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Punti di vista sul disagio

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 152-169)

Il disagio giovanile:

V. Approcci teorici e di intervento

5.1. Punti di vista sul disagio

Pur nella consapevolezza della molteplicità di teorie e correnti che si sono occupate (e si occupano tuttora) del disagio giovanile, proveremo a delinearne i filoni principali:

quello psichiatrico, quello psicologico, sociologico e pedagogico. La nostra riflessione intende essere di carattere essenzialmente epistemologico, allorché si dipana sul piano della logica generale sottostante a quegli ambiti disciplinari solo sfiorando, come detto, gli specifici indirizzi di cui è intessuto ciascuno di quei settori.

Un’ulteriore precisazione va fatta in ordine alla separazione fra questi orientamenti epistemologici: separazione che, per motivi euristici ed espositivi, potrebbe apparire eccessivamente marcata. Giova, allora, sottolineare come ormai la maggior parte gli studiosi – e noi con loro - al di là del campo di studio di appartenenza, siano concordi nel qualificare come necessariamente interdisciplinare uno sguardo capace di cogliere appieno un fenomeno complesso e plurifattoriale come quello del disagio.

5 G. Amenta, Gestire il disagio a scuola, cit., p. 16

6 In ogni modello teorico è implicita l’adozione di un modello antropologico: così, ad esempio, “l’opzione per un modello “aperto” a fronte dell’ipotesi del “sistema chiuso”, si gioca infine sul terreno della riflessione meta-scientifica, e quindi propriamente filosofica” (D. Bruzzone, Autotrascendenza e formazione, cit., p. 185). Tuttavia, molte volte ci si dimentica che ogni scienza “è in un modo o nell’altro anch’essa metafisica e comporta di conseguenza dei presupposti metafisici. E proprio per le implicanze metafisiche, ossia per avere una metafisica implicita che è silenziosa, tacita, inespressa, non raramente essa è falsa” V.E. Frankl, Homo patiens, cit., pp. 57-58

5.1.1. L’approccio psichiatrico

Esistono, in seno a questo approccio come a quelli che seguono, alcune diramazioni prospettiche, che nominiamo sinteticamente: quella medico-biologica (che si fonda sui presupposti anatomici e fisiologico-cerebrali della sofferenza), psicodinamica (centrata sulla nozione di inconscio e sugli aspetti psicologici, piuttosto che su quelli bio-medici), comportamentista (attenta ai meccanismi disfunzionali e disadattativi di apprendimento), cognitivista (interessata ai concetti che il soggetto elabora circa la realtà), sistemica (che pone in luce i rapporti sistemici tra il soggetto e il suo contesto) e fenomenologica (centrato sul senso che l’esperienza di sofferenza ha per la persona).

Il disagio dei giovani, soprattutto nelle forme più tragiche (quali, ad esempio, il suicidio ed il tentato suicidio), è stato oggetto in particolare del primo ed ultimo degli indirizzi che abbiamo nominato: per la precisione, quello medico-biologico7 e quello fenomenologico. Così, nell’ambito della tradizione medico-biologica il disagio giovanile viene considerato dalla medicina, in particolar modo dalla psichiatria classica ed organicista, un fenomeno essenzialmente patologico, legato a fattori costituzionali8. In tale prospettiva, il ricondurre la complessità del malessere giovanile alla malattia mentale significa ridurre il disagio al sintomo di un problema organico, a espressione di un disturbo psichiatrico e ad orientare, pertanto, l’attenzione alla somatogenesi di tale fenomeno. In un’ottica, pertanto, essenzialmente endogena, il malessere dell’individuo viene ricondotto a fattori neuro-chimici, a cause biologiche ed organiche9: al

7 Anche la delinquenza è stata un particolare oggetto di studio di questo approccio: in particolare, per la

“biocriminologia” che, se nel passato ha assunto aspetti fortemente deterministici ed organicistici (da ricondurre a studiosi quali Lombroso, Ferri, Garofano e, in ultima analisi, a Kretschmer), di cui ancor oggi risente, tuttavia afferma anche l’esistenza di una interrelazione fra organismo ed ambiente nell’insorgenza delle condotte delinquenziali. Così, se la biocriminologia classica si è concentrata sullo studio dei gemelli, sui correlati biologici della delinquenza e sulla fisiologia ormonale, la nuova biocriminologia studia l’interazione tra fattori ambientali ed il cervello, il quale controlla il comportamento. (Cfr. G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit., pp. 111-126).

