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La percezione del dis-agio

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 116-126)

Il disagio giovanile:

IV. Il disagio giovanile

4.1. La percezione del dis-agio

Da uno sguardo generale su alcuni studi, sembra che il disagio dei giovani d’oggi sia connotato dai toni del dis-impegno etico, della dis-illusione verso un futuro da

progettare, del dis-interesse verso qualcosa o qualcuno che non siano essi stessi e della dis-attenzione affettiva: insomma, un vero e proprio trionfo del «-dis».

Nondimeno, il disagio giovanile risulta essere un argomento di grande attualità: ad esempio, ne parlano diffusamente i media - quasi quotidianamente – amplificandone, spesso, solo alcuni aspetti, col risultato di un’accresciuta enfasi emotiva generale. Il rischio è quello di applicare alla categoria dei ‘giovani’ ciò che connota, in realtà, episodi isolati: infatti l’espressione disagio giovanile “è diventata un’etichetta che tende ad attribuire in modo generico uno stato di malessere all’intera condizione minorile”.1 Si tratta, naturalmente, non di minimizzare, bensì di trattare tali eventi col rispetto e l’attenzione che meritano, al fine non solo di evitare inutili e pericolosi allarmismi, ma soprattutto di comprenderli nel modo più autentico ed onesto possibile.

Con tale intento, la nostra riflessione prende le mosse dal termine disagio che, etimologicamente, “è costituito dal prefisso «dis» che indica negazione e dalla parola

«agio» che significa «giacere presso». Disagio designa dunque la condizione di chi vive ai margini, si sente escluso, isolato, lontano dagli altri e da se stesso”2: una condizione di estraneità, di lontananza e di mancanza-di-contatto non solo tra sé e l’altro da sé ma anche, e forse soprattutto, “tra ciò che una persona esperisce e ‘sente’ e ciò di cui, esperendo e vivendo, sa di poter dire che cosa vive”.3 Èpur vero che la stessa parola

«agio» – che il prefisso «dis»connota in senso peggiorativo - può significare “lo stato d’animo corrispondente ad una situazione gradevole, comoda o vantaggiosa”.4

4.1.1. Tra disadattamento e devianza

Disagio, allora, viene qui a designare non tanto – o non unicamente – una condizione di esclusione ed emarginazione rispetto a qualcosa o qualcuno, quanto la percezione di un

1 F. Pizzi, “Disagio giovanile e bullismo”, Pedagogia e Vita, n. 1, 2010, p. 116

2 D. Mesa, “Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico. Modelli a confronto, Carocci, Roma, 2006, p. 57. La definizione del termine che leggiamo nel “Dizionario della lingua italiana”, di G. Devoto e G.C. Oli, Le Monnier, Firenze, 1971, recita così alla voce disagio: “condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute;

mancanza (di cosa necessaria od opportuna)”

3 D. Bruzzone, “Fenomenologia dell’affettività e significato della formazione”, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, cit., p. 154. Il richiamo dell’autore va al concetto di

«incongruenza» di C. Rogers (cfr. C. Rogers, Un modo di essere, cit., p. 102)

4 G. Devoto e G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, cit.

vissuto emotivo5: un modo di sentir-si relativamente ad una determinata situazione. Si tratterebbe, allora, di una “condizione legata a percezioni soggettive di malessere (il disagio si «sente», ma non necessariamente si «vede»)”.6

Non è facile, comunque, connotare univocamente il termine in questione, che evoca concetti differenti a seconda degli elementi posti in primo piano rispetto ad un ampio, quanto sfumato, sfondo semantico.7 Tale ambiguità emerge anche dal constatare come la voce «disagio» non compaia, di fatto, nelle principali enciclopedie tematiche di psicologia, pedagogia e sociologia. In ragione di ciò, può essere d’aiuto partire dalla riflessione, seppur breve, sui concetti ad essa correlati: primariamente, quelli di

«disadattamento» e «devianza», con una rapida incursione nei territori della

«delinquenza».

