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Nodi critici

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 169-179)

Il disagio giovanile:

V. Approcci teorici e di intervento

5.2. Nodi critici

Circa i modelli interpretativi appena considerati sul disagio dei giovani possiamo ravvisare alcuni nodi critici generali. Infatti, se è certamente vero che l’insieme degli elementi bio-psico-sociali costituisce ciò che nell’uomo risulta passibile di indagine scientifica attraverso la biologia, la psicologia e la sociologia, “ciò non significa, peraltro, che in esso si esaurisca l’umanità. La quale, anzi, sembra collocarsi precisamente al di là di ogni acquisizione scientifica, in una dimensione ulteriore inaccessibile all’esplorazione naturalistica (…) il vero e proprio “essere uomo”

comincia soltanto laddove finisce la possibilità di fissarlo e determinarlo, di definirlo in modo univoco e conclusivo”.83

estremamente flessibile (…) I contributi più recenti estendono l’applicazione di questo modello alle situazioni educative più ordinarie” (ibid., p. 9)

80 Cfr. ibid., pp. 70-72

81 Froggio cita come primo lo “Student Teams Achievement Divisions” (quale programma di apprendimento cooperativo più conosciuto); poi lo “Jigsaw” (o “puzzle”), il “Learning Togheter” ed il

“Group Investigation” (ibid., p. 78). Nel testo si richiamano, anche, modalità di intervento orientate sia alle competenze didattiche ed educative dei docenti , per ovviare ai possibili rischi di un insegnamento standardizzato, sia ai loro atteggiamenti affinchè possano apprendere, attraverso il modeling e un training di interazione educativa, a fungere da guida autorevoli per i ragazzi (ibid., pp. 74-76)

82 Ibid., p. 177.

83 D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. 181

Nella consapevolezza di ciò e, naturalmente, al di là dell’indubbio contributo che ciascuno di quegli approcci di studio conferisce, nella specificità delle rispettive angolature, alla comprensione del fenomeno in oggetto, crediamo si possano comunque individuare alcuni rischi, rientranti negli riflessi residuali di un paradigma essenzialmente positivista, che ne potrebbero precludere una conoscenza ancor più approfondita e, di conseguenza, rispettosa della dimensione specificatamente umana del disagio giovanile.

5.2.1. Rischio di riduzionismo

A cominciare dal primo rischio che si intravede tra le pieghe degli approcci sul disagio, notiamo fin da subito come esso possa essere identificato con una forma particolare di

«deduzionismo». Esso riconduce, infatti, “il comportamento umano a processi di apprendimento o di condizionamento, a meccanismi biochimici o psicodinamici o socio-economici, costituisce una forma particolare di «deduzionismo»”84 che si può esprimere, a nostro avviso, sia come riduzione ontologica che come riduzione eziologia.

Nel primo caso, si tratta della riduzione della complessità di un fenomeno ad un solo fattore, allo stesso modo di quando si osserva la realtà attraverso la lente di un cannocchiale: ciò che appare, naturalmente, non è il reale nella molteplicità dei suoi elementi, bensì un’unica sezione del reale che viene assunta, però, come la totalità.

Così, un occhio esclusivamente sociologico riconduce il tutto alle macro-variabili che intervengono nei fenomeni sociali e, parimenti, uno sguardo centrato in modo esclusivistico sulle dimensioni psicologiche riduce “i fenomeni al livello strettamente individuale ed intrapsichico”.85 È questa assunzione del parziale come se fosse la totalità del reale a condurre alle varie forme di riduzionismo: infatti, “gli ‘-ismi’ iniziano nel momento in cui un’immagine settoriale viene considerata in maniera totale: quando, cioè, si opera un processo di generalizzazione”.86 Da tale rischio non sembrano immuni, in forme più o meno accentuate, i modelli teorici sopra evidenziati poiché, se è pur vero, come abbiamo accennato, che oggi la maggior parte degli studiosi è consapevole della