8 In particolare, per quanto concerne il suicidio, esso è stato - ed è tuttora spesso - associato alla depressione endogena ed alla cura farmacologica. Eminente rappresentante di questa prospettiva è, nel contesto italiano, G.B. Cassano (1937), oggi uno dei principali portavoce della psichiatria medica, e collaboratore alla quarta edizione del DSM-IV (Manuale statistico-diagnostico dell’Associazione degli Psichiatri Americani), il testo di riferimento per la classificazione dei disturbi mentali, al quale si attengono gli studiosi di tutto il mondo. Ricordiamo, tra le varie pubblicazioni: G.B. Cassano, Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano, 1999.

9 Su questa linea si stanno concentrando anche gli studi sul «Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività» (DDAI), volti a porre in risalto elementi quali: il livello di attivazione (arousal), gli aspetti delle strutture cerebrali e le disfunzioni biochimiche. Per un quadro agilmente riassuntivo si rimanda a D.

malfunzionamento dell’attività dei neurotrasmettitori che, come la dopamina e serotina, vengono chiamati in causa, ad esempio, negli episodi suicidari, al punto da sostenere che “accanto ad una tipologia biochimica del comportamento suicidario esiste anche una tipologia neuromorfologica”.10

Questo è stato lo sguardo che ha permeato, soprattutto, la psichiatria tradizionale la quale, in virtù di una “concezione monadologica dell’essere basata epistemologicamente sul concetto di energia, relegava all’interno dell’individuo bio-meccanico le ragioni dell’intera parabola del suo divenire e del suo agire”.11 Sguardo che, tuttavia, continua a caratterizzarel’indirizzo medico-biologico, poiché “il tentativo di individuare fattori eziologici (…) di ordine biologico attraversa tutt’ora la ricerca (…) di impostazione neurologica e fisiopsicologica”12, costituendo, di fatto, “ancora la base di tanta prassi psichiatrica”.13 Nello stesso tempo, però, sia per quanto concerne il fenomeno del suicidio che per quanto riguarda il disagio giovanile in generale, non possiamo non rilevare come ciò non caratterizzi, in realtà, tutta la psichiatria moderna, giacché “ormai gran parte degli psichiatri sono molto più propensi a ritenere fondamentale per la genesi di tali fenomeni un’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociologici”.14

Non solo: l’approccio fenomenologico, infatti, costituisce oggi un indirizzo psichiatrico capace di agire da contraltare alla tendenza organicista e neurologica di questa disciplina, se non altro facendo risaltare un punto di vista non focalizzato sui sintomi come indizi di malattia, quanto sul vissuto del soggetto, sottraendo così le esperienze di sofferenza (in particolare, quelle psicotiche schizofreniche e maniacali) all’insignificanza15. Questo grazie alla volontà di comprendere, in una prospettiva

Fedeli, La storia di Pierino. Il controllo dell’iperattività, Giunti, Firenze, 2006, pp. 33-43. Tuttavia, come rileva Froggio, la lettura bio-chimica dell’iperattività può destare qualche preoccupazione quando medici e neurologi assegnano ai trattamenti farmacologici compiti di recupero che poco gli competono: basti ricordare, per tutti, il caso statunitense del “Ritalin” (G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit.,, p. 128).

