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Una lettura fenomenologica

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 189-200)

Il disagio esistenziale

VI. Una lettura fenomenologica

“Giudicare le cose razionalmente o scientificamente significa volgersi alle cose stesse”

(E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica)

Dopo aver riflettuto sui vari modelli di interpretazione del disagio giovanile ed averne messo in luce alcuni nodi critici, tentiamo ora di delineare l’approccio che, secondo noi, riesce ad esprimere la complessità del fenomeno sul quale ci stiamo interrogando, nel rispetto delle molteplici dimensioni che lo connotano in quanto evento propriamente

‘umano’.1 Tra quei modelli o sguardi sul disagio, la nostra scelta si orienta sulla prospettiva fenomenologico-esistenziale la quale, tuttavia, viene assunta e via via delineata nella particolare declinazione che le conferisce l’analisi esistenziale di V.E.

Frankl. Come avremo modo di appurare tale orientamento, pur trovando profonde affinità con alcune delle prospettive nelle quali evolvono i punti di vista interpretativi tradizionali (prospettive2) risulta comunque originale rispetto ad esse, rappresentando così un efficace tentativo di un loro superamento integrativo.

Ma cosa significa adottare uno sguardo fenomenologico-esistenziale sul disagio giovanile? Se il metodo fenomenologico non è una semplice tecnica, né “un insieme di concetti astratti, difficili o poco attinenti alla vita di tutti i giorni, ma, al contrario, è un

1 Si tratta di impegnarsi continuamente nel difficile compito di superare la tendenza positivistico caratterizzata dalla volontà di “spiegare ciò che accade, di stilare diagnosi definitive, di stabilire precisi nessi causa-effetto secondo un modello eziologico… che misconosce l’effettiva problematicità delle esperienze esistenziali alle quali ci riferiamo e che conduce, di conseguenza, a limitare di molto le possibilità di intervento efficace sul piano educativo.” (G. Milan, Disagio giovanile e strategie educative, cit., p. 19)

2 Tali prospettive che, se vedono pian piano attenuarsi quei rischi di determinismo e riduzionismo, non riescono tuttavia ad affrancarsi completamente Ricordiamo che, nel capitolo precedente, abbiamo precisato come soprattutto la prospettiva dell’interazionismo simbolico e della fenomenologia di P.

Bertolini rappresentino degli indiscussi tentativi di superamento di quei rischi di determinismo e riduzionismo in cui scivolano lo psicologismo, il sociologismo e il biologismo. Tuttavia, abbiamo anche notato come, a nostro avviso, permanga uno sguardo rivolto alle cause, ai “perché” del disagio, in un’ottica che fatica ad andare oltre una logica eminentemente eziologica.

pensiero denso di implicazioni pratiche e etiche”3, nondimeno una lettura pedagogica del malessere adolescenziale richiede di integrare tale prospettiva fenomenologica con quella propriamente esistenziale. Lo sguardo pedagogico, infatti, ha certamente bisogno di comprendere e incontrare davvero l’altro, ma non può fermarsi qui: non può “essere quello di colui che semplicemente “fotografa” la realtà (…) o che si accontenta di capire e di spiegare ciò che vede, come spesso fa la scienza, senza però poter dire alcunchè sul senso delle cose”4. Pertanto, stante lo statuto epistemologico della pedagogia quale scienza pratico-prescrittiva5, si tratta di completare la prospettiva comprensivo-conoscitiva con quella trasformativo-orientativa. Infatti “da un punto di vista pedagogico (…) la fenomenologia risulta tanto più produttiva nella misura in cui non soltanto consente di esplorare e comprendere (…) ma riesce altresì ad offrire strumenti e prospettive”6 per promuovere – lo anticipiamo fin d’ora - un’educazione orientata alla ricerca di senso: qui si esplica l’anima propriamente «esistenziale» della nostra prospettiva sul disagio.