84 V.E. Frankl, Die Sinnfrage in der Psycotherapy, Piper, Munchen, 1992, p. 54 (traduz. D. Bruzzone?)

85 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro, cit., p. 74

86 V.E. Frankl, Homo patiens, cit., p. 18

multidimensionalità dei fenomeni e, pertanto, della necessità di un approccio interdisciplinare, è altrettanto innegabile che la tendenza ad assolutizzare il proprio punto di vista si rivela tuttora tenacemente in agguato. Così, non di rado, si riporta ogni fenomeno al proprio settore di indagine, scivolando ora verso il fisiologismo87, o lo psicologismo88 o il sociologismo89, a seconda che l’aspetto assolutizzato sia ravvisabile, rispettivamente, nelle reazioni chimiche, nei meccanismi dell’apparato psichico o nelle forze sociali90. In ogni caso, tale rappresentazione caricaturale dell’uomo, quale emerge da un concetto positivistico della conoscenza, lungi dal “corrispondere alla realtà integrale dell’esistenza”91 ci restituisce un quadro in cui il soggetto “appare come una marionetta che si dimena ora all’interno, ora all’esterno. L’immagine autentica dell’uomo si trasforma in una caricatura: l’uomo diventa un homunculus”.92

Ma esiste, come detto, anche una variante eziologia del riduzionismo: quella che, nell’interrogarsi su ciò che causa un fenomeno, riconduce la sua origine ad un’unica sorgente, rimanendo così irretita nelle “secche di un pensiero che ragiona secondo le alternative tra «predisposizione/ambiente», «eredità/educazione»”.93 A questo proposito, può essere opportuno affondare la riflessione sul concetto di sociogenesi (in

87 D’altro canto, “solo prescindendo da tutto ciò che l’uomo è al di là, proprio agendo come se l’uomo fosse una semplice essenza corporea, si può esercitare la neurologia” (V.E. Frankl, Homo patiens, cit., p.

58)

88 “Il funzionamento del sistema nervoso centrale dell’uomo – o di qualunque altro animale – può essere spiegato fino ad un certo punto ricorrendo ad un computer, ma il computer può servire solo da modello parziale. L’uomo, allo stesso tempo, è ‘niente altro che un computer’ ma anche infinitamente di più: è dimensionalmente più di un computer” (V.E. Frankl, “Psichiatria e volontà di significato”, in V.E. Frankl, G. Torellò, J. Wright, Sacerdozio e senso della vita, Ares, Milano, 1970, p. 27. Nondimeno, lo psicologismo assume spesso le forme del patologismo, poiché “lascia apparire dello psichico solo ciò che è malato” (V.E. Frankl, Homo patiens, cit., p. 37)

89 “Nell’essere umano tutto è condizionato socialmente ed il sociologismo vede unicamente questo condizionamento sociale, interpretando di conseguenza la realtà umana come incastrata e imprigionata in u reticolo di condizionamenti al punto tale che dietro di essa si nasconde e si dilegua ciò che è effettivamente umano” (Ibid.., p. 53)

90 Ci chiediamo: è possibile parlare, anche, di “pedagogismo”? E se sì, in quali termini? Infatti, così come riflettiamo sulle forme nichilistiche del sociologismo e psicologismo, si può forse avanzare l’esistenza di un nichilismo pedagogico: del velo di riduzionismo che offusca, oggi, una pedagogia non attenta alla dimensione esistenziale e che, come vedremo nella quarta parte del lavoro, riduce l’educazione o al movimento del ‘tirar fuori’ (nel pericolo di derive soggettivistiche ed immanentistiche) o al ‘metter dentro’ (col rischio, invece, di indottrinamento), misconoscendo la direzione verso i valori oggettivi. A questo proposito K. Dienelt parla, così come riporta D. Bruzzone, di una “pedagogia di ascendenza psicoterapeutica, perlopiù viziata dall’ “influsso imperante dell’emozionalismo” psicoanalitico che neppure la psicologia umanistica (…) è riuscita a scrollarsi di dosso” (D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. 261)

91 Ibid., p. 179

92 V.E. Frankl, Homo patiens, cit., p. 19.

93 In questo caso, “il sapere scientifico conduce a una riduzione dell’essere umano a pura effettualità biologica e psicologica” (E. Fizzotti, “L’immagine frankliana dell’uomo tra teoria e prassi”, Humanitas, 32, 1977, 11, p. 844)

riferimento al disagio giovanile e, in particolare, a quel vissuto di vuoto esistenziale che, per ora anticipiamo solamente e ci riserviamo di argomentare nel prossimo capitolo diffusamente, ne costituisce la matrice originaria). Infatti, se è certamente vero che