10 C. L. Cazzullo, G. Invernizzi, A. Vitali, Le condotte suicidarie, USES, Firenze, 1987, p. 59

11 E. Fizzotti, A. Gismondi, Il suicidio. Vuoto esistenziale e ricerca di senso, SEI, Torino, 1991, p. 59

12 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 24

13 U. Galimberti, Enciclopedia di psicologia, cit., p. 798

14 E. Fizzotti, A. Gismondi, Il suicidio, cit., p. 54

15 Tra i maggiori rappresentanti italiani di questo indirizzo ricordiamo D. Cargnello (1911-1998), che fu promotore di una svolta radicale nella psichiatria italiana contrapponendo, all’indirizzo organicista dominante, la prospettiva fenomenologica, rifacendosi al pensiero di L. Binswanger (cfr. D. Cargnello, Alterità e alienità, cit.,). Attualmente E. Borgna (1930) costituisce, nell’attuale panorama italiano, una delle figure maggiormente rappresentative dell’indirizzo fenomenologico in psichiatria, unitamente ad U.

Galimberti.

qualitativa e idiografica, la persona, il suo modo-di-essere, piuttosto che di spiegare la sua malattia, riconducendola alle consolidate categorie nosografiche.

Da ultimo, l’indirizzo organicista trova, anche nella tradizione anti-psichiatrica16, una decisa contrapposizione in quanto, rifiutando l’impostazione manicomiale nel trattamento dei disturbi psichici, asserisce che questi ultimi non sempre sono il risultato di patologie o disfunzioni organiche, quanto di condizionamenti ambientali e conflittualità sociali.17

5.1.2. L’approccio sociologico

La rilevanza dei fattori per così dire esogeni (o socio- culturali) nel determinare il disagio giovanile è stata posta fortemente in luce a partire da Durkheim18 il quale, nell’individuare la causa principale del suicidio nella società (e non nell’individuo), ha contrastato radicalmente la concezione energetica espressa dalla psichiatria classica. A partire da tali considerazioni del padre della sociologia, il disagio è stato ricondotto, per lo più, a disadattamento sociale: così, al condizionamento endogeno del soggetto è stato sostituito quello di natura estrinseca all’individuo, agito da parte della società e della cultura19 di appartenenza. Tuttavia il principio euristico fondante è rimasto invariato:

l’individuo appare sempre in balìa di forze (interne o esterne), ed il suo malessere è considerato la risultante di fattori che lo rendono un soggetto problematico: concetto che, come è già emerso dai capitolo precedenti, esprime una condizione di

16 Tra gli esponenti principali ricordiamo, oltre a F. Basaglia, La Maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971, anche R.D. Laing, L'io diviso : studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino, 2010; E.

Goffman, Asylums : le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Edizioni di Comunità, Torino, 2001; A. Sichel, I modi dell’incontro. Idee per una psicoterapia fenomenologica, Lalli, Siena, 1983

17 Ciò è connesso al concetto di «sociogenesi» o, meglio, al fatto che “alla base c’è la premessa teorica del carattere esclusivamente sociogenetico delle malattie psichiche” (U. Galimberti, Enciclopedia di psicologia, cit., p. 800)

18 Cfr. E. Durkheim, Il suicidio, cit. Infatti, “a partire da una riformulazione del concetto durkheimiano di anomia, il fenomeno della devianza è stato analizzato e spiegato in termini di condizioni sociali criminogene. Secondo il classico schema mete-mezzi, per esempio, il comportamento deviante è visto come il risultato delle pressioni anomiche e contraddittorie della società” (P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., pp. 28-29)

19 Un altro studioso che si è concentrato sull’influenza degli aspetti soprattutto culturali sul disagio (in particolare, sull’emergere dell’aggressività e le sue modalità di manifestazione) è stato E. Fromm, esponente (insieme a K. Hornet e H.S. Sullivan) della corrente psicoanalitica culturalista, che vede la natura determinata più che da fattori biologici ed istintuali, dal condizionamento di modelli culturali. Cfr.

E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975.

inadeguatezza nei riguardi delle aspettative e degli standard comportamentali richiesti dalla cultura di appartenenza20.

