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Laura Minervini, la lingua franca nel continuum interlinguistico (1996) Laura Minervini in La lingua franca mediterranea Plurilinguismo, mistilinguismo

IV STUDI CRITICI SULLA LINGUA FRANCA

IV.7 Laura Minervini, la lingua franca nel continuum interlinguistico (1996) Laura Minervini in La lingua franca mediterranea Plurilinguismo, mistilinguismo

e pidginizzazione sulle coste del Mediterraneo tra tardo medioevo e prima età moderna inaugura la trattazione della questione con l’analisi dell’etimologia di questo termine; in un secondo momento giunge alla descrizione del pidgin barbaresco e dell’arbitrarietà nell’uso del termine lingua franca a cui seguono alcuni testi significativi corredati da un commento. La studiosa si sofferma sull’opera di Schuchardt e Haedo, costatando che «la lingua franca descritta in questi termini da Schuchardt corrisponde alla moderna definizione di pidgin»278, ed è proprio sulla scia del saggio di Schuchardt che la varietà

descritta da Haedo è assimilata alle altre testimonianze di area magrebina comprese tra il XVII secolo e l’inizio del XIX.

Sempre di Schuchardt sarebbe, secondo Minervini, la tesi secondo la quale la lingua franca intesa come pidgin barbaresco risalga al medioevo; fu proprio lo studioso che citò il trecentesco Contrasto della Zerbitana come uno dei primi esempi di questa lingua. Come abbiamo accennato in precedenza, il termine lingua franca designa spesso realtà sia diacronicamente che sincronicamente molto distanti tra loro, contribuendo ad accrescere la vaghezza di tale termine negli studi linguistici. Minervini sostiene infatti che essa «affondi le sue radici nella complessità della situazione linguistica mediterranea di epoca medievale e moderna»279; tuttavia ciò che ha dato luogo a fraintendimenti ed

equivoci è stata, non tanto la coesistenza di numerose realtà associate a questo termine, ma piuttosto l’uso improprio di esso da parte degli studiosi.

Minervini riprende poi alcune delle teorie elaborate dagli studiosi in merito all’origine e al luogo di formazione della lingua franca notando che è soprattutto a partire dal contributo di Hall (1966) che «si è formata una sorta di vulgata sulla lingua franca che, prescindendo dai dettagli, ne ascrive l’origine all’epoca medievale»280. La studiosa

osserva acutamente che la suddetta vulgata si sarebbe trasmessa spesso «per forza di inerzia da un testo all’altro, senza un ricorso diretto alle fonti ed un adeguato approfondimento storico, […] figura in tutti i lavori di creolistica e pidginistica (dove,

278 L.MINERVINI,op. cit., 1996, p. 237. 279 Ivi, p. 236

invero, il problema della lingua franca viene affrontato solo di sfuggita)»281. Diventa

quindi essenziale, diversificare le realtà che compongono la fenomenologia della lingua franca, ma soprattutto tentare di utilizzare ogni volta questo termine in modo puntuale e coerente.

Dato il diffuso multilinguismo del contesto Mediterraneo in epoca medievale e moderna, tra rapporti commerciali, accordi diplomatici e pellegrinaggi, Minervini ipotizza un inquadramento del fenomeno all’interno di un continuum interlinguistico con varietà e competenze diversificate tra loro, in cui:

[…] ad un livello basso si può pensare alla coesistenza di più varianti pidginizzate delle lingue veicolari in circolazione (arabo, greco, francese, veneziano o una koinè italiano-settentrionale), in una sorta di poliglottismo elementare […] un lessico comune, in sostanza, innestato sulle strutture sintattiche delle lingue in presenza282.

Ciò che abbiamo appena introdotto costituirebbe il livello più basso di competenza dell’utente ed il contesto di utilizzo più elementare, mentre «ad un livello più elevato si situa la conoscenza di una lingua veicolare, la cui scelta dipende da vari fattori e il cui grado di contaminazione con altre lingue può essere molto variabile».283 L’ipotesi del

continuum interlinguistico presenta, ai due poli opposti, una notevole disomogeneità in merito alla quantità e alla qualità della documentazione esistente; la documentazione risulta abbondante e coerente solo per gli strati più alti, tra questi documenti a mio avviso, vi potrebbero rientrare come esempio calzante le cosiddette “carte Cremona”, mentre gli strati più bassi non possiedono una documentazione sufficientemente ampia e attendibile. Nei capitoli centrali del saggio Minervini riporta alcuni fra i testi di lingua franca maggiormente analizzati dagli studiosi, tra cui troviamo il Contrasto della Zerbitana, il Villancico di Encina e la Zingana di Giancarli ed un breve accenno a Diego de Haedo. A ragione Minervini sottolinea come «lo studio della lingua franca in epoca medievale si scontra in primo luogo con l’estrema povertà documentaria […] valicando i confini