“anche il vuoto esistenziale è collegato in buona misura ai mutamenti sociali”94, ciò non significa, tuttavia, affermare che la causa del vuoto esistenziale sia esclusivamente sociale la quale, infatti, rappresenta certamente una componente importante di quel fenomeno, ma non l’unica. Il vuoto esistenziale (così come il disagio giovanile al quale è, secondo la nostra ipotesi, sotteso) è uno stato complesso (che scaturisce dal rapporto tra il soggetto e il suo mondo-della-vita: un rapporto contrassegnato dalla difficoltà ad accedere alle dimensioni della trascendenza); un fenomeno che non è riconducibile e nemmeno riducibile ad un’unica matrice: se così fosse, e a prescindere da quale potrebbe essere l’aspetto assolutizzato, cadremmo inevitabilmente l’errore del riduzionismo. In tale prospettiva, allora, non possiamo ridurre un evento complesso quale è il vuoto esistenziale (e, di riflesso, il disagio giovanile) né all’eziologia né alla sintomatologia del disadattamento sociale (o, anche, psichico o biologico): tale vissuto di vuoto, infatti, scaturisce da con-cause, e si estrinseca in una complessa quanto plurisfaccettata gamma di espressioni. Parimenti, al disagio giovanile possono concorrere altre cause o fattori concomitanti al vuoto esistenziale: difficoltà di ordine sociale, psichico, psicodinamico, e così via.

Da quanto fin qui argomentato, forse il «fattore primario»95 nella formazione del vuoto esistenziale non sta nelle condizioni sociali: bensì nel modo del soggetto di porsi (di prendere posizione) nei confronti di quelle condizioni che sicuramente condizionano ma non determinano.96

94 G. Froggio, “Genesi e mantenimento dei disagi sociali e delle condotte devianti secondo la logoterapia di Frankl”, in “Chi ha un perché nella vita…”, cit., p. 116

95 G. Froggio, “Genesi e mantenimento dei disagi sociali e delle condotte devianti secondo la logoterapia di Frankl”, in “Chi ha un perché nella vita…”, cit., p. 120. Tale autore individua, per l’appunto,“il fattore primario nella formazione del vuoto esistenziale risiede i condizioni più generali, di ordine sociale e culturale” (ibidem)

96 Tra l’altro: il fatto che tante persone ne siano interessate è sufficiente per dire che la causa è sociale?

Forse no: non è, infatti, il dato della sua incidenza massificante a darci conto della valenza sociale di un fenomeno (motivo per il quale l’eziologia sociale di un fenomeno non è da ricondursi alla quantità di persone coinvolte). Semmai, l’influsso della società nell’eziologia del vuoto si manifesta non tanto in senso quantitativo, quanto qualitativo: nel fatto, cioè, che persone con storie di vita differenti, esperienze e contesti sociali diversificati esperiscano un comune vuoto di senso. Ciò testimonia, invece, la presenza (o la mancanza) di qualcosa di profondo e sottile che permea trasversalmente i diversi contesti sociali, da quelli poveri a quelli benestanti, da quelli culturalmente avvantaggiati a quelli

Nondimeno, forse si tratta di ravvisare come l’incidenza della società non si giochi tanto al livello di una mera dinamica di stimolo-risposta (veicolante l’idea che gli individui siano una massa informe, omologata, che risponde nel medesimo modo agli stimoli), quanto nell’addormentamento della coscienza dei singoli individui,97 ossia in un modo di “star dentro” al proprio tempo e alle proprie condizioni epocali del tutto immanentistico? In tale prospettiva, allora, se di origine sociogena si vuole parlare, occorrerebbe intenderla non sul disagio, ma sui dinamismi ad esso sottostanti, di tipo essenzialmente esistenziale.

Su questa linea ci pare attestarsi la posizione di L. Pati nel suo volume dedicato ai soggetti “in condizione di disagio esistenziale (i così detti disadattati sociali)”,98 quando specifica che “il disadattato sociale (…) può essere convenientemente capito soltanto se è colto nel rapporto dialogico intrecciato con il mondo, nel suo costante mostrarsi come

“essere con”, di là da qualsiasi facile riduzionismo”99, giacché “alla luce delle acquisizioni pedagogiche, risulta opportuno considerare la condotta disturbata come risposta soggettiva, funzionale al contesto esperienziale”100. In questo modo viene preservata la ricca complessità del soggetto, nella sua relazione col mondo della vita.

