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Fenomeno patologico o culturale?

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 136-151)

Il disagio giovanile:

IV. Il disagio giovanile

4.3. Fenomeno patologico o culturale?

Sembra essere, il disagio giovanile, un evento non solo importante per la crescita ma anche, come viene spesso definito, del tutto «fisiologico»85 e «naturalmente»connotante il processo di sviluppo che va dall’adolescenza all’adultità. Affermare questo non significa, tuttavia, sostenere che l’adolescenza si identifichi col malessere tout court, in

82 R. Baiocco, R. Paola, F. Laghi, “Attaccamento, identità e ricerca di senso in adolescenza”, in E.

Fizzotti (a cura di), Adolescenti in ricerca, cit., pp. 168

83 Ibidem

84 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, op. cit., p. 79 (il corsivo è mio)

85 Vari autori sottolineano la presenza di “un «disagio evolutivo normale», connaturato agli attuali processi di crescita” (D. Mesa, “Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., p. 77. Si vedano pure: C. Girelli, “In classe: prevenire e convivere con il disagio promuovendo il benessere”, ibid., p. 117; L. Regogliosi, La prevenzione del disagio giovanile, cit., p. 21; A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, op. cit. p. 34; S. Bonino, Il fascino del rischio negli adolescenti, Giunti, Firenze, 2005, p. 7). Anche Frankl sostiene che “il disagio psicologico, nella pubertà, rappresenta qualcosa di assolutamente fisiologico e non deve essere ritenuto in alcun modo qualcosa di patologico” (V.E. Frankl, Le radici della logoterapia. Scritti giovanili 1923-1942, cit., pp. 87-88)

una «naturalizzazione» della problematicità adolescenziale alla luce della quale “la rabbia, la ribellione, i comportamenti aggressivi autodiretti ed eterodiretti sia individuali che di gruppo (e così via), entrano a far parte della psiche e sono rintracciabili nel percorso evolutivo di tutti gli adolescenti”.86

Abbiamo già rilevato, infatti, come tale parallelismo coincida con una inesatta quanto grossolana generalizzazione, che riduce eventi complessi (come quelli dell’adolescenza e del disagio) a «nient’altro che» un avvicendarsi di problemi, sofferenze e criticità.

Tuttavia, se non per tutti i giovani il disagio rappresenta una condizione naturale, è nondimeno vero che la fase evolutiva dell’adolescenza appare frequentemente caratterizzata, specialmente nella nostra epoca dalle «passioni tristi»87, da vissuti di malessere particolari, naturalmente presenti con intensità diverse, a seconda della singolare situazione esistenziale. Tali considerazioni mettono in luce l’opportunità di de-patologizzare quei vissuti di inquietudine e sofferenza giovanili88 Infatti, pur non negando l’esistenza di tipologie di malessere adolescenziale che sconfinano nella psicopatologia,89 certamente non tutte le forme di disagio sono patologiche.90

4.3.1. De-patologizzare il disagio

Il disagio giovanile troppo spesso risulta compreso all’interno di categorie forzatamente medicalizzanti. Eppure esistono forme di fragilità e di sofferenza esistenziali, legate a particolari momenti del vivere, che non si possono far rientrare nel novero dei disturbi

86 P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, cit., p. 81

87 Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit.

88 Cfr. P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, cit. Nella nostra prospettiva, dunque, ‘normalizzazione’

non è sinonimo di ‘generalizzazione’, bensì di de-patologizzazione.

89 Rimandiamo, per un’argomentazione approfondita circa le forme che può assumere tale

‘sconfinamento’ negli abissi della patologia, alle opere di E. Borgna e, in particolare, Id., Le figure dell’ansia, cit., Id., Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano, 2003; Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007.

90 Infatti, “una serie di sofferenze può appartenere al campo delle difficoltà esistenziali, ma non essere ascritta all’ambito del disturbo organico” (R. Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto, cit., pp. 21-22).

