di persona sui iuris, a mio avviso almeno in parte problematico, la questione dell’indipendenza è in effetti cruciale (ed è peraltro considerata tale anche da Macpherson41). L’intervento di Ireton che imprime una svolta al dibattito presenta l’indipendenza come base della libertà: allargare il suffragio a chi è dipendente signi- fica allora mettere la libertà, cui tutti i presenti tanto tengono, nelle mani di uomini che non sapranno che farsene, vi rinunceranno, la alieneranno. Subito Cromwell identifica (implicitamente) le persone prive di indipendenza non con i poveri in ge- nerale, ma con i servi e le persone che vivono di elemosina. Ancora una volta, in- somma, il servo si staglia immediatamente come emblema della dipendenza. Secoli e secoli di insistenza sul concetto paiono aver creato una sorta di comune sentire che le parole di Ireton sembrano risvegliare. Ecco allora che antiche e sedimentate anti- tesi irrompono nella discussione con tutta la loro forza, traducendosi in argomenti contro l’estensione del suffragio ai servi: argomenti più convincenti di quello di non avere un interesse permanente nel paese e, mi pare, della stessa difesa della proprie- tà, fino a quel momento al centro del dibattito42. Dipendenza versus indipendenza,
40
Vedi cap. I, nota 153. 41
C.B. MACPHERSON, The Political Theory f Possessive Individualism, in part. p. 144. 42
L’espressione «permanent interest» torna ventidue volte nel dibattito, due volte l’espressione «permanent fixed interest», una volta l’espressione «interest in this kingdom that is permanent and fixed». La parola property è citata ottantaquattro volte. Le occorrenze di tali espressioni e di tale parola sono tutte precedenti alle affermazioni di Ireton sul rischio che l’allargamento del suffragio alle persone dipendenti implichi in sostanza la perdita della libertà. Si noti che non era risultato risolutivo neppure l’argomento sostenuto dal Colonnello Nathaniel Rich che aveva paventato la distruzione della proprietà o l’instaurazione di una sorta di comunismo qualora servi e padroni fossero stati entrambi elettori con pari diritto di voto: «you have five to one in this kingdom that have no permanent interest. Some men [have] ten, some twenty servants, some more, some less. If the master and servant shall be equal electors, then clearly those that have no interest in the kingdom will make it their interest to choose those that have no interest. It may happen, that the ma- jority may by law, not in a confusion, destroy property; there may be a law enacted, that there shall be an equality of goods and estate», cfr. A.S.P. WOODHOUSE (ed), Puritanism and Liberty, Part I: The Putney de- bates.
servitù versus libertà, servo versus cittadino, escluso versus elettore: quasi verità au- to-evidenti.
Il dibattito successivo all’intervento di Ireton apporta altri elementi riconducibili all’armamentario concettuale fin qui ricostruito. Petty, come si è visto, afferma che servi e apprendisti «are included in their masters»43: inclusi nei loro padroni, e per- ciò stesso esclusi dalla possibilità di esprimere il proprio voto individuale. «Lo schia- vo è una parte del padrone» aveva sostenuto Aristotele44. Sottolineando l’inseparabilità di servi e padroni, Petty pare d’altronde alludere alla “vecchia” meta- fora del corpo. Dietro il profilo del servo dipinto come dipendente dalla volontà al- trui, sembra di intravedere, benché non evocato, anche il fantasma dello “strumento animato” del padrone45. Certo Petty non parla di servi per natura: al contrario, giudi- ca gli uomini naturalmente liberi46. Né (come prevedibile) lo fanno altri. Lo stesso Cromwell si preoccupa anzi di limitare l’esclusione dei servi al periodo in cui sono effettivamente tali: «servants while servants», precisa, usando un’espressione quasi identica a quella che sarebbe stata impiegata di lì a qualche anno da Harrington nel definire le articolazioni interne (orders) della popolazione di Oceana («servants, whi- le such»47). La condizione dei servi appare così transitoria – non a caso proprio gli storici dell’Inghilterra pre-industriale hanno coniato la categoria di life cycle ser-
vants, cioè del servo per una fase precisa della sua vita, di solito quella giovanile pre-
cedente al matrimonio48.
43
Vedi nota 23. 44
ARISTOTELE, Politica, I (A), 1255b, 11 (vedi cap. I, nota 1). 45
Nel corso del dibattito si parla di servi come strumenti solo in riferimento ai servi di Dio: «If God be pleased to show any of his servants that he hath made use of [them] as great instruments in his hand» (Goffe).
46
«For I judge every man is naturally free», sostiene Petty. 47
Vedi cap. I, nota 150. 48
P. LASLETT, Characteristics of the Western Family Considered Over Time, «Journal of Family History», 2/1977, pp. 89-115; P. LASLETT, Family Life and Illicit Love in Earlier Generations, Cambridge, Cambridge University Press, 1977. Vale forse la pena ricordare che l’interesse di Laslett per la storia sociale dell’Inghilterra pre-industriale si sviluppò in stretto dialogo con i suoi originari studi di storia del pensiero politico relativi a Filmer e Locke. Cfr. ad esempio R. SMITH, Peter Laslett, «History Today», 52, 3/2002, pp. 4-6. Per maggiori dettagli sul concetto di life cycle servants vedasi il secondo volume, par. Il servo capofami- glia: un ossimoro?