Pertanto: se è vero, come è stato detto, che “la fenomenologia è applicata o non è”7, tentiamo allora di tradurre i principi riconducibili al metodo fenomenologico in riferimento alla nostra lettura del disagio giovanile, per poi volgere il discorso in senso esistenziale.

6.1. «Lasciar essere»

Assumere il principio fenomenologico del «lasciar essere» significa, nell’economia del nostro discorso, permettere che il fenomeno del disagio giovanile ci si manifesti per quello che è, sostenendo lo sforzo (indubbiamente difficoltoso e mai definitivamente compiuto) di prescindere dai quadri teorici precostituiti lasciando, così, che emerga da

3 D. Bruzzone, “Oltre la gabbia dei mille tecnicismi. L’approccio fenomenologico come liberazione del metodo di lavoro”, Animazione Sociale, 2007, n° 8-9, p. 76

4 D. Bruzzone, “Saper «vedere»”, Note di pastorale Giovanile, Elledici, Torino, n.1 2009, p. 45

5 F. Larocca, Pedagogia generale, cit., p. 25

6 D. Bruzzone, “Fenomenologia dell’affettività e significato della formazione”, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit.p. 138

7 R. De Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano, 1998, p.

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sé nella sua essenza.8 Questo principio, al quale è sospesa una comprensione che aspiri ad essere autentica e non pregiudiziale, discende dall’esigenza fenomenologica di guardare la realtà con occhi nuovi9: non incasellandola in teorie ma, heideggerianamente, lasciandola vedere da se stessa così come si manifesta, nell’opzione fondamentale per uno “stile di pensiero caratterizzato dalla tesi che tutto ciò che appare è apparenza di qualcosa di essenziale (anche se, viceversa, non tutto ciò che è appare)”.10 Si tratta di un approccio discreto e delicato al fenomeno: che non parte dall’applicazione di categorie predefinite (con le quali spiegare o ordinare razionalmente il reale) e nemmeno dall’introduzione di nuovi contenuti teorici (con i quali sostituire quelli antecedenti o ‘riempire’ spazi nel tentativo di ricondurre nelle rassicuranti, ma forse obsolete, definizioni). Al di là di un’ottica puramente spiegazionistica, infatti, tale orientamento intende ‘far posto’ tra i concetti e le asserzioni esplicative, affinchè il disagio abbia l’agio di apparire per se stesso, e non per come viene dichiarato, spiegato e compresso nelle definite categorie nosografiche. Così,

“accomodarsi fra le cose” – ossia, fra le diverse esperienze ed espressioni di disagio dei giovani – “vuol dire (…) lasciar essere le cose come essenzialmente sono: lasciarle

“parlare” di sé”11, senza emettere giudizi superficiali o affrettati, per vedere oltre le variegate teorie ed eludere, così, il rischio di assumere in modo a-critico quanto esse sostengono. Questo presuppone una postura passiva della mente12: ricettiva e non pre-ordinatrice, che non assimila ma accoglie, che non ha già in mente che cosa sia il disagio giovanile, nella consapevolezza che non si tratti di un ‘dato’, ma di un darsi:

ossia, di un fenomeno che si svela man mano che si procede nella sua lettura e che non viene visto, perciò, all’interno di definizioni assunte in partenza. Ciò nell’intento di non affidarsi semplicemente al sapere impersonale proveniente dall’esterno, col rischio di ricadere nel medesimo errore che la tradizione fenomenologico-husserliana ha colto nelle scienze naturalistiche: ossia, incasellare un fenomeno in una categorizzazione

8 È importante “richiamare quanto Heidegger mette in evidenza, riguardo al concetto di fenomeno, nella sua etimologia derivata dal verbo greco “manifestarsi” che è una forma media del verbo illuminare, porre in chiaro (phàino) derivato dalla stessa radice di phòs, la luce. Il “fenomeno” perciò è da intendersi come ciò che si manifesta in se stesso” (V. Iori , “Per una pedagogia fenomenologica della vita emotiva”, in Id.