5.2.2. Rischio di determinismo

Premettiamo brevemente che, se esistono varie declinazioni di determinismo quale dinamismo più o meno meccanicistico, fondante sul presupposto - presente spesso in forme striscianti quanto latenti - che “il reale esiste sempre e soltanto in nessi causali rigorosi e senza lacune”101, tenteremo qui di enuclearle brevemente in due sole diramazioni: quella psichica e quella ambientale (o sociale). Sul versante del determinismo psichico ogni stato, atto psichico o comportamento sarebbe la necessaria

97 Cfr. il concetto di «colpa collettiva», contro il quale si è espresso tenacemente V.E. Frankl, nella convinzione che Persista, in ogni caso da parte del singolo individuo, un margine di libertà che gli permette di prendere posizione nei confronti delle condizioni: la possibilità di agire diversamente dalla massa, e di rispondere in modo creativo. Non è detto, infatti, che alle stesse situazioni le persone producano le medesime risposte. Tragica testimonianza ne è l’esperienza dei lager.

98 Cfr. L. Pati, L’educazione nella comunità locale, La Scuola, Brescia, 1996 (dal retro di copertina)

99 Ibid., p. 9

100 Ibid., p. 11

101 Cfr U. Galimberti, Enciclopedia di psicologia, cit., p. 301

conseguenza di certi antecedenti fisiologici102 o psicologici103, con conseguente riduzione dello spazio generalmente assegnato alla libertà, alla spontaneità e quindi alla responsabilità. Tale prospettiva ha permeato, in modo particolare, la psicologia del profondo, poiché Freud pervenne e diede legittimità alla nozione di inconscio proprio tramite l’impiego rigoroso del principio del principio di causalità, che è alla base della lettura deterministica della psiche104. Dal punto di vista del determinismo ambientale, invece, le caratteristiche della condotta e della personalità scaturirebbero fondamentalmente da fattori ambientali e contestuali, non da caratteri o capacità innate.

Come noto ha contraddistinto, soprattutto, il comportamentismo di Watson e Skinner, che vede l’organismo come assolutamente plastico e passivo, la cui configurazione dipenderebbe solo dagli stimoli presenti nell’ambiente105. Così, il tentativo di ridurre l’origine del malessere ad una reazione dell’individuo a stimoli generalizzabili e chiaramente identificabili ha permeato anche gli studi sul contesto familiare e gli stili educativi genitoriali: ma, “anche in questo caso, la perplessità non è affatto relativa all’incidenza di queste dinamiche su un soggetto in età evolutiva quanto all’individuazione di un supposto legame causale e necessario tra esse e il suo comportamento deviante”.106 Nondimeno, anche la ricerca sul contesto sociale rivela, alla fine, “un modello implicito di attore sociale come soggetto passivo rispetto alle pressioni sociali e culturali (…) e il suo comportamento non ne sarebbe che l’esito determinato e prevedibile”.107 Ma non solo, poiché anche l’approccio costruttivista

102 Bertolini effettua una convincente critica al determinismo biologistico in forza di una prospettiva fenomenologica, che rimanda “a quel complesso processo di successive elaborazioni, variabili storicamente, culturalmente e individualmente, attraverso cui un fatto per quanto “organico”, per quanto

“disfunzionale” è investito o deinvestito di significato” P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p.

25)

103 Rimandiamo, anche per il determinismo psicologistico, alla critica che ne fa Bertolini, cfr. ibid., pp.

24-27

104 “Oggi la concezione deterministica della psiche è mantenuta da quanti intendono portare la psicoanalisi al livello metodologico delle scienze esatte, mentre è abbandonata da quanti hanno spostato la comprensione dei fenomeni psichici dal piano della causa a quello del significato” (U. Galimberti, Enciclopedia di psicologia, cit., p. 301)

105 È presente, anche se con sfumature diverse, nella psicologia della forma (Lewin ritiene che l’organismo sia il risultato dell’interazione delle forze in azione nel campo) e nella teoria dell’apprendimento sociale di Bandura che, rispetto alla concezione all’epoca dominante (che associava l’apprendimento all’esperienza diretta) ha dimostrato che nuovi comportamenti possono essere acquisiti mediante la semplice osservazione di modelli. Questa forma di apprendimento, basata sull’imitazione, è resa possibile dal meccanismo del “rinforzo vicariante”, per cui le conseguenze relative al comportamento del modello (ricompense o punizioni) hanno i medesimi effetti sull’osservatore.