Pertanto, se i servi vanno esclusi dal suffragio, non è perché siano “naturalmente” incapaci di volontà propria. Piuttosto, secondo Petty, è perché non sono in condi- zione di fare scelte indipendenti. Ne sono impediti dalla paura di contrariare il pa- drone, dal quale dipendono, e di subire le conseguenze della sua irritazione. Sono insomma i rapporti di forza in cui sono inseriti che conculcano la loro libertà. E che impediscono di includerli tra gli elettori. Ireton disegna uno scenario per certi versi più cupo: chi è avvezzo alla dipendenza, pare dire, non è in grado di apprezzare la libertà. Quindi, qualora gli venisse riconosciuta, ne farebbe cattivo uso: non sapreb- be né vorrebbe conservarla. È allora a tutela della libertà – quella libertà per la quale i partecipanti al dibattito tanto combattono – che i servi vanno esclusi. Che poi in tal modo la libertà resti comunque privilegio di pochi, per Ireton, che polemizza aper- tamente con le proposte di allargamento del suffragio sulla base di quello che defini- sce «un immaginario diritto di natura»49, non è affatto un problema.
Nel corso dell’appassionato dibattito che ha preceduto il suo intervento, molti, come si è detto, hanno parlato del voto come di un diritto di cui tutti gli uomini de- vono godere: ricchi e poveri; potenti e deboli50. Eppure, l’idea, ventilata da Ireton, che le persone dipendenti siano incapaci o forse addirittura indegne di godere della libertà non cade nel vuoto, anzi. Segna una svolta nella discussione. Forse, la convin- zione che l’esercizio della libertà attraverso il voto non sia (solo) un diritto, ma (an- che, almeno in parte) un privilegio che in qualche modo bisogna meritare è più dif- fusa di quanto gli interventi susseguitisi fino a quel momento lascino pensare. Forse Thomas Reade non è troppo lontano dal vero, quando commenta: «Mi pare che tutti convengano che la elezione dei rappresentanti è un privilegio». Certo ai suoi occhi tale privilegio è così ampio da apparire quasi un diritto: «ora non vedo alcuna ragio- ne per cui un uomo nato nel Paese dovrebbe essere escluso da tale privilegio». Eppu- re una ragione, ai suoi occhi c’è, ed egli si affretta a precisarla, con parole che sem- brano riecheggiare La Boétie: «tranne che per servitù volontaria» («unless from vo-
49
Il testo inglese suona «imaginable right of nature»; Revelli traduce con «ipotetico diritto di natura», cfr. Putney, p. 112.
50
luntary servitude»)51. Come si è detto, all’inizio del dibattito, rispondendo a Ireton, Cowling aveva precisato che si intendeva riconoscere il suffragio a tutti coloro che avevano avuto diritto di voto prima della conquista normanna nel 1066, giacché do- po la Conquista la maggioranza della popolazione era in uno stato di vassallaggio52. L’immagine di una nazione in gran parte ridotta suo malgrado in schiavitù dai con- quistatori è evocata più volte nel corso del dibattito53. È possibile, allora, che sia an- che alla luce di tali vicende che Reade consideri l’aspetto volontaristico della servitù (e non la servitù in sé) come ragione di esclusione: la servitù volontaria, non la servi- tù subita. Agli occhi di chi combatte per la libertà, la volontaria scelta della servitù non può che risultare altamente sospetta. Chi opta per la servitù va allora senza dubbio escluso dalla possibilità di godere del diritto/privilegio di voto, espressione massima di libertà. Non sarebbe forse un paradosso dare la libertà a chi ad essa ha volontariamente rinunciato? La questione della servitù finisce insomma per costitui- re un nervo scoperto che provoca un’immediata reazione, uno scoglio sul quale si in- frangono i principi generali di libertà, uguaglianza, parità di diritti che, fino a quel momento, neppure i richiami ai rischi di dissoluzione della proprietà erano riusciti a mettere in crisi.
51
Vedi nota 24 del presente capitolo. Corsivo mio. L’opera di La Boétie fu pubblicata in traduzione inglese solo nel 1735 con il titolo A Discourse of Voluntary Servitude (London 1735).
52
Vedi nota 10 del presente capitolo. 53
Cowling: «Why election was [given] only [to those with freeholds of] forty shillings a year (which was [then worth] more than forty pounds a year now), the reason was: that the Commons of England were overpowered by the Lords, who had abundance of vassals, but that still they might make their laws good against encroaching prerogatives [by this means]; therefore they did exclude all slaves»; Wildman: «Our case is to be considered thus, that we have been under slavery. That’s acknowledged by all. Our very laws were made by our conquerors»; «Cowling made a speech expressing that the sword was the only thing that had from time to time recovered our right[s], and which he ever read in the word of God had recovered the rights of the people; that our ancestors had still recovered from the Danes and Normans their liberties, by the sword, when they were under such a slavery that an Englishman was as hateful then as an Irishman is now, and what an honour those that were noblemen thought it to marry their daughters to, or to marry the daughters of, any cooks or bakers of the Normans»; Henry Lilburne: «he never observed that the recovery of our liberties which we had before the Normans was the occasion of our taking up arms, or the main quarrel; and that the Norman laws were not slavery introduced upon us, but an augmentation of our slavery before», etc.