Occorre contrastare, pertanto, la tendenza a patologizzare qualsiasi sofferenza: tendenza esemplificata dalla “patologia depressiva nel suo progressivo sganciarsi, lungo tutto il Novecento e ancor più nella seconda metà, dalla melanconia. Tale separazione ha tolto al dolore depressivo il connotato ambivalente in virtù del quale si poteva anche essere infinitamente tristi, proprio perché definiti da una sorta di grandezza d’animo, da una sensibilità quasi superiore, da un’inquietudine intelligente e in un certo senso eroica, connotata dal coraggio di guardare in faccia aporie e contraddizioni, nonché zone d’ombra della realtà” (M.A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia, cit., p. 11)

mentali conclamati: “sicuramente, il fatto di vivere con un sentimento (quasi) permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi produce conflitti e sofferenze psicologiche, ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologica”.91 A livello eziologico, dunque, non troviamo necessariamente una patologia psichica o psichiatrica – siano, esse endogene o reattive – quale substrato del disagio, nella consapevolezza che una persona cosiddetta sana possa sperimentare qualche problematicità in periodi delicati della sua vita: criticità che, nondimeno, potrebbero venir accentuate dalla difficoltà nel reperire modalità costruttive per chiedere aiuto, o per farvi fronte adottando vie socialmente consentite e convenzionalmente accettate. Tra la normalità92 e la patologia (intesa come cristallizzazione della personalità in una rigidità di tratto diffusa, connotata da segni clinici specifici) esistono, pertanto, delle sfumature, sia in senso qualitativo che quantitativo, che ci chiedono di abbandonare uno sguardo semplicisticamente dicotomico sul reale.93

Aggressività, tristezza, apatia, ansia, inquietudine, incertezza, disorientamento… sono, entro certi limiti, vissuti normali e fisiologici, soprattutto nell’adolescenza: “abissi di luce e di ombra”94 che la connotano costitutivamente, e che testimoniano la labilità dei confini tra normalità e patologia, tra disturbi neurotici (nevrosi) e psicotici (psicosi).

Parliamo, dunque, di una “tristezza esistenziale che non è patologica, e che costituisce un’esperienza di vita che non è estranea a ciascuno di noi”.95

Vi sono, infatti, espressioni di attraversamenti esistenziali tribolati, irti di difficoltà ed ostacoli ma che, nonostante tutto, non si inseriscono nella malattia: che non rientrano

91 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 10

92 Interessante la definizione del concetto di normale come “ciò che non attira lo sguardo, ciò che si può rubricare sotto la dicitura «niente da segnalare»” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 73), che costituisce l’antitesi del riconoscimento dell’originalità e, persino, creatività costitutiva di ogni essere umano.

93 Secondo Eugenio Borgna “esistono diverse concezioni di malattia: se la intendiamo come un tumore, allora la curiamo con i farmaci; se invece riteniamo che ogni esperienza di sofferenza (psichica o psicotica) sia fortemente condizionata, se non nella sua insorgenza, almeno nel suo decorso, occorre evitare che una crisi acuta diventi cronica. Da qui, l’importanza delle parole!” (E. Borgna, intervento del 23/01/09 al Master universitario in “Relazioni e sentimenti nelle professioni educative e di cura”, direz.

scient. prof.ssa Vanna Iori, Università Cattolica, Piacenza)

94 E. Borgna, Le figure dell’ansia, cit., pp. 149-166. Lo stesso autore parla delle “ambivalenze che ci portiamo dentro”, dato che “alcune esperienze nevrotiche fanno parte della vita e dell’esperienza umana Esiste, infatti, l’ansia normale, nevrotica e psicotica, così come avviene per la tristezza. Tra quella normale e quella nevrotica la differenza è solo quantitativa. Quella psicotica va sempre curata con farmaci, quella neurotica ha bisogno di relazione umana” (E. Borgna, intervento del 23/01/09, cit.)