106 P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi difficili, cit., p. 27

107 Ibid., p. 29 Come sostiene l’autore, “l’idea di subcultura e di socializzazione che sottende queste ipotesi appare sotto certi aspetti una versione sofisticata dell’idea di senso comune secondo cui basterebbe

mantiene l’assunto della responsabilità sociale nella genesi del disagio: responsabilità che, se non viene più ricondotta a situazioni, contesti di vita ed ambienti sociali, viene comunque individuata “nelle interazioni sociali, negli scambi comunicativi e nelle manipolazioni simboliche attraverso cui un soggetto giunge ad essere considerato e definito deviante dagli altri”.108 Permane, così, un’immagine dell’individuo come “puro destinatario di influenze a lui estranee. La forza vincolante non è più esercitata da fatti o condizioni (psicologiche, familiari, sociali), ma dalle definizioni imposte dagli altri su un soggetto che assume i tratti della vittima di processi e pratiche a cui sembra non poter rispondere che adeguandosi”.109

Da queste battute si evince, allora, che il carattere deterministico di tipo psichico o ambientale è ravvisabile in una concezione eminentemente causalistica del disagio:

ossia nel fatto che, nella quasi totalità110 degli approcci considerati precedentemente, l’attenzione sia preminentemente sulle cause, sulla ricerca dei fattori scatenanti e possibilmente predittivi della situazione di malessere del giovane. Tale preoccupazione eziologica rientra in una tradizione positivistica, rifacentesi al paradigma della spiegazione (Erklären) che vede il disagio, essenzialmente, come frustrazione di una sfera particolare di bisogni, differenziandosi da quello della comprensione (Verstehen), che considera il disagio una condizione esistenziale.111 Le cause vengono ravvisate ora

frequentare “cattive compagnie” per diventare delinquenti. In realtà la prossimità e l’esposizione a modelli o gruppi devianti – pur essendo sicuramente un fattore importante quanto ala comprensione di alcuni singoli casi – non basta a rendere conto del fatto che alcuni individui fanno proprio quel modello:

molte persone che hanno contatti frequenti con persone devianti (…) non diventano per questo devianti (ibid., p.30)

108 Ibid., p. 31

109 Ibid., p. 33. In realtà, prosegue Bertolini dalla sua prospettiva fenomenologica, “come ogni altro dominio di esperienza, le definizioni ammesse e le rappresentazioni di senso comune si pongono di fronte al soggetto come altrettante “realtà” che egli elabora cognitivamente, cui attribuisce un certo significato, su cui àncora la sua definizione: ed è a questa che egli reagisce sovrapponendo alla realtà e alla definizione condivisa della realtà il suo personale punto di vista” (ibidem).

110 Risulta opportuno precisare che, a nostro avviso, tale afflato deterministico (che, essenzialmente, de-responsabilizza l’individuo nell’insorgenza del disagio) risulta meno permeante alcune delle correnti tra quelle considerate precedentemente: ossia quei punti di vista che, nati da prospettive bio-psico-sociali chiaramente deterministiche, riconoscono invece un ruolo centrale al soggetto nell’insorgenza del disagio.

Tale è, ad esempio, la prospettiva dell’interazionismo simbolico e quella fenomenologica. Quest’ultima, infatti, pur concentrandosi anch’essa su ciò che può originare il disagio dei ‘ragazzi difficili’ (origine che ravvisa nel significato che il soggetto conferisce al suo comportamento ed al reale che lo circonda), contempla la libertà del soggetto: libertà che si esprime, per l’appunto, nelle diverse, originali e singolari modalità di interpretare la realtà.

111 “Ad evitare ambiguità ed oscurità impiegheremo sempre l’espressione ‘comprendere’ (verstehen) per la visione intuitiva dello spirito, dal di dentro. Non chiameremo mai comprendere, ma ‘spiegare’

(erklären) il conoscere i nessi causali obiettivi che sono sempre visti dal di fuori” (K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 2000, p. 30)

negli aspetti organici, ora in quelli psichici, ora in quelli sociali. Così, l’esigenza di spiegare il fenomeno del disagio giovanile (come quello del disadattamento minorile)