(a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., p. 58)

9 E. Stein rimanda, sovente, all’immagine di uno sguardo ‘aperto’ sul reale: di occhi ‘spalancati’, pronti ad accogliere tutto ciò che appare (cfr E. Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 1998)

10 R. De Monticelli, La conoscenza personale, cit., p. 13

11 Ibid., 58-59

12 Cfr. L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit., pp. 55 e segg.

teorica predefinita13. Di talché, interrogandoci sul disagio dei giovani attraverso uno sguardo che vuole comprendere e non spiegare, elaboriamo un sapere che scaturisce dalla tensione verso una conoscenza pre-categoriale. Si tratta di una conoscenza sul senso del disagio giovanile attraverso il vissuto14 delle persone: a partire, cioè, dall’esperienza soggettiva che esse avvertono, nell’intento di trarne quella sapienza esistenziale che una lettura enciclopedica ed astratta non potrebbe, crediamo, raggiungere. E se è vero che “le persone (…) hanno bisogno anzitutto di essere aiutate a pensarsi, e non di essere pensate”15, anche un fenomeno tipicamente umano e complesso come quello del disagio giovanile ha bisogno di essere aiutato a disvelarsi, e non di essere già pensato, una volta per tutte, all’interno di cristallizzazioni concettuali che ne precludono la comprensione. Occorre considerarlo come un ‘fenomeno vivo’, che si evolve e che non può essere contenuto in un sapere ingessato al quale sempre sfugge: un sapere che rischia, pertanto, di allontanarsi dalla realtà. Da tali considerazioni discende come il disagio giovanile (il quale, in base al punto di vista - o sguardo – adottato, assume forme diverse divenendo un “oggetto formale”16) possa essere visto nella dimensione del senso per effetto di questo sguardo fenomenologico-esistenziale che lascia spazio ai vissuti precategoriale e, pertanto, ad esigenze che assumono valenze anche esistenziali.

6.1.1. Mettere tra parentesi il già noto

Ma come affiora tale dimensione esistenziale? In che modo ‘si dà’ a vedere? Nella consapevolezza che qualsiasi punto di vista, lungi dall’essere neutro, risulti invece intriso di concetti (e finanche pregiudizi) legati, più o meno consapevolmente, ad una

13 A questo proposito puntualizzano S. Gallagher, D. Zahavi: “La fenomenologia, invece, non comincia con una teoria (…) bensì cerca di essere critica e non dogmatica, evitando per quanto possibile i pregiudizi metafisici e teorici. Cerca di lasciarsi guidare da ciò che è effettivamente esperito, piuttosto da quel che ci aspettiamo di trovare, dati i nostri impegni teorici. Ci chiede di non lasciare che le nostre preconcezioni teoriche diano forma alla nostra esperienza e, viceversa, di lasciare che la nostra esperienza dia forma e guidi le nostre teorie” (S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica, cit., p. 17)

14 “Ogni vissuto è la trasformazione, in un doppio movimento, dell’esperienza in fenomeno e del fenomeno in esperienza. Questo vissuto – insieme spaziale temporale, cognitivo, affettivo – può essere colto solo nella mutevolezza, nella sua discontinua trasformazione” (M. Maldonato , “Introduzione”, in B.

Callieri, Quando vince l’ombra, EUR, Roma, 2001, p. 29).

