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Federica Venier, l’eredità di Schuchardt e la validità della teoria fronzaroliana (2012)

IV STUDI CRITICI SULLA LINGUA FRANCA

XIV- XVII, la qualità e la quantità di esposizione alla lingua target e delle interazioni comunicative poteva dare luogo variamente a ciascuna delle varietà sopra citate.

IV.12 Federica Venier, l’eredità di Schuchardt e la validità della teoria fronzaroliana (2012)

L’intervento della Venier si colloca sulla scia del lavoro e indagine operato da Hugo Schuchardt nell’articolo del 1909 sulla lingua franca. Infatti nel volume del 2012 la studiosa ne fornisce una traduzione, che resta tutt’oggi l’unica traduzione in lingua italiana disponibile del saggio di Schuchardt. Non è un caso infatti che nel medesimo volume essa sottolinei in più punti l’immutata validità e autorevolezza dell’indagine schuchardtiana. Ne La corrente di Humboldt, la studiosa rilegge il saggio di Schuchardt accostandolo alla filosofia e al pensiero humboldtiano, ricercando all’interno di esso le caratteristiche stilistiche o le scelte metodologiche che avvicinerebbero l’opera del romanista a quella di Humboldt. In questa sede ci occuperemo di delineare un profilo della lingua franca vagliando le parti più salienti delle opere della Venier, lasciando da parte la lettura in chiave humboldtiana. L’opera è essenzialmente divisa in due parti, la prima è dedicata interamente alla traduzione del saggio Die Lingua franca (1909); nella seconda parte, la Venier avvicina l’opera di Schuchardt a quella di Leo Spitzer e di Benvenuto Terracini, sempre secondo una lettura humboldtiana; nel terzo capitolo invece concentra l’analisi e la presentazione dei fenomeni linguistici e dei processi linguistici ed extra linguistici riscontrati nella lingua franca.

Come abbiamo accennato, la riflessione della Venier è essenzialmente improntata alla visione schuchardtiana, a cui si aggiunge un apprezzamento per la teoria del parastrato semitico di Fronzaroli (1954); per la studiosa «la lingua franca sarebbe a tutti gli effetti una lingua romanza, ma semplificata secondo linee impostate proprio da parlanti delle stesse lingue romanze»372. Proprio come per Schuchardt la lingua franca

non deve essere ricondotta ad un fenomeno di Sprachmischung, ma è invece frutto di una

Verheinfachung intesa come «processo di semplificazione morfologica, di riduzione delle

forme dei paradigmi flessivi in partenza notevolmente ricchi quali sono quelli delle lingue romanze»373. La semplificazione sarebbe poi in realtà per Schuchardt e di conseguenza

per la Venier, un’auto-semplificazione, per cui è il parlante romanzo nativo che «volendo parlare con qualcuno che non lo capisce, cerca istintivamente attraverso la sua

372 F.VENIER, op. cit., 2012, p. 103. 373 Ivi, p. 104.

competence quelle forme che gli sembrano più frequenti, più semplici e più

genericamente usabili»374.

Si prosegue con il problema della natura della lingua franca, chiedendosi se possa essere considerata un pidgin. La Venier afferma in accordo con la Minervini, che:

[…] non sia possibile parlare della lingua franca come di un pidgin (e Schuchardt infatti non lo fa mai!) ma per altri motivi, cioè innanzitutto a causa dell’estensione del territorio su cui essa è parlata, e in secondo luogo […] a causa dell’ampio arco cronologico coperto dalle testimonianze375.

La questione dell’ampia diffusione e dell’inevitabile variazione sincronica che essa comporta era già stata affrontata anche da Cifoletti. Infatti all’interno di una simile estensione diacronica e diatopica è impossibile non accettare un certo grado di variazione. Inoltre, la lingua franca è probabilmente da considerarsi un pidgin a tutti gli effetti solo in relazione al contesto barbaresco, unica area in cui raggiunse la fase di pidgin stabile. Considerando quindi unicamente il contesto barbaresco, si verifica un restringimento non solo dell’area di diffusione, ma anche dell’utilizzo in funzione del tempo, portando ad un accorciamento in tal modo sia dell’asse diacronico che di quello diatopico.