Si tratta, pertanto, di una modello interpretativo che ancora oggi vede il disagio giovanile come espressione, essenzialmente, di una “carenza nella capacità di adattarsi alle logiche e ai criteri che caratterizzano i vari sottosistemi”21: mancanza che determina una situazione difficilmente gestibile per l’adolescente, il quale si trova a vivere una fase di «moratoria sociale» contrassegnata dalla “complessa gestione della lunga transizione da una condizione, quella infantile, i cui tratti dovrebbero essere (ipoteticamente) più delineati e certi, all’assunzione di un ruolo adulto di responsabilità che si raggiunge attraverso il superamento di alcune tappe evolutive (la conclusione degli studi, l’autonomia abitativa ed economica ecc.)”.22 Così la sociologia, negli ultimi decenni, ha prodotto diverse categorie esplicative per descrivere il disagio dei giovani, connesso alle dinamiche sociali via via emergenti: si è passati dal disagio inteso come

“conformismo” negli anni ’50, alla categoria della “ribellione e dell’idealismo” degli anni ’60, fino ad approdare ad una connotazione sociale del disagio giovanile come

“emarginazione” (siamo negli anno ’70) e, successivamente, come “soggettivismo”

negli anni ’80.23 Ciò che costituisce l’elemento conduttore di tali declinazioni risulta, in ogni caso, la connotazione di malessere quale incapacità di far fronte ai personali compiti di sviluppo: difficoltà legata a un mancato equilibrio nel rapporto tra contesto sociale (le caratteristiche, aspettative e sistemi simbolico-culturali che lo connotano) ed il soggetto. In particolare, tale disequilibrio, in un’ottica sistemica, è connesso alla relazione circolare che si instaura fra i vari livelli che compongono l’universo sociale del giovane: quello microsistemico (riguardante la qualità dei suoi rapporti all’interno dei gruppi primari, e le risorse-ostacoli che egli incontra per farvi fronte)24 quello mesosistemico (che concerne le relazioni fra due o più ambienti: ad esempio, per un adolescente, potrebbero essere la scuola e la famiglia, o questa ed il gruppo dei pari) e,

20 Si parla, quindi, di disagio giovanile nei termini di una “mancata capacità e/o possibilità di inserimento attivo e creativo dei giovani nella società e nelle istituzioni” (E. Butturini, Disagio giovanile e impegno educativo, cit.)

21 D. Mesa, “Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli”, in P. Triani (a cura di), Leggere il disagio scolastico, cit., p. 59

22 Ibid., p. 61

23 Cfr. G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit., pp. 19-21

24 Se, in genere, l’analisi del rapporto tra l’ambiente macrosociale e il disagio viene condotto dalla sociologia, “i contributi alla comprensione dei processi microsociali sono invece di stampo prettamente psicosociale” (A. Pacciolla, “Presentazione”, in ibid., pp. 64-88)

infine, quello macrosistemico (attinente alle dinamiche socio-culturali e ai fattori strutturali dell’ampio contesto di appartenenza).25

Dunque, in una prospettiva sociale del disagio dei giovani, l’accento è posto sulle condizioni di esercizio esterne al soggetto, su ciò che lo attornia, e si interroga circa la portata della loro incidenza sulla formazione delle sue problematiche: “le ragioni e i motivi di tale malessere sono infatti da ricercare non tanto nell’individuo quanto in aspetti più generali, sociali e culturali. (…) la devianza oggi affonda le radici in dinamiche di ordine sociale”26.

Oggi, comunque, nonostante siano ancora presenti (e in misura maggiore, anche se non esclusiva, sul piano del senso comune) concezioni che “fanno appello alla povertà o all’abbandono”27, il ruolo delle dinamiche socio-culturali, soprattutto nel loro versante economico, appare ridimensionato dall’affiorare di “nuove fragilità”28, non strettamente connesse alla presenza di difficoltà socio-economiche. Queste ultime, infatti, se possono risultare importanti e concomitanti ad altri aspetti psico-esistenziali, in pochi casi si qualificano come fattori preminenti: come, ad esempio, nel caso del bullismo dove, se è innegabile che l’ambiente socio-culturale rivesta una incidenza considerevole, tuttavia non determina l’insorgenza del fenomeno (che risulta ‘democraticamente’ trasversale ad ogni classe sociale). Pertanto, “ciò non riesce a chiarire e rendere conto dell’estensione dei fenomeni a diverse categorie sociali, vale a dire della loro diffusione non solo fra le persone economicamente e socialmente svantaggiate, e fra quelle che hanno problemi psicologici e relazionali, ma anche fra soggetti che precedentemente potevano essere considerati “immuni”. Infatti, i “nuovi” fenomeni devianti evidenziano soprattutto la