15 D. Bruzzone, “Oltre la gabbia dei mille tecnicismi”, cit., p. 79

16 F. Larocca, Pedagogia generale con elementi di didattica generale, cit., pp. 42-43

teoria di riferimento, risulta necessario avvalerci di uno degli strumenti principali dell’approccio fenomenologico per accedere alla realtà del disagio: l’epochè. Si tratta di

“non tener conto delle teorie sulle cose, escludere, ove è possibile, tutto ciò che si ascolta, si legge o che si è costruito da soli, avvicinarsi ad esse con uno sguardo privo di pregiudizi ed attingere ad una visione immediata”17, nella profonda convinzione che “la verità non si cela dietro le apparenze ma è già manifesta in ciò che si presenta sotto gli

“occhi” dell’esperienza”.18

Da questa «messa tra parentesi» assume una rilevanza precipua e fondamentale il sentire soggettivo dell’individuo, il vissuto di chi esperisce, in «prima persona», una qualche forma di disagio, giacché solo attingendo al vivo Erlebnis19 possiamo sperare di raggiungere l’autenticità di una situazione di disagio: di coglierla per ciò che davvero è, e non per quello che la ‘risulta essere’ attraverso la giustapposizione di cornici teoriche preordinate. Così, “a questo punto la scienza cede la parola alla saggezza, a quella saggezza del cuore di cui Pascal così egregiamente ebbe a dire: Le coeur a ses raisons que la raison ne connait point.” (…) Solo un’analisi fenomenologica condotta in maniera metodologicamente accurata circa il modo in cui l’uomo semplice, l’«uomo della strada», intende se stesso, ci consentirà di comprendere”20: di cogliere la sua situazione di disagio. Tale affermazione, che pone al centro dell’interesse scientifico e gnoseologico il punto di vista soggettivo della persona sofferente, trova il proprio fondamento nel principio secondo il quale non possa esistere una patologia della Weltanschauung: “la categoria sano-malato vale – per dirla in breve – solo per l’uomo, non per l’opera originale da lui prodotta, non per ciò che egli ha creato. (…) Il fatto che colui che ha una determinata concezione del mondo sia sano o malato, non è un

17 E. Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma, 2000, p. 66

18 D. Bruzzone, “Fenomenologia dell’affettività e significato della formazione”, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., p. 109

19 “L’Erlebnis è l’ “esperienza vissuta”: la presenza immediata di una percezione nella coscienza del soggetto, che si realizza in una forma unica e irripetibile, e tuttavia dipendente dall’immersione del soggetto stesso in un mondo di significati storici. L’ Erlebnis è una “messa in forma” della realtà: è la

“cosa” percepita e insieme il “significato” che essa assume nel rapporto con colui che la percepisce.” (P.

Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, cit., p. 64)

20 V.E. Frankl, Dio nell’inconscio. cit.,, p. 111. In Frankl, dunque, troviamo la chiara opzione per l’orientamento fenomenologico, in quanto “metodologia di osservazione scevra da pregiudizi, in grado di cogliere i fenomeni umani nella loro originarietà ed immediatezza prescientifica (…). Mediante la sospensione (epoché) di ogni preconcetto e la maggior aderenza possibile alla trasparenza della realtà fenomenica e all’intuizione che “l’uomo della strada”ha di sé, Frankl attinge alcuni dei suoi presupposti fondamentali. È il caso, per esempio, dell’inesauribile significatività dell’esistenza” (D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. 108)

argomento in favore o in sfavore per giudicarla vera o falsa. Che 2 + 2 faccia 4 è giusto anche se lo afferma uno schizofrenico”.21 Ciò significa sottrarre dall’insignificanza e dall’apparente incomprensibilità l’esperienza vissuta del soggetto finanche psicotico, restituendogli assoluta dignità e restaurando “la radicale costituzione antropologica delle esperienze”.22

