143-145). Per un breve esempio di tali critiche cfr. L. SALA-MOLINS, Le Code Noir, les Lumières et nous, in V. LANGE- EYRE (ed), Mémoire et droits humains. Enjeux et perspectives pour les peuples d’Afrique et des Amériques,

sonne. Il n’y aura plus de mœurs, plus d’amour de l’ordre, enfin plus de vertu». Il ve- ro spirito di eguaglianza (lontano dallo spirito di eguaglianza estrema come il cielo dalla terra) non implicava certo che tutti comandassero e nessuno obbedisse ma, al contrario, che si obbedisse e comandasse ai propri eguali. La differenza tra una de- mocrazia regolata e una che tale non era consisteva a suo avviso nel fatto che nella prima si è uguali in quanto cittadini, mentre nella seconda si annullano le specificità dei ruoli di magistrato, padre, marito e padrone: «Telle est la différence entre la dé- mocratie réglée et celle qui ne l’est pas, que, dans la première, on n’est égal que comme citoyen, et que, dans l’autre, on est encore égal comme magistrat, comme sénateur, comme juge, comme père, comme mari, comme maître»159. Insomma, per dirla con una boutade, agli occhi del filosofo che tanto avversava il dispotismo politi- co e il dispotismo domestico orientale, in casa un certo dispotismo risultava comun- que necessario, e l’auspicata divisione dei poteri non riguardava il potere del pater-

familias nel suo triplice ruolo di marito, padre e padrone160.

159

MONTESQUIEU, L’Esprit des lois, Livre huitième, De la corruption des principes des trois gouvernements, Chapitre II, De la corruption du principe de la démocratie: «Le principe de la démocratie se corrompt, non seulement lorsqu’on perd l’esprit d’égalité, mais encore quand on prend l’esprit d’égalité extrême, et que chacun veut être égal à ceux qu’il choisit pour lui commander. Pour lors le peuple, ne pouvant souffrir le pouvoir même qu’il confie, veut tout faire par lui-même, délibérer pour le sénat, exécuter pour les magis- trats, et dépouiller tous les juges. Il ne peut plus y avoir de vertu dans la république. Le peuple veut faire les fonctions des magistrats: on ne les respecte donc plus. Les délibérations du sénat n’ont plus de poids; on n’a donc plus d’égards pour les sénateurs, et par conséquent pour les vieillards. Que si l’on n’a pas du respect pour les vieillards, on n’en aura pas non plus pour les pères; les maris ne méritent pas plus de déférence, ni les maîtres plus de soumission. Tout le monde parviendra à aimer ce libertinage: la gêne du commande- ment fatiguera comme celle de l’obéissance. Les femmes, les enfants, les esclaves n’auront de soumission pour personne. Il n’y aura plus de mœurs, plus d’amour de l’ordre, enfin plus de vertu»; Chapitre III, De l’esprit d’égalité extrême: «Autant que le ciel est éloigné de la terre, autant le véritable esprit d’égalité l’est-il de l’esprit d’égalité extrême. Le premier ne consiste point à faire en sorte que tout le monde commande, ou que personne ne soit commandé; mais à obéir et à commander à ses égaux. Il ne cherche pas a n’avoir point de maître, mais à n’avoir que ses égaux pour maîtres. Dans l’état de nature, les hommes naissent bien dans l’égalité; mais ils n’y sauraient rester. La société la leur fait perdre, et ils ne redeviennent égaux que par les lois. Telle est la différence entre la démocratie réglée et celle qui ne l’est pas, que, dans la première, on n’est égal que comme citoyen, et que, dans l’autre, on est encore égal comme magistrat, comme sénateur, comme

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