“compatibilità” fra uno stato di benessere economico e sociale, un clima affettivo e relazionale stabile, da una parte, e condotte drogastiche, criminali e suicidarie, dall’altra.

Non solo: il ruolo condizionante dei fattori socio-culturali vengono posti in interazione con l’attività dell’individuo ridimensionando, così, i caratteri di passività e plasmabilità a favore di un suo coinvolgimento attivo e reciprocamente influenzante le dinamiche a

25 Per una disamina delle spiegazioni macrosociali all’insorgere del fenomeno del disagio giovanile (che, in un’ottica sociologica, assume i contorni per lo più della delinquenza), si rimanda a ibid., pp. 54-64

26 G. Froggio, “Genesi e mantenimento dei disagi sociali e delle condotte devianti secondo la logoterapia di Frankl”, in “Chi ha un perché nella vita…” Teoria e pratica della logoterapia, cit., p. 116

27 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 24

28 Cfr. V. Iori, M. Rampazi, Nuove fragilità e lavoro di cura, cit., 2008

lui esogene. E mentre il modello psicosociale29 vede il cambiamento come il risultato dell’interazione dell’individuo con gruppo, il modello sistemico30 sostituisce ai concetti di causalità, determinismo e libertà quello di interazione, inteso come “un processo sequenziale di azione e reazione che ha luogo prima che si possa descrivere qualsiasi stato del sistema o qualsiasi cambiamento di stato”.31

Così, su questo concetto di «interazione» si concentrano le correnti denominate dell’interazionismo simbolico (riconducibile alla figura di G.H. Mead32) e la già accennata teoria dell’etichettamento (le labeling theories), che spostano l’attenzione dagli individui che esprimono un disagio (o che commettono un atto di delinquenza) alle interazioni simboliche, al contesto sociale ed alle istituzioni che sanciscono ciò, vedendo la delinquenza non in modo statico, bensì in modo processuale. In questo senso, “più che la condotta deviante in sé, è importante l’interazione tra l’individuo che mette in atto il comportamento e i membri della società che ne vengono a conoscenza”.33 Tale prospettiva risulta particolarmente importante, poiché supera l’impostazione epistemologica (linearmente causalistica) degli approcci bio-psico-sociali, basata sulla descrizione - da una parte - delle condizioni che produrrebbero il disagio e - dall’altra - sui risultati di queste condizioni: il disagio, per l’appunto.34 Di talché, possiamo evidenziare come tali teorie si inseriscano in un approccio eminentemente costruttivista che, nel superamento del tradizionale paradigma

29 Cfr S.E. Asch, Psicologia sociale, SEI, Torino, 1968

30 Questo indirizzo psicologico, che vede nella scuola californiana di Palo Alto (ad opera di B. Russel, L.

von Bertalanffy e G. Bateson) il proprio sviluppo, ha come suo presupposto la teoria generale dei sistemi e, sul versante pratico, si declina come terapia sistemico-relazionale.