281 Ibidem. Aggiungerei che spesso gli studiosi si riferiscono alla lingua franca solo trattando le teorie sulla

monogenesi e sulla poligenesi dei pidgin e dei creoli.

282 Ivi, p. 244. 283 Ibidem.

dell’età di mezzo, a questa scarsa documentazione si aggiungono apporti un po’ più cospicui»284. La studiosa aggiunge che:

[…] di fronte a un materiale documentario complessivamente esiguo, linguisticamente differenziato e cronologicamente disomogeneo, sorprende constatare come l’esistenza della lingua franca sia ritenuta da tanti studiosi una certezza, piuttosto che un’ipotesi assai problematica da esaminare con cautela285.

Per Minervini la povertà documentaria e la scarsa qualità delle fonti costituisce essenzialmente la limitazione più grande per qualsiasi tentativo di redigere un’analisi sociolinguistica della lingua franca. Alla scarsità o povertà documentaria in senso quantitativo si aggiunge anche quella in termini qualitativi: la documentazione a nostra disposizione è per la maggior parte di tipo letterario, dove la lingua franca ricopre una funzione meramente stilistica e si tratta «della riproduzione a scopo parodistico del modo di esprimersi di parlanti stranieri»286.

La lingua franca di uso letterario appare stereotipata e dotata di una certa omogeneità artificiale agli occhi dei contemporanei, questa caratteristica è da imputare alla natura stessa della parodia letteraria, che «tende a rendere fissa e stereotipata una fenomenologia linguistica fluida e polimorfa»287. A causa della dimensione letteraria

della documentazione, Minervini ipotizza che la lingua franca barbaresca fosse in realtà una lingua di comunicazione essenzialmente unilaterale; a parlar franco sarebbero quasi sempre gli stranieri, “gli altri” appunto, difatti l’autrice espone come «la lingua franca è dunque attribuita dai franchi a coloro che franchi non sono»288. Questa posizione, come

vedremo, si pone in contrasto con la teoria di Cifoletti sulla presunta bilateralità del pidgin barbaresco, che per lo studioso era utilizzato da europei e arabofoni per la coe lingua veicolare, quindi adottata da entrambe le parti. Tuttavia per la studiosa:

[…] tanto la parodia letteraria e teatrale quanto le citazioni esotiche nei resoconti dei viaggi e di ambasciate mirano, con fini ed effetti diversi, a rappresentare il modo di esprimersi di mori, turchi, zingari, schiavi, pirati, sultani o altro ancora; come parlino gli europei interessa molto meno gli autori e il loro pubblico289.

284 Ivi, p. 267. Come documento strettamente medievale abbiamo soltanto il Contrasto della Zerbitana, di epoca

successiva, ed il Contrasto di Cielo, ma non convenzionalmente medievali sono gli altri testi sopra citati, perché appartenenti al XVI e al XVII secolo.

285 Ivi, p. 268. 286 Ibidem. 287 Ivi, p. 269. 288 Ivi, p. 270. 289 Ivi, p. 271.

A sostegno della tesi sull’unilateralità della lingua franca si schiera anche la mancata consapevolezza da parte del parlante alloglotto di produrre una varietà semplificata della lingua target, questo aspetto costituisce uno dei problemi di maggiore entità nello studio dei foreigner talk. L’ipotesi della Minervini presuppone che spesso gli alloglotti si riferissero agli europei parlando una varietà semplificata di una lingua romanza, mentre quest’ultimi si esprimevano nella loro lingua nativa senza sottoporla ad alcuna semplificazione, a prova di ciò è citato il dialogo tra il Console dell’impero di Savoia ed il Pascià di Tripoli Yussuf Qaramanli290. In tale dialogo il Pascià si esprime in