Pertanto, il metodo fenomenologico si rivolge al soggetto e, “partendo dall’originaria comprensione che ha di se stesso (…) si limita a tradurre questa autocomprensione in termini scientifici. Essa non pronuncia alcun giudizio di valore, ma fa delle constatazioni di fatto circa le esperienze di valore vissute dall’uomo della strada”.23 Dunque, «lasciar essere il fenomeno» può significare intercettare i vissuti, le sensazioni, le attribuzioni di senso che la persona in difficoltà intuisce circa la propria situazione di sofferenza, giacché “l’esperienza che si ha di se stessi e degli altri come persone è primaria; essa si valida da sé; la sua esistenza è precedente a tutti i problemi di ordine scientifico o filosofico sulla sua origine o sulle sue possibili spiegazioni”.24 Infatti, esiste un’autocomprensione pre-riflessiva, che eccede e precede ogni acquisizione teorica: “ancor prima di avere un’idea di che cosa siano la filosofia, la psicologia, la psichiatria, io so già che cosa accade veramente nella vita”.25 Questo principio epistemologico, allora, “consente di mostrare l’essenza dell’esistenza nella sua datità immediata”26, cosicché la comprensione dell’oggetto formale «disagio esistenziale»

risulta sospesa non tanto all’assunzione di una teoria di riferimento (che spiegherebbe il fenomeno in modo mediato e deduttivo), e nemmeno ad un disegno di ricerca sperimentale o empirico che vede, ad esempio, nell’indagine quantitativa sulle diverse sintomatologie del malessere giovanile la metodologia adatta per poterlo conoscere induttivamente, quanto alla rilevazione e comprensione dell’esperienza fenomenologica.27 Così, attenendoci all’analisi esistenziale di V.E. Frankl, risulta il

21 VE. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, cit., p. 46. Questo principio rimanda, a sua volta, a quello dell’antagonismo psiconoetico che, come abbiamo avuto già modo di rilevare, afferma la relativa autonomia della sfera spirituale da quelle biologica e psicologica: autonomia che permette di affermare che lo spirito della persona, in realtà, non si ammala mai.

22 E. Borgna, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 8

23 V.E. Frankl, Dio nell’inconscio, cit., pp. 113-114

24 R.D. Laing, L’io diviso, cit., p. 28

25 V.E. Frankl, F. Kreuzer, In principio era il senso, cit., pp. 50-51

26 D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., pp. 308-309

27 In questo senso, “ciò che si sottrae alla ricerca scientifica tradizionale richiede di essere indagato da un angolo di visuale nuovo: non più solamente raccolte di «dati» sui quali formulare ipotesi verificabili

fondamento di fatto esperienziale, non in senso empirico-positivistico, nell’attenzione ai vissuti soggettivi emergenti da una specifica situazione di disagio. Un’autentica comprensione discende, allora, dall’assunzione di uno sguardo fenomenologico: ossia, nell’ “esprimere un’opzione metodologica che (…) presta un’attenzione privilegiata all’esperienze vissuta come via regia alla comprensione dell’umano”.28 Significa permettere al fenomeno del disagio di manifestarsi conferendo dignità scientifica ad elementi che, spesso, permangono nell’ambito dell’implicito e dell’impensato, poiché non rispondono alle domande pre-formulate secondo i modelli interpretativi consolidati.

Infatti, come abbiamo già rilevato, è conformemente ad un paradigma che si indaga scientificamente la realtà: ma “può la scienza veramente appagarsi di «verità» pro-vocate, tralasciando tutto ciò che resta al di fuori di ogni pre-richiesta?”29 Non sarebbe, invece, più opportuno concentrarsi anche su quegli elementi del reale – ossia, del disagio giovanile – “che permangono nell’oscurità, perchè non illuminati da alcun

«sapere»”?30

In linea con questo interrogativo, crediamo che il metodo fenomenologico consenta l’emergere di quei caratteri che accompagnano il sentire – quali la contraddittorietà, l’instabilità, il dissidio, l’incertezza, la complessità, l’indecifrabilità e la paradossalità –

“non «verificabili» (e perciò non tollerati) da una logica ordinata matematicamente”31 ma che, pure, connotano il fenomeno del disagio giovanile ed, in particolare, la questione così ‘sfuggente’ del senso: quel senso (o quegli abissi di senso) che il soggetto intuisce, per lo più confusamente, circa la situazione concreta di malessere che sta vivendo e che contribuisce a caratterizzarla autenticamente, seppur non nei modi