Disadattamento

Anche per definire il disadattamento dobbiamo riferirci, nondimeno, al concetto di adattamento, quale “processo attraverso cui un individuo o un gruppo stabiliscono con il proprio ambiente naturale o sociale una condizione di equilibrio o per lo meno di assenza di conflitto. Il processo avviene attraverso la combinazione di manovre alloplastiche, volte a modificare l’ambiente, e autoplastiche, tese a modificare se stessi in vista di un accettabile equilibrio. Quando il risultato di queste manovre non sortisce l’effetto si parla di disadattamento, solitamente riferito all’ambiente sociale”.8 Disadattamento o adattamento in funzione, dunque, all’ambiente sociale e all’equilibrio che si riesce a stabilire con esso: come “incapacità di trovare adeguate modalità di

5 Anche G. Amenta fa riferimento ai vissuti della persona, connotando il disagio come difficoltà percepita e vissuta da parte del soggetto, di non poter soddisfare determinati bisogni (Cfr. G. Amenta, Gestire il disagio a scuola, La Scuola, Brescia, 2002). Giova anche il riferimento, nella stessa prospettiva, al pensiero di R. Mion, secondo il quale il disagio si riferisce in prima istanza ad una somma di vissuti soggettivi che includono sofferenza, frustrazione e profond insoddisfazione (cfr. R. Mion, “Nuove forme di emarginazione. Figure professionali emergenti e strumenti formativi”, in AA.VV., Disagio giovanile e nuove prospettive del lavoro sociale, Grafic House, Venezia, 1995).

6 L. Regoliosi, La prevenzione del disagio giovanile, Roma, Carocci, 2001, p. 20 (il corsivo è mio)

7 Possiamo convenire che “non esiste una definizione teorica sufficientemente approfondita e univoca sul tema” (F. Pizzi, “Disagio giovanile e bullismo”, cit., p. 116): si tratta, infatti di “una «parola-valigia» che allude a situazioni e comportamenti diversi” (G. Milan, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma, 2001, p. 8), tanto che alcuni autori arrivano a sostenere che “non esiste (…) un contenitore che si chiami «disagio giovanile»” (F. Cambi, M.G. Dell’Orfanello, S. Landi (a cura di), Il disagio giovanile nella scuola del terzo millennio. Proposte di studio e intervento, Armando, Roma, 2008, p. 11)

8 U. Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, cit., p. 7

relazione con il mondo esterno e di convivenza con gli altri”,9 come relazione disturbata

“con uno specifico ambiente (si parla infatti di disadattamento scolastico, sociale, etc.)”.10 La nozione di equilibrio rimanda al principio dell’omeostasi, da intendersi come lo stato al quale sarebbero dirette, in un’ottica funzionalista, le attività intraprese dal soggetto.

Devianza

Il riferimento al tessuto sociale diventa particolarmente incisivo nel concetto di devianza, appartenente “a una tradizione culturale, quella funzionalista, che assume l’esistenza di un consenso condiviso sul sistema di valori e di regole (…) che si istituzionalizza e va a governare i comportamenti individuali”.11 In questa prospettiva, deviate risulta quel comportamento che si discosta, in modo più o meno pronunciato, dai modelli sociali dominanti. Si tratta di un concetto essenzialmente «normativo» (che si riferisce non a una caratteristica intrinseca al comportamento, bensì ad un giudizio etico espresso su di esso) e «relativo» (dato che muta col variare del gruppo di riferimento e delle condizioni storiche).12 Ciò che riteniamo importante sottolineare, è la convinzione che “la devianza, la criminalità, non sono caratteristiche proprie di alcun comportamento umano; non sono l’espressione di nessun tipo di personalità. Il comportamento e la personalità possono divenire socialmente devianti, in rapporto all’esistenza (…) gli investimenti di attribuzioni, di carattere simbolico e istituzionale, orientati in maniera selettiva su di essi”.13 L’accentuazione di tale dinamica interattiva - tra l’individuo ed il suo ambiente sociale - trova espressione, soprattutto, in ambito sociologico: emerge, infatti, una vasta letteratura che intende la devianza minorile come

“scostamento rispetto a tutto ciò che costituisce la ragione e la base di un ordinamento sociale”.14 È con il contributo dell’interazionismo simbolico15 che, a dire il vero, si

9 I. Di Dedda, Educare alla legalità. Fondamenti, problemi, prospettive d’intervento, ISU, Milano, 2008, p. 168

10 L. Regoliosi, La prevenzione del disagio giovanile, cit., p. 20

11 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, op. cit. p. 74

12 Questa prospettiva, prettamente sociologica, può essere ben rappresentata dai contributi di A.K. Cohen, che considera la devianza legata all’appartenenza ad una classe socialmente svantaggiata e culturalmente deprivata, presumendo così che “le reazioni devianti assumano una forma tipicamente sub-culturale”