“si è tradizionalmente sviluppata all’interno di un paradigma eziologico (…) fino al più recente, ma spesso implicito, determinismo socioculturale”.112 In connessione con questo, ciò che accomuna tali modelli interpretativi è la direzione dello sguardo, che è volto sempre “all’indietro”: su ciò che, per l’appunto, determina, sui “perché” del disagio, a prescindere dagli aspetti di volta in volta considerati. Così, porre attenzione unicamente ai “perché” significa, comunque, rimanere ancorati ad una prospettiva deterministica dell’uomo: all’idea che per superare un problema occorra partire dalle cause, e superare ciò che ha originato una difficoltà. Si rimane impigliati nel passato: in ciò che ha preceduto, nella convinzione che il benessere consegua ad un processo lineare113, e nell’illusione positivista “di poter contare su una meccanica dell’anima e su una tecnica della psicoterapia”114, di talché sia sempre possibile “riempire i buchi” del passato, compensare le carenze patite o sradicare le cause una volta che questa siano venute alla luce. Ciò tradisce un’idea di salute come esito finale di un percorso certo che va dall’intercettazione alla risoluzione della cause: alla loro estirpazione, poiché non sembra concepibile un’idea di benessere che preveda la possibilità di convivere con le proprie sofferenze e mancanze, dandogli un senso. Così, nonostante “l’epistemologia contemporanea (abbandonato il concetto secondo cui le leggi scientifiche sono traduzioni realistiche dei fenomeni naturali) ha sostituito il concetto di causalità con quello di “legge descrittiva” che non avanza più la pretesa di spiegare i fenomeni, ma solo quella di comprenderli e di descriverli”, riteniamo che questo non muti, nella sostanza, la direzionalità dello sguardo di questi modelli interpretativi. Pur mutandone la finalità, infatti, non cambia l’attenzione al passato piuttosto che al futuro (la centralità dei perché sui “per-che, per-chi”). L’attenzione a comprendere – che è indubbiamente un passo avanti rispetto alla pretesa spiegazionistica propria alle scienze della natura,115

112 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 24. Su questo tema si veda, anche, G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionali e nuovi modelli di trattamento, NIS, Roma, 1990

113 Pensare positivisticamente che ad una determinata causa debba conseguire, in senso lineare, un effetto, significa non tener conto del fatto che “la visione causale lineare è ingenua e riduttivista, non tiene in considerazione i diversi fattori che intervengono nella formazione e nel mantenimento di una condotta deviante” (A. Pacciolla, “Presentazione”, in G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit., p. 14)

114 V.E. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, cit., p. 45

115 Infatti, , “spieghiamo la natura, comprendiamo la vita psichica” (W. Dilthey, “Idee per una psicologia descrittiva e analitica”, in Id., Per la fondazione delle scienze dello spirito, cit., p. 355). Dal punto di vista

permane comunque volta a porre in luce quello che c’è stato, le mancanze del passato, e non a promuovere quello che dovrebbe esserci: le risorse del soggetto, nonostante tutto ciò che abbia causato il suo disagio. Il modello esplicativo rimane, pertanto, causalistico e, per quanto contempli la centralità del soggetto e dei suoi processi cognitivi di interpretazione soggettiva del reale, non riesce comunque a prescindere da una logica deterministica, che fa dipendere non solo l’emergere del disagio, ma anche la sua evoluzione ed eventuale superamento da quei processi mentali che costruiscono, in ultima analisi, il “perché” del malessere.

Ciò comporta, inevitabilmente, una tendenza de-responsabilizzante nei confronti del soggetto, che induce a “considerarlo come il semplice risultato di processi di condizionamento di vario tipo – struttura organica, ambiente socio-culturale, educazione, scolarizzazione, ecc. -, con la conseguenza di confinare le dinamiche a livello di spontaneismo, di capriccio o di puro arbitrio”116. Infatti, “la psicologia clinica e la psichiatria hanno fatto poca attenzione in passato al problema dell’autocontrollo. E la ragione di questo atteggiamento va ricercata nella convinzione diffusa che il comportamento umano sia soggetto ad una forma di determinismo psichico rappresentato da una serie di elementi sui quali il controllo che il soggetto può esercitare è pressoché nullo”.117 Così, la messa in luce dei fattori – intrinseci od estrinseci – sottostanti al suo disagio pone certamente in ombra il margine di libertà, decisionalità e scelta responsabile che, a nostro parere, comunque permane, in qualsiasi situazione118. A questo proposito Frankl denuncia il ricorso, da parte dei paradigmi sociologici e psicoanalitici, al “capro espiatorio” dei meccanismi psicologici e biologici della natura umana, trascurando appieno “l’intenzionalità come fenomeno che è intrinseco all’uomo.