«chiari e distinti» del «già pensato». Così, “occorre riscoprire la «meraviglia» davanti a ciò che appare, dis-velandosi, ciò che non è stato già compreso e saputo, spiegato, analizzato, giustificato, ricondotto a verità pre-richieste. Uno sguardo «ingenuo» e

«meravigliato» può svelare il semplice che resta celato nel semplificato della riduzione definitoria”32, capace di mettere tra parentesi la quantificazione a favore di un approccio

empiricamente o stabilire, nomoteticamente, leggi generali; non più solo «segmenti» di indagine scorporati dalla globalità dell’evento” (V. Iori, Essere per l’educazione, cit., p. 2)

28 D. Bruzzone, “Fenomenologia dell’affettività e significato della formazione”, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, op. cit, p. 105

29 V. Iori, Essere per l’educazione, cit., p. 1

30 Ibidem

31 Ibidem

32 Ibid., pp. 1-2

qualitativo al reale. E proprio in tale «messa tra parentesi» sta l’insegnamento principe della fenomenologia, da intendersi come volontà di affrancamento - seppur momentaneo – dalla chiusura in cui costringono, spesso inconsapevolmente, le teorie che ci guidano nella lettura selettiva e filtrata della realtà.

6.1.2. Tornare alla conoscenza pre-riflessiva

Dunque, sembra proprio che una comprensione autentica del disagio giovanile sia sospesa alla volontà di conoscere i punti di vista teorici sul disagio (ciò che è stato detto e conosciuto del fenomeno) per poi dis-ancorarsene: alla finalità, apparentemente paradossale, di dimenticare quanto sia stato conosciuto. In altre parole, ci riferiamo all’atteggiamento di chi, consapevolmente ed intenzionalmente, intenda risalire e, dunque, tornare ad una conoscenza by acquaitance dopo aver però transitato – e messo tra parentesi – una conoscenza know that. Così, se “l’ideale fenomenologico di un ritorno alla conoscenza diretta delle cose e delle persone “in carne ed ossa” (come diceva Husserl), si ottiene mediante la pratica della Epoché”33, questo ritorno alla conoscenza by acquaitance risulta possibile proprio passando attraverso la conoscenza proposizionale, know that – elaborata, contenuta e discendente dai vari modelli interpretativi sul disagio esistenziale – considerando la progressiva conoscenza autentica del fenomeno come graduale approssimazione verso il ritorno ad una conoscenza genuina, by acquaitance. In questa prospettiva, la conoscenza know that si rivela oltremodo necessaria, poiché “sradicarsi dai luoghi simbolici acquisiti”34 non significa misconoscere i contributi teorici sul disagio: al pari dell’epochè, infatti, non coincide con “la negazione di ogni conoscenza precedente per affidarsi unicamente alle proprie intuizioni soggettive, al di fuori di ogni logica e di ogni razionalità”35. Anzi, occorre conoscere tale letteratura, immergersi nei suoi contributi: la conoscenza approfondita di questi ultimi, infatti, si rivela davvero essenziale al fine di poterli efficacemente superare36.

33 D. Bruzzone, Oltre la gabbia dei mille tecnicismi, o. cit., p. 76

34 L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit., p. 53

35 V. Iori, Essere per l’educazione, cit., pp. 90-91

36 Cfr. V.E. Frankl, Si può insegnare e imparare la psicoterapia? Scritti sulla logoterapia e analisi esistenziale, Magi, Roma, 2009

Tale prospettiva implica, pertanto, che siano proprio gli attraversamenti nelle conoscenze già elaborate a costituire il sub-strato, la piattaforma ed il «porto sicuro»