95 E. Borgna, intervento del 23/01/09. cit.. Così, “normalità e sofferenza appaiono uniti da un continuum concettuale: persone con esistenze normali attraversano stati di vulnerabilità differenziati, i quali espongono il soggetto a possibili situazioni di disagio e in alcuni casi di sofferenza” (R. Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto, cit., p. 121)

nelle usuali e tranquillizzanti tipologie nosografiche nelle quali viene racchiuso, spesso e volentieri, quanto risulta appartenente a quella speciale normalità cui prima si accennava. Infatti, le varie forme che può assumere il malessere dei giovani, dilaganti nella nostra società, “sono da considerarsi del tutto indipendenti dalle categorie diagnostiche e dalle vecchie e convenzionali impostazioni della salute”.96 In altre parole, esistono “sofferenze dovute all’intolleranza di una società, che possiamo qualificare come esistenziali. Di fronte a esse, il clinico (…) non è costretto a

«psichiatrizzare», a «rendere patologica» una sofferenza dovuta all’esistenza stessa, al mondo e alla società”.97

In tale prospettiva, le fragilità incontrate dai nostri adolescenti – che si giocano nell’alternanza fra continuità e discontinuità, lentezza ed accelerazioni, ordine e disordine – “rappresentano nel loro succedersi ciclico una regolarità e una normalità che fa posto anche all’evento straordinario, non crea l’urgenza di eliminarlo e ridurlo, né la necessità di scoprirne la causa, ma solo il problema di comprenderlo nella sua dinamica e mantenerlo nell’alveo dell’esperienza che la persona può tollerare”.98 Così, la fluidità che connota il cambiamento, la pluralità di dimensioni e sfaccettature che caratterizza ogni situazione esistenziale, nonché il dis-equilibrio che può qualificare i periodi di mutamento e transito ad un nuovo-modo-di-essere sostanziano, nell’insieme, la normalità nella specialità, al di là di ogni forma di riduzionismo etichettante, volto a non riconoscere, ad ogni persona, il “diritto a essere e a esistere come molteplicità”.99 In tale prospettiva, ciò che «esce dagli schemi», che risulta stra-ordinario perché attinente ai vissuti di ogni singola avventura umana, non viene tacciato come anormale – e, dunque, patologico - e nemmeno fatto rientrare forzatamente nelle maglie della normalità. Se, infatti, l’individuo non viene predefinito da quadri nosologici precodificati, le singolari modalità del giovane di relazionarsi alle cose ed agli uomini del suo mondo-della-vita non esprimono dis-funzioni (dove quel prefisso –dis assume una valenza peggiorativa) bensì, semplicemente, funzioni di una specifica quanto singolare delineazione della sua presenza.

96 E. Fizzotti, “Fondamenti antropologici della ricerca di senso”, in Id, Adolescenti in ricerca, cit., pp. 7-8.

Questo concetto viene ribadito anche da altri autori: “appare chiaro come la sofferenza di senso non sia necessariamente una sofferenza mentale diagnosticabile” (R. Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto, cit., p. 128)

97 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 111 (il corsivo è mio)

98 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, op. cit. p. 33

99 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 72

Così, tale de-patologizzazione100 del fenomeno del disagio, unitamente al contrasto della tendenza normalizzante le differenze, si muove nell’ambito del paradigma della comprensione, nel superamento della mera spiegazione degli eventi umani (focalizzata, quest’ultima, sulla ezio-pato-genesi e sulle cause. L’intento è quello di comprendere il dis-gio in una prospettiva fenomenologico-esistenziale101 all’interno della quale normalità e patologia non riproducono la ‘norma’ e la ‘devianza’, ma esprimono una modalità esistenziali dalle quali affiorano modi originali di fare ed elaborare l’esperienza: ovvero, riflettono come il soggetto adolescente agisce nelle trame dell’esistenza, come reagisce alle cose, quali risorse mette in atto, nella volontà di dis-velare il suo modo-di-essere-nel-mondo quale autentica prestazione esistenziale.