La studiosa si esprime poi sulla neutralità della lingua franca, sostenuta sia da Cifoletti (2011) che dalla Dakhlia (2008), per i quali essa costituiva per cristiani e musulmani un terreno neutro su cui confrontarsi; in controtendenza essa dichiara che:

[…] non esistono lingue neutre: veneziani, genovesi, le genti della sponda Nord del Mediterraneo detenevano quel potere economico e commerciale che li aveva spinti costantemente al di là del mare senza imparare la lingua dell’altro: semplificavano la propria e ciò bastava al tipo di “mediazione” che era loro indispensabile376.

Con ciò la studiosa sottolinea come in realtà i rapporti di potere politico, militare o economico giochino sempre un ruolo in termini di prestigio linguistico e di nascita, sviluppo e diffusione di una lingua veicolare, poiché soltanto le lingue inventate, cioè non naturali, scevre da ogni connotazione sociale o letteraria, possono essere considerate lingue assolutamente neutre.

374 Ibidem.

375 Ivi, p. 110. Per Minervini sarebbe in realtà più determinante la scarsità delle testimonianze in termini quantitativi e

qualitativi (cfr. IV.7).

La trattazione segue con la ripresa della teoria sull’influenza del parastrato semitico, elaborata da Fronzaroli e contenuta nel suo articolo del 1954 (cfr. IV.4); per la Venier, lo studioso è l’unico che riesce a dare conto dei fenomeni generati dal contatto linguistico, e che si collocano comunque in un’ottica regolamentata dalla semplificazione così come intesa da Schuchardt. Infatti, partendo dal processo di semplificazione operato dai parlanti romanzi nativi, la lingua semitica avrebbe agito come “filtro”, permettendo che si affermassero soltanto le strutture che «più si adattano al sistema linguistico degli apprendenti, e cioè al sistema dell’arabo»377. La teoria del parastrato semitico sarebbe

quindi «una soluzione aperta, prudente e corretta: dell’opera di semplificazione del “dominatore” verrebbe accolto quanto la lingua indigena è in grado di recepire, quanto non stride e non stona con le sue strutture»378. In tali strutture di lingua franca “filtrate” dall’azione del parastrato semitico rientrerebbero: le forme base del sistema verbale (infinito omnibus vs participio passato senza ausiliare), la preposizione per con funzione introduttiva del pronome personale oggetto diretto ed indiretto (mira per mi; come ti voler

parlare) e l’inclinazione alla giustapposizione e alla paratassi. Tuttavia tali processi sono

in realtà riconducibili a fenomeni di semplificazione del linguaggio universali, tra cui spiccano la selezione di un sistema verbale di tipo aspettuale, il ricorso ad una sintassi di tipo paratattico ed l’impiego frequente della frase nominale; la peculiare funzione della preposizione per rientra invece generalmente all’interno dei fenomeni di semplificazione attraverso la sovraestensione, dove si verifica la selezione di una preposizione avvertita come particolarmente frequente ed utilizzandola come forma base ampliandone i contesti di utilizzo.

La riflessione della Venier si colloca lungo la tradizione di pensiero inaugurata dall’opera di Schuchardt, e da essa si discosta ben poco. Agli studi di quest’ultimo è affiancata, a supporto, la teoria del parastrato semitico di Fronzaroli, che contribuirebbe a spiegare l’affermarsi di determinate strutture o fenomeni di semplificazione in funzione del sistema dell’arabo magrebino, lingua nativa degli alloglotti. Lo studio della Venier prosegue con un’analisi delle caratteristiche linguistiche della lingua franca barbaresca a confronto con quelle di altre varietà di italiano semplificato (ISE e FAI) e di varietà di apprendimento dell’italiano come L2, di cui ci occuperemo successivamente.