lingua franca barbaresca, mentre il Console in un italiano letterario alquanto forbito. È probabile che in contesti di interazione più formali effettivamente il parlante europeo si esprimesse in italiano letterario e l’alloglotto in lingua franca, in quanto poteva risultare disdicevole, come letto, per un sovrano musulmano servirsi di una lingua romanza, mentre era lui consentito esprimersi nella varietà semplificata, considerata più neutrale. Ciò non toglie che il Pascià comprendesse senza alcuna difficoltà l’italiano forbito del Console, possedendone probabilmente soltanto una competenza passiva. Tale dissimmetria tuttavia si riscontra solo nei testi letterari, nelle testimonianze documentarie gli autori insistono spesso sulla diffusione di questa varietà semplificata e sulla bilateralità di tale fenomeno linguistico, per alcuni addirittura l’unica lingua in comune tra europei ed arabofoni in Barberia. La continuità linguistica della lingua franca nella realtà delle reggenze barbaresche, data la sua longevità, presupporrebbe logicamente la bilateralità e non l’unilateralità, che non le avrebbe permesso di diffondersi così ampiamente sia dal punto di vista temporale che spaziale e che probabilmente avrebbe portato ad un futuro raggiungimento di una competenza discreta della lingua di arrivo. In base alle fonti che possediamo non abbiamo una prova diretta del ricorso da parte degli europei a questa varietà veicolare, ma tuttavia è lecito postulare che in seguito ad un’interazione linguistica spontanea, collaborativa e prolungata anche i “franchi” facessero ricorso a questo idioma. In seguito la studiosa dedica alla teoria di Pelio Fronzaroli un piccolo accenno, commentando l’ipotesi del parastrato semitico dello studioso, che «ha cercato di attribuire all’influenza dell’arabo alcuni tratti caratteristici della lingua franca, presentandola come

risultato del sovrapporsi del lessico romanzo alla grammatica araba»291. Come abbiamo

rilevato Fronzaroli attribuisce all’influenza del parastrato semitico i tratti linguistici più caratterizzanti della lingua franca, tra cui il sistema verbale aspettuale, l’infinitivizzazione, l’utilizzo di per con funzione introduttiva del complemento oggetto diretto ed indiretto e l’omissione della copula e degli articoli. Tuttavia, per Minervini «non vi è uno solo dei fenomeni analizzati che non si spieghi in termini di riduzione o semplificazione interne al sistema romanzo (italiano in particolare)»292. Anche l’ipotesi

di Hugo Schuchardt che si basava su un processo di semplificazione operato coscientemente dal parlante nativo, alla luce degli studi contemporanei, appare oggi insufficiente. L’importanza dell’input fornito dal parlante madrelingua resta una certezza, tuttavia i «diversi fenomeni raccolti sotto l’etichetta di “semplificazione” (riduzione delle ridondanze, regolarizzazione della morfologia, ottimizzazione della grammatica) sono spiegati oggi in termini di tendenze universali alla naturalezza, principi generali dell’acquisizione linguistica, costrizioni formali delle lingue legate a caratteristiche innate del linguaggio»293.

Un altro punto a favore dell’unilateralità della lingua franca, sostenuto da Minervini, è costituito dal fatto che il processo di semplificazione riguarderebbe soltanto la fase comunicativa di produzione e non quella di percezione, e ciò rispecchierebbe il rapporto asimmetrico esistente sul piano della competenza linguistica tra parlanti alloglotti e parlanti nativi, i quali comprendono senza sforzo la varietà semplificata utilizzata dai primi.

La Minervini definisce pertanto il macrofenomeno della semplificazione raccogliendo sotto l’etichetta di fenomeni di pidginizzazione tutte le varietà linguistiche «ibride, instabili, ridotte tanto nei domini d’uso quanto nell’apparato grammaticale, carenti per natura di autonomia e normatività, altamente dipendenti dall’immediato contesto di comunicazione»294. Queste varietà, che rientrano tutte nel macrofenomeno

della semplificazione, sono identificate con un’etichetta diversa in base alla situazione di utilizzo e al contesto di formazione: se sono utilizzate da «parlanti stranieri (broken language/ interlanguage) o da nativi (foreigner talk), o che siano viste come esito

291 Ivi, p. 272. 292 Ibidem. 293 Ivi, p. 274. 294 Ivi, p. 275.

dell’interazione verbale tra parlanti nativi e stranieri in particolari condizioni di contatto (pidgin)»295. In un contesto multilingue come quello del bacino mediterraneo dei secoli

XIV-XVII, la qualità e la quantità di esposizione alla lingua target e delle interazioni