31 H.L. Lennard; A. Bernstein: The anatomy of psychotherapy, Columbia University, New York, 1960, p.

13

32 Cfr. G.H. Mead, Mente, Sé e società, Giunti, Firenze, 1966

33 G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit., p. 149. Per i concetti fondamentali di «role taking» (il soggetto vede se stesso con gli occhi degli altri) e «role making» (la persona cerca di adattarsi, con la sua attività, alla situazione), entrambi connessi alla presenza di difficoltà nelle interazioni: cfr. ibid., pp. 153-154

34 Bertolini parla, a proposito dell’approccio interazionista, di un vero e proprio «rovesciamento epistemologico», che “ha prodotto una nuova modalità di intendere il fenomeno trasformandone in un certo senso la natura (…) Descrivere il comportamento deviante non più come l’effetto determinato di una individuabile e permanente configurazione di cause ma come frutto di un insieme di interazioni simboliche e pratiche intersoggettive situazionale, significa infatti indirizzare la riflessione verso la ricerca del contributo soggettivo nella costruzione della devianza” (P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 34). L’attenzione viene posta, dunque, alle “elaborazioni cognitive e i dispositivi decisionali che ogni individuo mette in atto di fronte alle supposte determinanti che lo circondano” (ibid., pp. 34-35); alle mediazioni cognitive in base a cui egli “conferisce significato agli eventi che lo circondano, stabilisce gli scopi del proprio agire e individua quei nessi che lo rendono legittimabile”

(ibid., p. 35). Nel riferimento all’analisi esistenziale frankliana, il tentativo è di andare oltre il piano delle

«elaborazioni e mediazioni cognitive» dell’individuo.

sociologico, asserisce “la «costruzione sociale della devianza». Viene posto, così, in luce quel complesso di pratiche sociali, interazioni simboliche e percezioni condivise che portano ad etichettare come «deviante», o disagiata, una certa azione, e che hanno il potere, come notavamo poc’anzi, di agire come «profezia che si autorealizza».35

5.1.3. L’approccio psicologico

Questo orientamento vede il disagio giovanile legato a fattori e processi puramente psicologici: l’accento è posto, infatti, sui tratti della personalità, sulle condizioni interne al soggetto, a lui intrinseche, che sarebbero all’origine del suo malessere.36 A differenza dell’approccio medico-biologico, tuttavia, non si fa riferimento a fattori di natura organica, connessi all’apparato bio-chimico e neurologico del cervello, quanto all’ampio spettro di aspetti che connotano la mente, l’identità e l’emotività del giovane:

in primo luogo, agli elementi cognitivi ed emotivi, profondamente interconnessi fra loro. Pertanto, le problematiche giovanili che diventano oggetto di studio degli psicologi

“comprendono una vasta gamma di disturbi del comportamento, dell’ideazione e del tono affettivo che, a seconda delle caratteristiche e della gravità, limitano le persone che ne soffrono nelle loro capacità di gioire, di ragionare, di lavorare, di amare, di comunicare: in breve, di vivere con sufficiente serenità e soddisfazione la propria esistenza”.37 Così, parlare di disagio dal punto di vista psicologico può significare riferirsi alla incapacità di gestire razionalmente la complessità e le contraddizioni della vita quotidiana, in una società che, come quella odierna, risulta caratterizzata da un eccesso di possibilità che esigono, dal singolo, capacità di selezione.38 Tuttavia, se è possibile definire, a grandi linee, quale possa essere il punto di vista psicologico, non dobbiamo dimenticare che esiste al suo interno una varietà di opinioni sul disagio

35 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili, cit., p. 32. Così, “la devianza comincia ad apparire una realtà sociale complessa, variegata e fluttuante dipendente da pratiche relazionali specifiche ma sempre situazionale” (ibid., p. 33)

36 “Il tradizionale approccio psicologico o psicoanalitico, attraverso l’uso di strumenti clinici come i test di personalità, cercano di individuare quei tratti specifici e costanti della personalità sistematicamente associati al comportamento deviante: l’immaturità, l’anaffettività, la punitività, la debole strutturazione dell’Io, l’aggressività” (ibid., p. 26)

37 E. Fizzotti, A. Gismondi, Il suicidio, cit., p. 69

38 Cfr. R. Mion, “Nuove forme di emarginazione. Figure professionali emergenti e strumenti formativi”, in AA.VV., Disagio giovanile e nuove prospettive del lavoro sociale, cit.