(A.K. Cohen, Controllo sociale e comportamento deviante, Il Mulino, Bologna, 1969, pp. 195-196)

13 G. De Leo, L’interazione deviante. Per un orientamento psico-sociologico al problema della norma-devianza e criminalità, Giuffrè, Milano, 1981, p. 3

14 D. Izzo, A. Mannucci, M.R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, ETS, Pisa, 2003, p. 99

incentiva il superamento dei tradizionali approcci interpretativi al problema della devianza, basati sui concetti di normalità e patologia.16 Ciò nella convinta messa in discussione di nozioni fortemente valutanti l’agire individuale in funzione di una norma precostituita, e nella profonda consapevolezza di quanto tali categorie concettuali contribuissero, in realtà, a creare e perpetrare ciò che avrebbero inteso curare, nella logica della “deviazione secondaria”.17 In questa prospettiva la devianza non esiste come «fatto in sé»18: non si tratta di una caratteristica che connota intrinsecamente la personalità del soggetto, bensì di un aspetto che sorge sempre in rapporto ad una norma trasgredita, riconosciuta e sanzionata socialmente. Tale violazione, inoltre, viene rivolta – in uno specifico contesto storico e socio-culturale - a certuni comportamenti e non ad altri, in un processo di attribuzione che porta il soggetto deviante all’identificazione stigmatizzante con un determinato ruolo o «etichetta» (ad esempio, del tossicodipendente o dell’alcolizzato). E, in un gioco pericolosamente alimentato da logiche pregiudiziali e stereotipanti, la definizione di tale «stigma»può arrecare con sé un insieme di percezioni sociali, attese ed aspettative negative che non fanno altro che aggravare, a loro volta, le difficoltà del soggetto deviante, rendendolo perlopiù stabile nel suo ruolo. Così, deviante non è tanto colui che devia dalla normalità, quanto chi incorre in una norma che stigmatizza la sua diversità e che lo induce ad essere proprio come ci si aspetta che sia in conformità a quello stigma. In tal senso, la condizione svalutativa di devianza assume un valore non tanto descrittivo, quanto prescrittivo, poiché l’individuo etichettato come deviante assume i caratteri disapprovati quali componenti fondamentali e permanentemente strutturanti la propria identità, “in una

15 Tale orientamento, che nasce negli anni ’60 negli Stati Uniti ed è noto anche con il nome di Labeling Theory (ossia, teoria dell’etichettamento), prende le mosse dagli studi psico-sociali di E. M. Lemert (Cfr.

Id., Devianza. Problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè, Milano, 1981) e H. S. Becker (Cfr. Id, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Gruppo Abele, Torino, 1987). Si veda, anche, lo studio di D. Matza, Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976).

16 Si rimanda, per una disamina dei concetti in questione alla luce di uno sguardo interdisciplinare che incrocia il sapere psichiatrico con quello sociologico, giuridico e teologico, a M Foucault, Gli anormali.

Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2000 (in particolare, pp. 13-56)

17 Questo concetto “concerne una particolare classe di risposte, socialmente definite, che le persone danno ai problemi creati dalla reazione sociale nei confronti della loro devianza. (…) Per coloro che ne fanno esperienza essi divengono fatti centrali dell’esistenza, che alterano la struttura psichica e danno luogo ad una nuova e particolare organizzazione dei ruoli sociali e degli atteggiamenti nei confronti del sé” (E.M.

Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di devianza, cit., p. 88)

18 Come viene precisato in numerosi studi, il comportamento deviante viene definito “in riferimento ad uno specifico sistema culturale e normativo, modificando il quale viene modificata anche la definizione di devianza” (B. Barbero Avanzini, Devianza e controllo sociale, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 11)

profezia che si autoadempie. Si verifica, cioè, l’effetto Pigmalione”.19 Oltre a questo aspetto normativo-prescrittivo la devianza assume, altresì, i contorni dell’alta visibilità sociale, i quali difficilmente ineriscono le situazioni più sfumate e meno identificabili del disagio, che possono caratterizzare “anche la condizione di soggetti «socialmente inclusi»”.20