Coerentemente a ciò, la de-patologizzazione del disagio consente di far emergere, alfine, la centralità della funzione educativa e ri-educativa, capaci di de-clinicizzare l’intervento al malessere, nell’ottica della promozione della ricerca di senso nei giovani:

vera e propria «emergenza educativa».102

4.3.2. La dimensione culturale del disagio

Tuttavia, se possiamo pensare che esistano difficoltà e criticità pressoché ordinarie (legate, in particolar modo, ai mutamenti biologici, neurologici ed ormonali specifici di questo periodo dello sviluppo), nonché fragilità che, come detto, possono caratterizzare il percorso di ricerca del personale modo di essere-presenza, occorre anche constatare come, in non rari casi, a queste condizioni si aggiungano problematicità che fanno evolvere la situazione del giovane verso forme di “disagio artificiale, esogeno, in cui centrale risulta essere la qualità delle relazioni interpersonali e della vita sociale propria dell’individuo”.103

100 Ribadiamo, attraverso le parole di questo autore, che “la sottolineatura del disagio diffuso (…) non intende certo sminuire o svalutare la presenza di forme di disagio nelle quali interagiscono pesantemente condizioni socio-culturali specifiche” (C. Girelli, “In classe: prevenire e convivere con il disagio promuovendo il benessere”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., p. 120)

101 La prospettiva alla quale ci riferiamo, e che verrà approfondita nel corso del lavoro, è quella che origina dalla distinzione tra il metodo della spiegazione causale (Erklären), proprio delle scienze naturali, e il metodo della comprensione (Verstehen) delle scienze dello spirito avanzata da W. Dilthey, (cfr. Per la fondazione delle scienze dello spirito, Angeli, Milano 1985)

102 Cfr. D. Bruzzone, Disagio giovanile e ricerca di senso, cit., pp. 194-211

103 F. Pizzi, “Disagio giovanile e bullismo”, cit., p. 117

In tale prospettiva, può essere allora utile chiedersi: “quanto è legato alle crisi d’identità nel corso dello sviluppo psico-fisico e quanto può essere ascritto ai modelli culturali di integrazione dell’individuo nella società?”.104 La riflessione su questi temi ci porta a rilevare che esiste non solo un “disagio evolutivo endogeno”,105 connaturato al naturale percorso di crescita, ma anche un “disagio socioculturale esogeno”,106 condizionato dall’ambiente di appartenenza.

Nondimeno, occorre riconoscere come le pur fisiologiche crisi adolescenziali risultino decisamente ‘amplificate’ nel contesto socio-culturale odierno, particolarmente problematico per chi si trovi in quella fase della vita che comporta l’affrontare molteplici mutamenti. Oggi, infatti, sembra più complesso di un tempo attraversare le tumultuose acque del periodo adolescenziale per raggiungere la sponda – sempre più sfumata - dell’adultità: si incontrano maggiori ostacoli ed imprevisti e, soprattutto, meno sostegni a cui aggrapparsi i quali spesso, quando ci sono, non è detto che siano in grado di aiutare a procedere verso il porto. Sembra, infatti, che i caratteri che, come vedremo, connotano diffusamente la società odierna non siano più consoni a sostenere il giovane nel suo processo di ricerca di una forma profonda ed autentica (e non superficiale o puntellata a surrogati illusori) di appagamento esistenziale: che esista, insomma, una sorta di frattura fra le esigenze – spesso espresse inconsapevolmente o attraverso modalità distorte - di una ‘sana’ crescita degli adolescenti e le risposte che il contesto riesce ad offrir loro. Assistiamo, così, ad una reale incapacità di farsi carico dei bisogni di crescita dei ragazzi: di comprenderli, interpretarli ed orientarli verso un porto sicuro, in un percorso che sia sostenuto dalla tensione verso chiari e coerenti valori oggettivi, e non in balìa di raffiche di vento che ne possano facilmente scardinare le instabili fondamenta. Infatti se è vero, come è stato detto, che “la maggior parte delle persone sembrano convinte che, una volta superata la tempesta, il porto d’arrivo non esista, o, piuttosto, non esista più”,107 è altrettanto vero che esiste il rischio, per nulla raro soprattutto per il giovane, di farsi condurre o traghettare passivamente in porti che altri hanno deciso, o di approdare a sponde non autenticamente scelte e vagliate, ma al quale egli si trova ad arrivare seguendo indicazioni o subendo esempi sbagliati, oppure