(ma non oscuro) dal quale salpare per esplorare nuove situazioni: per intraprendere nuove avventure conoscitive. Nello stesso tempo, però, è solo dalla loro «messa in ombra» che si può sperare di procedere verso l’essenza del fenomeno. La conoscenza know that, pertanto, risulta necessaria ma non sufficiente: occorre poi aver la forza di dimenticarla, di affrancarsi dalle sue acquisizioni rassicuranti che rischiano di imbrigliare ed opacizzare il fenomeno: si tratta, in sostanza, di perseguire la “continuità del disfare”.37 D’altro canto, se l’epoché “permette di realizzare il principio fenomenologico per eccellenza: quello della fedeltà al fenomeno e del rispetto per ciò che appare”38 (in base al presupposto gnoseologico che vede la verità – aletheia- come disvelamento, e il processo di conoscenza come «trarre qualcosa dal nascondimento»), nondimeno tale «disvelamento» può essere favorito anche dal non-precludere l’incontro con nuovi aspetti del disagio da esplorare, da accogliere e da considerare degni di attenzione scientifica. Ciò coincide, alfine, col principio più prosaico del «lasciare il certo per l’incerto»39: del discostarsi dalle categorie nosografiche consuete, o dalle spiegazioni assunte e condivise, per inoltrarsi in territori instabili, ambigui e incerti:

quelli attinenti il vissuto soggettivo.

Si tratta, così, di guadagnare una conoscenza pre-categoriale, ante-predicativa ed intuitiva, che viene ad essere la risultante di un processo di approfondimento e

‘dimenticanza’ della conoscenza preposizionale. In questa prospettiva, allora, la conoscenza by acquaitance è il principio (punto di partenza) e il fine (punto di arrivo, mai pienamente raggiunto e raggiungibile) del processo stesso di conoscenza inteso in senso fenomenologico. Pertanto, se è vero che le intenzioni linguistiche (ovvero, la conoscenza proposizionale del disagio) “hanno radici nell’incontro prelinguistico e antepredicativo con il mondo”40, occorre allora affidarsi a questa conoscenza precedente al discorso predicativo sul disagio: all’autocomprensione ontologica pre-riflessiva dell’individuo, la quale coincide col suo vissuto profondo, col suo modo

37 L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit., p. 53

38 D. Bruzzone, Oltre la gabbia dei mille tecnicismi, cit., p. 77

39 Detto più finemente, questo principio rimanda ad una concezione del conoscere come continuo rinnovar-si: “la conoscenza vera implica che si rinasca”, L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit., p. 50

40 S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica, cit., p. 140

personalissimo di esperire la propria situazione di malessere, e che solo uno sguardo fenomenologico attento può riuscire ad intercettare.

6.2. «Comprendere dall’interno»: la strada dell’empatia

Adottare un approccio fenomenologico-esistenziale significa, dunque, optare per un

“possibile strumento di accesso scientifico alla realtà relazionale, in grado di dischiudere una fondamentale apertura del concetto di scienza: da un’accezione rigida, causale, deduttiva, empirica, oggettiva o astrattamente razionale a un’accezione che comprenda lo scorrere vivo dell’Erlebnis (l’esperienza vissuta)”.41 Si tratta di una lettura del disagio che si riferisce ad una comprensione che, lungi dall’esser volta alla ricerca della cause per spiegare, coincide piuttosto con una “visione intuitiva dello spirito”42, «dal di dentro», e che non si riduce al solo percepire «in prima persona». Si può anche entrare, infatti, in una esperienza indirettamente, vivendola – per analogia e per immedesimazione – come se la si esperisse originariamente, attraverso una comprensione di “ciò che accade dentro”.43

Ma come possiamo comprendere «dal di dentro» un’esperienza non vissuta direttamente? Come si può raggiungere il vissuto connesso ad una situazione di disagio la quale, originariamente, non è stata esperita? Risulta possibile aprirsi al vissuto dei giovani qualora scendiamo “nelle aree sconfinate della nostra interiorità, della nostra soggettività, e analizziamo le nostre emozioni (…) Solo così, ed è la fatica di ogni giorno, ci è possibile conoscere l’altro nella sua stanchezza e nella sua precarietà, nel suo taedium vitae e nella sua gioia (così friabile), ed essergli di un qualche aiuto”.44