Delinquenza

Sinteticamente, tale fenomeno “si esprime nell’infrazione delle norme vigenti e delle regole condivise e che giunge talvolta a vere e proprie azioni criminose. Delinquenza e criminalità sono concetti relativi alla norma in vigore nel contesto sociale in cui si compie l’azione oggetto di giudizio etico, nonché all’epoca storica che può registrare un abbassamento o un innalzamento della soglia di tolleranza”.21 Così, la devianza sfocia in delinquenza quando si scontra con la legge penale, designando “la condotta di individui che non si adattano alle esigenze fondamentali della vita sociale e violano leggi e consuetudini che sono generalmente accettate dal gruppo sociale e cui appartengono”.22 Questo concetto appare quello maggiormente approfondito, almeno in ambito psicologico e criminologico, essendo stato oggetto di studio di vari modelli teorici23: biologico-costituzionale (che ipotizza uno stretto legame fra specifiche anomalie cromosomiche e delinquenza); psicoanalitico (che parla di «propensione» alla delinquenza e criminalità, derivante dai conflitti con le figure parentali nel periodo infantile in cui si sviluppa la coscienza morale, ritenendo altresì che la maggior parte dei delinquenti siano psicopatici); comportamentista (che vede la delinquenza come il frutto di un insuccesso nell’apprendimento e, in particolare, di quel processo che O. H.

Mowrer24 ha denominato «condizionamento passivo di evitamento», che permetterebbe al soggetto di associare ad azioni proibite uno stato emotivo spiacevole derivante dalla punizione) e psicosociale (nel pensiero di N. Mailloux25 si ipotizza che alla base della

19 D. Izzo, A. Mannucci, M.R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, cit., p. 110

20 D. Mesa, “Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., pp. 59-60

21 U. Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, cit., p. 277

22 M.L. De Natale, Devianza e pedagogia, La Scuola, Brescia, 1998, p. 37

23 Qui accenniamo solamente a come viene vista la delinquenza: non risulta possibile, infatti, addentrarci nelle varie interpretazioni, né sui sottostanti principi antropologici.

24 Cfr O.H. Mowrer, Learning theory and the symbolic processes, John Wiley, London New York , 1960

25 Cfr N. Mailloux, Delinquenza e ripetizione compulsiva, Vita e Pensiero, Milano, 1964

delinquenza vi sia la proiezione, da parte della famiglia, di un’immagine negativa – frutto dell’insicurezza dei genitori – esprimentesi in un eccesso di protezione.

4.1.2. Un modo di essere-nel-mondo

Da queste brevi annotazioni possiamo trarre una considerazione in merito al fenomeno dal quale siamo partiti: il disagio si configura come un fenomeno meno radicale e più sfumato rispetto alla devianza e delinquenza giovanili, un’«area grigia»tra la patologia conclamata e la cosiddetta normalità, riconducibile ad “un’ampia gamma di fenomeni anche molto differenziati”.26

È qualcosa di diffuso e spesso non riconosciuto, poiché “affatto eclatante”,27 sommerso ed asintomatico.

Si parla, a questo proposito, di “nuove fragilità”28 le quali, sovente, sfuggono ai consolidati e rassicuranti riferimenti diagnostici, faticando ad emergere, ad essere legittimate e riconosciute (finanche dai soggetti stessi). Questi ultimi, infatti, percependo un disagio ‘altro’, diverso e dai contorni più incerti rispetto alle forme concrete, visibili e tradizionali, non si autorizzano ad esprimerlo: abbiamo a che fare, pertanto, con “nuovi disagi di persone che provano vergogna d’esporsi”.29

Nella società della post-modernità, pertanto, affiorano “nuove malattie che eccedono e spiazzano le tradizionali categorie di lettura nosografiche e amministrative con cui il sistema di welfare ha decifrato e avvicinato per decenni i problemi delle persone e delle famiglie (e che proprio per questo diventano «invisibili»)”.30 In ragione di ciò, occorre sempre considerare come ciascun comportamento non sia solamente ciò che appare: si tratta della punta di un iceberg, al di sotto della quale “c’è sempre un’intenzionalità, consapevole o meno, un modo di leggere la realtà, l’espressione di un bisogno, la

26 D. Mesa, “Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., p. 76. Con questo termine, dunque, si può far riferimento “a quegli atteggiamenti giovanili non conformi alle aspettative degli adulti, ma neanche categorizzabili come trasgressivi o patologici”, (F. Pizzi, “Disagio giovanile e bullismo”, cit., p. 116)