104 Ibid., p. 115

105 Ibid., p. 22

106 Ibidem

107 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., pp. 13-14

errando senza una meta. In questo frangente, il giovane raggiunge sì alcuni porti: ma si tratta di approdi malsani, insensati ed illusoriamente ammalianti.108 In altri termini, oggi occorre non solo preoccuparsi di attraversare la tempesta e raggiungere la prospiciente riva (indicata, un tempo, dalla tradizione) e nemmeno pensare di stabilizzarsi nella crisi109: occorre tentare di raggiungere la riva «giusta» in base a criteri di scelta e giudizio personali, che il contesto culturale non è più in grado di offrire. E questo, si badi bene, non coincide con l’esaltazione del soggettivismo o del relativismo, bensì con l’incentivare la capacità di valutazione dell’individuo, nel costante riferimento ad un mondo di valori oggettivi da scegliere e realizzare. Ma proprio in questo sta la difficoltà del giovane d’oggi: nello scegliere quale sia la riva «giusta per sé», per attraccare la propria esistenza, in base a quanto gli sussurra la voce della sua coscienza. Egli si trova, infatti, non solo nella situazione di poter contare unicamente sulle sue forze di giudizio, bensì nella necessità di dover riconoscere ed evitare gli ostacoli che gli frappone una compagine culturale ormai obsoleta e fortemente in crisi, appiattita sul presente e non in grado di fornirgli strumenti idonei per comprendere e decodificare il reale. Una cultura, in particolare quella giovanile110 (espressione fedele del clima assiologico odierno) foriera di ulteriori criticità,111 che scaturiscono dal continuo veicolare, attraverso mezzi altamente suggestivi (quali i programmi televisivi, il cinema e la narrativa)112 un’immagine uni-dimensionale e stereotipata della realtà, soprattutto adolescenziale.

Vengono selezionati ed esaltati solo taluni aspetti fortemente riduttivi - e riduzionistici - della complessità umana, nell’esclusivo tentativo di compiacere il giovane quale consumatore113 di servizi. Nondimeno, tali messaggi diffondono ed alimentano una pericolosa tendenza culturale: l’«appiattimento sul presente» e sulle esigenze, interessi,

108 È il caso, ad esempio, dell’immersione sempre più massiccia nell’irrealtà del mondo virtuale: un universo del quale il giovane si illude di detenere le chiavi, nel tentativo (magari del tutto irriflesso) di superare quel fastidioso senso di impotenza che lo pervade nel confronto col reale. Così, “non stupisce che, all’ombra di tale impotenza, si sviluppi la pratica dei videogiochi in cui ogni giovane, in una sorta di autismo informatico, diventa padrone del mondo in battaglie individuali contro nulla, su un percorso che non conduce da nessuna parte” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, p. 23)

109 Ibid., p. 14

110 Col termine giovanile intendiamo, in questo frangente, non la cultura prodotta dai giovani, ma quella a loro diretta.

111 Cfr. F. Larocca, Handicap indotto e società, cit.

112 A titolo esemplificativo ricordiamo, tra i programmi televisivi rivolti ad un pubblico giovanile,

“Uomini e donne”, “Il grande fratello”, “La pupa e il secchione” etc…; tra i film quelli del regista F.

Moccia (“Tre metri sopra il cielo”, “Amore 14” etc…) tratti da libri omonimi dello stesso autore.