In effetti, nell’ambito della mia psiche non esiste qualcosa come una carica aggressiva che cerchi di trovare una via d’uscita e costringa me, sua ‘semplice vittima’, a cercare degli oggetti che si prestino al compito di cacciarla fuori”.119

della comprensione fenomenologica, l’interrogativo di fondo, lungi dall’essere “che causa ha quella situazione?”, suona invece così: “che significato ha quella situazione concreta per quella persona?”

giacché “l’oggetto si risolve nel significato che esso assume per l’Io, e l’Io nell’oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia” (K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit., p. 62)

116 E. Fizzotti, “Prefazione”, in D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. XII

117 D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. 219

118 Il rischio di una deriva de-responsabilizzante nei confronti della persona è comunque meno presente, a nostro avviso, nella prospettiva pedagogica, qualora si parli di “conferimento di senso” e non di automatismo dei fattori psico-sociali sull’individuo.

119 V.E. Frankl, Un significato per l’esistenza, cit., p. 70

Ecco, allora, che il primo passo necessario sta certamente nel riconoscimento della

“centralità del soggetto e i processi squisitamente personali e originali in base a cui egli partecipa alla costruzione di se stesso”120, al di là di ogni concezioni che lo destituisca della sua costitutiva responsabilità nella costruzione della sua esistenza, ma nella prospettiva di un suo superamento: ossia, di procedere oltre un orizzonte eziologico.

Tuttavia, onde evitare equivoci, precisiamo senza alcuna esitazione che le nostre critiche asserite fino ad ora non intendono in alcun modo misconoscere la portata scientifica delle prospettive citate: nondimeno, riteniamo che tale paradigma causalistico sia suscettibile di integrazioni volte, al di là delle cause, a individuare e promuovere le risorse.121

Risorse che, purtroppo, vengono adombrate da un altro aspetto strettamente connesso all’ottica causalistica: l’ancoraggio ad un principio riparativo che, come è già emerso, discende dall’idea che il benessere dell’individuo sia legato alla “riparazione” dei danni subiti in passato, alla possibilità di poter colmare le carenze lasciate insoddisfatte nel corso della propria esistenza, o di poter compensare ai danni subiti. Si tratta, ribadiamo, di una concezione semplicisticamente lineare circa il complesso rapporto tra disagio e benessere: una concezione ancorata al meccanismo deterministico tra causa-effetto o, ancor più, tra stimolo e risposta.

Non solo: nell’ottica di tali approcci interpretativi, infatti, la finalità ultima del comportamento umano risiede nel ristabilimento di un equilibrio, nel ripristino di una situazione di tranquillità. Pervade, quindi, un orientamento omeostatico, all’interno del quale il concetto di benessere viene collegato “alla riduzione del dolore e alla realizzazione di un numero sempre maggiore di possibilità per stare meglio”122 Tuttavia tale impostazione non riesce a dar conto di quel senso di vuoto che si riscontra in modo rilevante nella gioventù odierna e che spesso prende le forme dell’aggressività, dell’autolesionismo (a volte anche mortale) e della dipendenza da sostanze. D’altro

120 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 34

121 Bertolini, dalla sua prospettiva pedagogica fenomenologica, fa una importante dichiarazione: afferma, infatti, che la valenza esplicativa dei fattori espressi dalle varie scienze “non si situa sul piano eziologico ma su quello interpretativo. I fattori familiari come d’altra parte quelli biologici o psicologici, non sono cause del comportamento deviante ma realtà suscettibili di essere investite di senso dal soggetto e da chi lo circonda. Ed è l’individuazione del particolare significato ad esse accordato che permette di cogliere le ragioni del passaggio ad un certo agire” (ibid., p. 28). Permane, comunque, l’ attenzione alla ricerca delle cause del disagio, ravvisate non nei fattori bio-psico-sociali, ma “nelle elaborazioni e interpretazioni soggettive in base a cui il minore attribuisce un proprio significato a quelle condizioni di esistenza”

(ibidem, p. 28). Si permane, infatti, sul “perchè” del disagio, in un’ottica immanentistica.

122 E. Fizzotti, “Fondamenti antropologici della ricerca di senso”, in Adolescenti in ricerca, cit., p. 7

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 169-179)