27 P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, Guerini, Milano, 2009, p. 114

28 Cfr. V. Iori, M. Rampazi, Nuove fragilità e lavoro di cura, “Strumenti” n. 14, Unicopli, Milano, 2008, ed anche V. Iori, D. Bruzzone, “Ripartire da sé, ripartire dallo sguardo. L’inquietudine creativa dell’operatore sociale”, cit., pp. 3-11

29 R. Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto, cit., p. 13

30 Ibid., cit., p. 10. Cfr., anche, R. Travaglino, Fenomenologia del disagio giovanile: appunti per una pedagogia della devianza, Edizioni Goliardiche, Trieste, 2004

ricerca di un riconoscimento da parte degli altri. In questa logica, anche i comportamenti problematici sono indizi da interrogare per coglierne il valore comunicativo, la loro forma di domanda”.31

Come accennato, al di là di ciò che possa definire un comportamento o una condotta come disagio, disadattamento, devianza o finanche delinquenza (a seconda, comunque, della soglia di tollerabilità decisa in un determinato contesto storico-sociale), emerge un elemento che accomuna le varie manifestazioni di malessere dei giovani: la situazione di difficoltà percepita non tanto, o non solo, dal contesto sociale - che interpreta quei comportamenti come “dissonanti rispetto a un certo modello condiviso di competenza sociale”32 - quanto nel vissuto personale del soggetto stesso. L’attenzione, pertanto, va ad una connotazione di devianza, disadattamento e disagio che non emerge dal confronto con un parametro convenzionale di presunta normalità, ma che vede il malessere come un vissuto riferito alla situazione esistenziale della persona: al suo modo di intenzionare il reale. Dunque: devianza il disagio, la delinquenza, il disadattamento da qualcosa o qualcuno – che si è stabilito costituire, convenzionalmente, la norma e la normalità – differisce sensibilmente dal disagio come modo-di-essere presenza nel mondo.

Su questa linea, lungi dal focalizzarci sulla manifestazione comportamentale ritenuta socialmente dissonante affermiamo, dunque, la centralità di ciò che sta ‘a monte’ e che

“precede l’individuazione delle differenze sul piano del loro comportamento: la percezione di una difficoltà”.33 Esiste, infatti, un elemento particolarmente significativo e maggiormente “saliente di qualsiasi ulteriore distinzione: la strutturazione debole o disadattiva di una visione del mondo e di sé-nel-mondo-con-gli-altri”.34 A ben vedere, allora, la distinzione fra disagio, disadattamento e devianza risulta, forse, poco centrale ai fini del nostro discorso, poiché i giovani rivelano “una certa omogeneità quanto ai presupposti del loro comportamento”,35 riconducibili ad una sostanziale “difficoltà a

31 C. Girelli, “In classe: prevenire e convivere con il disagio promuovendo il benessere”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit.,, p. 129. Dunque, “il sintomo rappresenta solo l’epifenomeno di diverse possibili condizioni esistenziali” (M.A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine, Carocci editore, Roma 2007, p. 10)

32 P. Bertolini, L. Caronia, , Ragazzi difficili, cit., p. 10

33 Ibid., p. 11

34 Ibid., p. 12

35 Ibidem

diventare soggetto”.36 Occorre uno sguardo, dunque, “capace di ricostruire non solo un’azione o una situazione ma anche e soprattutto il significato che quell’azione e quella situazione hanno per chi vi è coinvolto”.37 Da questo punto di vista, nondimeno, risulta alquanto difficoltoso

operare distinzioni fra fenomeni afferenti alle categorie concettuali del «disagio»,

«disadattamento» e «devianza» poiché emerge come, di fatto, si tratti spesso di situazioni esistenziali sfumate, poco incasellabili e comprimibili in ‘comparti stagni’, dai contorni ben definiti. Occorre considerare, infatti, il fluttuare degli individui tra comportamenti identificabili come ‘semplice’ disagio, atteggiamenti talvolta connotabili come devianti, e vissuti esistenziali problematici di dis-adattamento. Questo vale, a maggior ragione, per chi si trovi nella complessa fase giovanile della propria esistenza, dove “l’iter disagio esistenziale, disadattamento, devianza (…) assume il significato di una struttura sistemica nella quale il tutto non è la semplice somma delle parti”.38 Così, proprio tenendo conto della natura squisitamente sistemica, e perciò unica, di ogni situazione esistenziale, risulta impensabile forzarla all’interno di definizioni riduzionistiche e generalizzanti: la qualità del personale modo-di-essere-nel-mondo eccede, infatti, qualsiasi criterio meramente addizionale e quantitativo di interpretazione.