113 Così, nella logica consumistica imperante, focalizzata sulle leggi di mercato, l’obiettivo che traspare inequivocabilmente coincide con l’acquisire il consenso del maggior numero di individui possibili richiedendo, loro, il minor sforzo pensabile: in un meccanismo che continuamente si autoalimenta.

pulsioni meno civili e più istintivamente egoistiche dell’animo umano, che lo spingono a sopraffare l’altro attraverso la furbizia, l’arroganza, l’aggressività verbale, la forza fisica, l’astuzia ed il totale disinteresse per il suo vissuto emotivo. L’avvenuto sdoganamento, effettuato, perlopiù, con leggerezza e irresponsabilità, di aspetti, dinamiche ed espressioni umane considerati, fino a non molto tempo fa, dis-educativi e dis-valoriali e oggi diventati tristemente “di moda”114, provoca ed esprime, allo stesso tempo, il mutamento assiologico in atto, del quale non si è forse completamente consapevoli né come adulti né, tantomeno, come educatori. Tutto questo fa sì che venga costantemente rimandato un ritratto semplificato e benevolo della realtà giovanile, dove l’inconsistenza, l’arroganza, la superficialità, l’ossessione per il successo e la mercificazione del proprio corpo perdono qualsiasi valenza negativa assurgendo, anzi, ad aspetti degni di un romanzo: di una triste fotografia che legittima proprio quei comportamenti che, in cuor loro, forse i giovani intuiscono essere irrispettosi ed alcune volte persino lesivi della dignità altrui. In una parola: il contrario della pro-socialità e dell’empatia che implicano, invece, la fatica dell’autoconsapevolezza, della riflessività e dell’impegno connessi a qualsiasi dinamica volta al cambiamento. Questo fa sì che programmi televisivi definiti ‘trash’, o film sulla condizione giovanile altamente banalizzanti la complessità dell’essere umano, riscuotano un enorme successo tra la generazione adolescenziale, sollecitando i meccanismi della volontà di piacere e di potenza, nonché facendo presa sulla tendenza alla comodità, all’agiatezza, all’appagamento immediato di bisogni da consumare voracemente quanto insensatamente. Ciò che emerge, allora, è la presenza di un clima socio-culturale che non fa leva sulla (potenzialmente presente, ma assopita e, per questo, bisognosa di essere sollecitata) volontà di significato dei giovani.

Da questo quadro, certamente poco confortante, si comprende come le naturali difficoltà che da sempre connotano la stagione dell’adolescenza assumano, oggi, intensità e configurazioni inedite rispetto al passato: si tratta di “un vero e proprio cambiamento qualitativo (…) che siamo impreparati ad affrontare non solo per la sua ampiezza, ma forse soprattutto per il suo contenuto. Il cambiamento e la ridefinizione del proprio modo-di-essere-presenza non risultano di certo agevolati da un tempo, come l’odierno,

114 Come diceva Frankl, “è diventato di moda prendersi gioco del mondo intero, dire male del prossimo, mandarlo all’inferno” (V.E. Frankl, Come ridare senso alla vita, cit., p. 213): questo esemplifica il cinismo e nichilismo della nostra epoca.

che spande i caratteri della tristezza e del pessimismo, del senso di precarietà ed imprevedibilità, dell’insicurezza ed incertezza permanenti. Una società, la nostra, caratterizzata, essenzialmente, dalla perdita della speranza messianica in un futuro migliore: dalla diffidenza e chiusura nei confronti del domani, dal sentimento di impotenza e disgregazione,115 dalla confusione, disorientamento ed arbitrarietà derivanti dall’evanescenza del principio di “autorità-anteriorità”,116 anch’essa tipica della nostra epoca. Si profila una deriva edonistica dettata dalla “felicità obbligatoria”,117 nonché dalla pretesa individualistica del ‘successo ad ogni costo’, seguente allo sdoganamento del narcisismo,118 nella pacifica convinzione che il proprio sé sia molto più importante di tutto il resto e, soprattutto, dell’altro da sé. Un contesto, quello odierno, nel quale si assiste all’aggirarsi di un ospite alquanto inquietante: il nichilismo,119 capace di diffondere un disordine angosciante, di confondere i pensieri e sgretolare gli orizzonti cui attingere per dare una forma alla propria esistenza, soprattutto nei giovani, i quali “anche se non sempre ne sono consci, stanno male (…).

Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso”.120 È un clima culturale, questo, che non può che rendere l’attraversamento di inesplorati territori esistenziali particolarmente burrascoso: infatti, “crescere pare diventato più difficile per tutti a causa della complessità della stessa realtà”,121 poiché “certamente i mutamenti rapidi del mondo esterno ed un certo smarrimento legato alla definizione dei ruoli, ai luoghi e ai tempi del vivere, ha diminuito quel carattere di naturalezza che in altri tempi e in altri contesti era possibile”.122

115 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., pp. 20-21. Dicono gli autori: “pervade la sensazione di essere gettati in “una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più temibile, che ci rende incapaci di far fronte alle nostre infelicità e ai problemi che ci minacciano” (Ibid., p. 20)

116 Ibid., pp. 25-30

117 E. Lukas, Prevenire le crisi, cit., p. 60

118 Cfr. G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo, cit., e anche C. Lasch, L’io minimo, cit.

119 Frankl definisce il nichilismo “il riduzionismo di oggi” e fa riferimento ad un episodio della sua fanciullezza per spiegare questo concetto (si rimanda a V.E. Frankl, “Il senso come categoria antropologica [1996]”, in Id., La sfida del significato, cit., p. 178).

120 U. Galimberti, L’ospite inquietante, cit., p. 11

121 C. Girelli, “In classe: prevenire e convivere con il disagio promuovendo il benessere”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., p. 117

122 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, op. cit. p. 35

4.3.3. Sociogenesi di un malessere diffuso

Da più parti emerge, così, una sofferenza generalizzata, espressa soprattutto da parte dei soggetti più fragili, meno in grado di dirigere consapevolmente il proprio processo di mutamento, in un contesto caratterizzato da crescente complessità, frammentazione dell’esperienza ed incertezza diffusa, tale per cui: “la crisi non è più l’eccezione alla regola, ma è essa stessa la regola nella nostra società”.123 Questo comporta che, per i soggetti adolescenti presumibilmente già attraversati da momenti critici, si assista ad una “crisi nella crisi”124: vale a dire, alle difficoltà individuali si aggiungono quelle socio-culturali, in un singolare quanto complicato intreccio dato dal mutuo influenzamento dei molteplici fattori in gioco che risultano inscindibili.

In questa prospettiva, allora, il malessere di tanti adolescenti (al di là delle forme che possa assumere e dell’intensità che riesca a manifestare) sembra maggiormente connesso ad un principio socio-genetico125 piuttosto che psico-patogenetico, nella convinzione che “la sofferenza mentale sia il sintomo di una crisi sociale più ampia”,126 riconducibile, oltre ai caratteri epocali prima delineati, anche alle matrici socio-culturali del fatalismo (quale cieca fiducia nel destino e fuga dinanzi le responsabilità personali), del collettivismo (come cristallizzazione di opinioni comuni in slogan e generalizzazioni totalitarie, a discapito delle opinioni personali) e fanatismo (quale meccanismo che porta ad ignorare la personalità di chi esprime un pensiero diverso dal proprio).127 Una società, la nostra, subissata dalla tecnica “la quale, con la sua fredda razionalità, relativizza e relega sullo sfondo tutte le simboliche e le immagini che l’uomo si era fatto

123 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 13

124 Ibidem

125 Questo concetto sembra ben espresso da una semplice frase: “crisi dell’interiorità originata dall’esterno” (ibid., p. 18). Riteniamo, tuttavia, importante sottolineare come la sofferenza individuale difficilmente possa essere ascritta ad un’unica causa: si tratta, infatti, di un evento multi-fattoriale dove, se certamente i fattori socio-culturali giocano un ruolo importante, nondimeno occorre considerare anche quelli afferenti ad altre dimensioni della personalità: biologica, psicologica e spirituale.

126 R. Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto, cit., p. 140

127 L’atteggiamento fatalistico, collettivistico e fanatico, unitamente alla condotta provvisoria di vita (propria di chi ritiene impossibile far fronte al destino), vengono riportati più volte da Frankl nel corso delle sue trattazioni, quali fattori patogeni caratterizzanti la società moderna. Si veda, in particolare, V.E.