377 Ivi, p. 126. 378 Ivi, p. 128.

In un intervento più recente, L’invenzione del consenso: il caso della lingua franca, la Venier si sofferma su un altro aspetto molto interessante, quello della connotazione e della denotazione riservata ai termini lingua franca, petit mauresque e sabir. Il termine

lingua franca, è contraddistinto da un valore denotativo, in quanto glottonimo, poiché

originariamente si riferiva appunto alla lingua dei Franchi, cioè più ampiamente degli occidentali romanzi; l’utilizzo di questa espressione era appunto svincolato da qualsiasi giudizio o connotazione dispregiativa, ed indicava pertanto soltanto la provenienza geografica. Con la pubblicazione del Dictionnaire nel 1830, si afferma anche il termine

petit mauresque accostato al più usuale lingua franca, secondo la studiosa:

Si noti che a turbarci non è tanto l’aggettivo ‘petit’, usato nel XIX secolo per indicare i rudimenti di una lingua (si parla per esempio di “petit allemand” ecc.), quanto piuttosto il fatto che per la prima volta nel titolo del Dictionnaire si faccia appello a una prospettiva opposta a quella presupposta da “lingua franca” senza che ce ne sia alcuna giustificazione linguistica379.

Questo nuovo termine rappresenta la prima fase del processo di attribuzione, ai termini che si riferiscono alla lingua franca, di una valenza connotativa in chiave denigratoria, e che ha luogo a partire dalla metà dell’ottocento. Parimenti si utilizzava in tutta la tradizione di studi linguistici di francese coloniale la denominazione petit per riferirsi ad una qualche forma di francese parlato male o corrotto da parte delle popolazioni colonizzate. In questo senso si utilizza petit nègre e petit noir rispettivamente per riferirsi al francese delle colonie sub-sahariane e a quello di area caraibica; anche quest’espressione come le altre conosce in epoca successiva un’estensione semantica, in particolar modo petit nègre passerà ad indicare non più soltanto un francese coloniale semplificato, ma una qualsiasi varietà di francese sgrammaticato380. Mentre in una fase

più avanzata invece si arriverà ad una connotazione in chiave dispregiativa del termine

sabir, che non rientra certamente tra i glottonimi ed è in realtà derivato da un passo del Bourgeois Gentilhomme di Molière, scena V dell’atto IV. L’utilizzo di questa espressione

per riferirsi alla varietà semplificata a base prevalentemente francese è attestato per la

379 F.VENIER, L’invenzione del consenso: il caso della lingua franca, «Rivista italiana di filosofia del linguaggio», 12/2016, p. 300.

380 Nell’ultima edizione del dizionario Larousse, http://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/petit-

n%C3%A8gre/59971, (ultima cons. 17/07/17) è riportato come sostantivo maschile singolare: “Langage incorrect où l'on n'utilise pas les éléments grammaticaux (déterminants, désinences)” o ancora “Langue incorrecte et

prima volta nel già citato articolo di McCarthy e Vanier dell’11 maggio 1882, e da qui sembra poi essere impiegato largamente per riferirsi a tale varietà; in seguito, per estensione, verrà utilizzato come sinonimo di lingua franca intesa nel suo significato più ampio di lingua veicolare. La Venier spiega come questo termine estrapolato dal

Bourgeois passi ad indicare la lingua franca dell’epoca coloniale francese:

Il verbo viene dunque decontestualizzato, assolutizzato e diventa, quasi per antitesi al suo significato, sinonimo di lingua storpiata e povera. In realtà viene assolutizzato il tratto del ricorso all’infinito su cui ci si era soffermati: esso è infatti, in queste fonti tanto sciatte, ritenuto il tratto distintivo per eccellenza della lingua di mediazione ormai in via di estinzione che esse si trovano a registrare: per assolutizzare questo tratto viene preso il primo verbo che ricorre nella più celebre delle messe in scena di tale idioma. Siamo dunque qui di fronte a una sorta di antonomasia negativa381.

Il ricorso all’infinito come modo passepartout, struttura simbolo di questa parlata corrotta, in un certo senso il mot drapeau del sabir, che acquisisce una connotazione dispregiativa. La parola sabir che per antonomasia appartiene all’ambito dello scibile e della conoscenza, passa ironicamente ad indicare un uso della lingua che è percepito come storpiatura o corruzione, e quindi di conseguenza rozzo ed ignorante.

IV. 13 Fiorenzo Toso, la lingua franca come varietà di italiano L2 in base a nuove