Stante le considerazioni fin qui avanzate, che cosa intendiamo allora con l’espressione

«disagio giovanile»? Ci riferiamo, per ora, a quella sensazione, a quel vissuto e percezione di malessere che avverte il soggetto – in particolare il giovane - nel rapportarsi alla sua realtà, al di là delle manifestazioni comportamentali che possa assumere. Intendiamo, dunque, una difficoltà avvertita nella relazione intenzionale39 del soggetto con il mondo-della-vita: una sofferenza connessa alla percezione di ostacoli nel processo di significazione delle cose, persone, eventi che costellano la sua realtà e che appaiono così, ai suoi occhi, destituiti di ogni senso. Il disagio, pertanto, appartiene primariamente alla condizione dell’esperire: all’Erleben, ossia al “«fare esperienza»,

36 Ibid., p. 13

37 Ibid., p. 21 (il corsivo è mio)

38 G. Vico, Educazione e devianza, La Scuola, Brescia, 1998, p. 31

39 Sul discorso dell’intenzionalità, quale aspetto fondamentale per comprendere l’attraversamento, da parte del soggetto, di alcune forme o territori dis-agiati, ci sembra possa contribuire L. Pati, quando parla del disagio come situazione in cui si trovano quegli individui che, “dotati di normali potenzialità di crescita, sono però stimolati dall’assetto relazionale di appartenenza ad apprendere a comunicare con se stessi, con il mondo delle cose, delle persone e dei valori in maniera errata” (L. Pati, Pedagogia sociale.

Temi e problemi, Brescia, la Scuola, 2007, p. 114

nel senso di un percepire, o attribuire una forma al mondo”,40 all’avvertire una sensazione di malessere, di dis-accordo emotivo nel rapporto col proprio mondo-della-vita. Si tratta, nella fase aurorale, di un vissuto che può faticare a trovare espressione e, ancor prima, ad essere compreso e consapevolizzato dal soggetto stesso: di una percezione il cui momento sorgivo si situa nel rapporto speciale ed unico che la persona - ogni persona - instaura col proprio mondo-della-vita, nel modo in cui la sua coscienza intenziona la realtà. È questo modo-di-essere-presenza, infatti, che segna la specificità di ciascun soggetto e che, nel riferimento ai personali vissuti emotivi, può risuonare come agio o come disagio nella sua interiorità. In tale prospettiva il disagio può apparire come prestazione (piuttosto che come sintomo): come modo-di-essere-nel-mondo, di essere presenza secondo la qualità dell’essere-in-ricerca o, viceversa, dell’essere-in-stallo. E, crediamo, sia proprio quest’ultima condizione esistenziale a connotare un vissuto di disagio nei soggetti, che pertanto ha da essere rapportato non tanto ad una situazione di frustrazione di bisogni (da imputare ad una dinamica intrinseca o estrinseca al soggetto), quanto al personale processo di conferimento di significato al reale, che preclude la “capacità e/o possibilità di inserimento attivo e creativo dei giovani nella società e nelle istituzioni”.41 Questo richiamo ai concetti di attività e creatività, ai quali risulta sospesa una situazione di agio o di disagio, rimandano ai dinamismi che connotano la coscienza dell’individuo: il suo essere organo di significato, capace di intuire e rispondere responsabilmente alle esigenze dell’esistenza.

40 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, cit., p. 121

41 E. Butturini, Disagio giovanile e impegno educativo, La Scuola, Brescia, 1984 (il corsivo è mio). Su questa linea sembra muoversi gli orientamenti che ispirano la “nuova cultura per l’infanzia” declinati, essenzialmente, in due linee di tendenza che vedono i giovani sia come bisognosi di protezione, sia come soggetti di diritti in ogni ambito: primo fra tutti, il diritto di essere davvero protagonisti della propria crescita (cfr. AA.VV., Relazione sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia 2008-2009.

Temi e prospettive dei lavori dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Istituto degli Innocenti, Firenze, 2009).

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 116-126)