Frankl, Come ridare senso alla vita. La risposta della logoterapia, Paoline, Torino, 2007, pp. 45-66; V.E.

Frankl, Homo patiens, cit., pp. 62-64

di sé per orientarsi nel mondo e dominarlo”.128 Ecco, allora, il tramonto delle antiche narrazioni, l’oblio delle domande di senso e degli interrogativi circa l’esistenza di un orizzonte di valori condivisi, nell’assuefazione ed automatismo con cui l’uomo cosiddetto ‘tecnologico’ utilizza (in realtà del tutto passivamente) “strumenti e servizi che riducono lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali”.129 Accade, così, che nell’illusione di dominare il mondo attraverso la tecnologia l’individuo ne risulti, egli stesso, asservito, trasformandosi in oggetto130 completamente assoggettato agli ingranaggi di una logica voracemente consumistica che, accanto all’uomo tecnologico, pone l’insensatezza dell’homo oeconomicus.131

Sembra proprio che i tratti socio-culturali di questo nostro tempo età costituiscano l’humus in cui prolifera, inesorabilmente, un profondo “occultamento di senso”,132 tale per cui il malessere dei giovani, al di là delle forme in cui possa manifestarsi, presenta un’intensa matrice culturale: anzi, il disagio risulta essere, prima di tutto, culturale. Si tratta “di un vero e proprio Zeitgeist e non semplicemente di un problema individuale”,133 di una “nevrosi collettiva”134 contraddistinta da una tragica triade di

128 U. Galimberti, L’ospite inquietante, cit., p. 20. Sul tema della tecnica si rimanda, anche, a U.

Galimberti, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999

129 U. Galimberti, L’ospite inquietante, cit., pp. 20-21

130 Infatti, purtroppo, “la nostra società è la prima che, possedendo delle tecniche, ne è anche, al tempo stesso, letteralmente posseduta. Ci limitiamo a premere dei pulsanti, ignorano il più delle volte quali meccanismi vengano innescati” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 24)

131 Per la complessa tematica del consumismo si rimanda, in particolare, a Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari, 2008. A questo argomento risulta connesso, anche, il tema della globalizzazione della nostra epoca che, in un’ottica educativa, è stato trattato in alcuni articoli: R. Mion,

“La globalizzazione: sfida dell’educazione”, Orientamenti Pedagogici, vol. 47, n. 6, 2000, pp. 937-956;

C. Nanni, “Globalizzazione ed educazione”, Orientamenti Pedagogici, vol. 49, n. 6, 2002, pp. 937-956; F.

Casella, “Disagio giovanile, globalizzazione e educazione”, Ricerca di Senso, vol. 1, n. 2, 2003, pp. 179-191. Per ulteriori approfondimenti: Z. Bauman, G. Battiston, Modernità e globalizzazione, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009.

132 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 77

133 D. Bruzzone, “Disagio giovanile e ricerca di senso”, cit., p. 197. Il carattere di diffusività di questo malessere, se coglie in particolare i giovani, sembra tuttavia non riguardare solo tale fascia di età: si tratta, in sostanza, della “angoscia di un’intera popolazione” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 9), di “un fondale su cui vengono tessute le realtà individuali e familiari. Potremmo anche definirla un’atmosfera esistenziale” (ibid., p. 30)

134 La nevrosi collettiva, o “nevrosi di massa”, viene ironicamente definita dalla stesso Frankl “sindrome del taxi”, in riferimento ad una conversazione avuta con un conducente in occasione di una sua conferenza in Georgia, e dalla quale emersero i tragici elementi sopra citati (V.E. Frankl, “Il senso come categoria antropologica [1996]”, in Id., La sfida del significato, cit., p. 172). Altri autori parlano di

“frustrazione esistenziale collettiva” (E. Lukas, Prevenire le crisi, cit., p. 62) che viene assimilata ad una

“depressione anomica” (ibid., pp. 62-63). Torna alla mente, anche in riferimento a quanto detto sopra

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 136-151)