41 V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., p. 16

42 K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit., p. 30

43 J.H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, Bompiani, Milano 1961, pp. 100-101

44 E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005, p. 206. Sul tema della conoscenza di se stessi attraverso la comprensione dell’altro da sé, e viceversa, Bruzzone afferma che “la comprensione del proprio sentire, del proprio pensare e del proprio agire in situazione, del resto, è strettamente connessa alla possibilità di intuire e accogliere il vissuto dell’altro. Benché infatti sia indubbiamente vero che il mondo altrui è destinato almeno in parte a restare un enigma irrisolto e un mistero dinanzi al quale sostare con rispetto, è altrettanto vero che un contatto più profondo con la propria esperienza emotiva permette ai professionisti della cura di diventare, giorno dopo giorno, “esperti di umanità”, capaci di ascoltare e di comprendere simultaneamente l’io e il tu della relazione.” (D. Bruzzone, “Fenomenologia dell’affettività

Il riferimento è al concetto di empatia (Einfühlung) come a “quel ‘sentire’ che rende possibile l’originario costituirsi della comunicazione intersoggettiva”.45 Così, possono esistere analogie di vissuti, tra soggetti diversi, che rimandano ad una “matrice originaria comune”,46 la quale costituisce la condizione per potersi immedesimare nei vissuti dell’altro da sé «come se» fossero i propri, non perdendo tuttavia di vista la personale ed altrui individualità. Tale atto di immedesimazione risulta centrale per la comprensione degli Erlebnisse del disagio giovanile, poiché “mentre tutti i sintomi oggettivi possono essere immediatamente mostrati e possono essere convincentemente presentati nella loro reale presenza a chiunque abbia capacità di percezione sensibile e di pensiero logico, i sintomi soggettivi (…) possono essere colti solo attraverso l’immedesimazione nella psiche dell’altro, attraverso l’empatia, essi possono essere portati alla visione interiore solo grazie all’esperienza vissuta comune (Miterleben) e non attraverso il pensare”.47 Si tratta di Miterleben: dell’instaurarsi di un’analogia, nel modo di vedere e di stare nel mondo, che accomuna al sentire di un altro individuo;

anche a colui col quale non si sia condivisa la stessa esperienza «in prima persona». In questo senso, ascoltare ad esempio un esploratore parlare delle proprie avventure può costituire un’esperienza capace, indirettamente, di fa vivere (e non solo ri-vivere) quelle avventure a chi lo ascolti: perché il modo di viverle e di guardarle dell’uno è analogo a quello dell’altro. Ed è proprio su questa analogia di sguardo che si basa l’empatia quale processo non semplice né scontato, ma risultante dallo sforzo, dall’impegno e dalla volontà di accedere al mondo dell’altro, e di vederlo con i suoi stessi occhi. Si tratta, pertanto, di “un atto che è originario in quanto esperienza vissuta presente, benché non sia originario rispetto al suo ‘contenuto’ (Gehalt) (…) il soggetto dell’esperienza vissuta empatizzata – e questo è il fatto fondamentale nuovo rispetto al ricordo, all’attesa e alla fantasia di proprie esperienze vissute – non è lo stesso soggetto che opera l’empatia, bensì un altro (…). Vivendo nella gioia dell’altro, io non provo alcuna gioia originaria”.48

e significato della formazione”, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., pp.

162)

45 V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, cit., p. 196

46 E. Musi, “Tra tecnica ed esistenza: i sentimenti come risorsa professionale”, in (a cura di V. Iori) Il sapere dei sentimenti, cit., p. 76

47 K. Jaspers, “L’indirizzo fenomenologico in psicopatologia (1912)”, in Id., Scritti psicopatologici, Guida, Napoli, 2004, p. 28

48 E. Stein, L’empatia, Franco Angeli, Milano, 1992, p. 62-63

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