giovanile: “a dire il vero, non c’è uniformità nell’interpretazione psicologica di nessun comportamento, sia esso ritenuto sano o disfunzionale. Una delle caratteristiche più evidenti della storia della psicologia (…) è stato infatti il fiorire soprattutto in questo secolo di svariate correnti di pensiero, alcune delle quali, coagulandosi intorno a figure carismatiche di clinici e ricercatori, sono assurte al rango di «scuole»”.39

Così, dall’indirizzo cognitivista40 il disagio dei giovani può essere visto come connesso a difficoltà logico-razionali, legate alla comprensione dell’esperienza ed elaborazione delle informazioni, alla risoluzione di problemi e all’approntamento di strategie cognitive, nonché all’esplicitazione di modalità di pensiero complesse, astratte ed ipotetico-deduttive. Diventano oggetto di studio, quali matrici e indicatori del disagio, i ragionamenti basati su di una logica semplicistica, superficiale: poco incline ad un’osservazione attenta, nonché all’approntamento di processi analitici e sintetici nella elaborazione e comprensione del reale. Si pongono in luce quei comportamenti ed atteggiamenti giovanili che tradiscono la presenza di biases41 nei percorsi mentali, che non permettono di considerare simultaneamente più aspetti che connotano l’esistente. Si rilevano, altresì, le modalità di ragionamento pigramente fondate sull’ovvietà del senso comune: sulla comodità di percorrere continuamente connessioni stereotipate che altri hanno già pensato, senza sviluppare pensieri criticamente originali ed indipendenti, quali fattori psico-cognitivi di disagio. L’attenzione, dunque, è volta alle difficoltà espresse nelle abilità di problem solving (che impediscono al giovane di trovare, alle volte, soluzioni diversificate ai problemi, nel ricorso reiterato a strategie che, lungi dall’esser sottoposte ad un autentico processo di scelta, rispondono alla consuetudine di ciò che “si è sempre scelto”, o che “scelgono tutti gli altri”); la presenza di una sostanziale rigidità mentale (che notiamo, purtroppo, in molti giovani che adottano uno schema cognitivo fissamente dicotomico, del tipo ‘tutto-niente’; ‘on-off’; ‘bianco-nero’:

uno schema che, al di là di semplificare preoccupantemente il reale, rivela la mancanza di quella flessibilità e duttilità cognitive essenziali, soprattutto nella stagione di vita adolescenziale); l’incapacità metacognitiva di riflettere sui propri pensieri e strategie, sui propri comportamenti, azioni ed argomentazioni, di soppesare i pensieri, di

39 E. Fizzotti, A. Gismondi, Il suicidio, cit., p. 70

40 Secondo questa prospettiva, ad esempio, la depressione risulta da una distorsione cognitiva, che attiva degli schemi cognitivi legati alle aspettative nei confronti dell’ambiente, ad un’opinione negativa di sé ed aspettatine negative nei confronti del futuro (cfr A.T. Beck, La depressione, Boringhieri, Torino, 1979).

41 Cfr. M. Piattelli Palmarini, L’illusione di sapere, Mondatori, Milano, 1995

consapevolizzare gli stati interiori: di so-stare presso di sé; la convinzione di

“autoefficacia percepita”42 che, in una situazione di disagio, risulta evolversi nella persuasione di non riuscire ad affrontare costruttivamente i compiti evolutivi ed educativi, a causa del “senso di impotenza appreso”(learned helplessness).43

Dal punto di vista, invece, fenomenologico-esistenziale, l’attenzione è centrata sui vissuti emotivi, ed il disagio dei giovani è visto come emergente da un complesso di stati soggettivi di sofferenza, alienazione ed insoddisfazione: quale cassa di risonanza emotiva nell’impatto con una realtà che si percepisce, per qualche motivo, frustrante.

Infatti, ciò che connota tale indirizzo è di “non rivolgersi ai problemi quantitativi oggettivanti o interpretativo-causali delle discipline naturali e delle dottrine psicodinamiche e di non riguardare il “perché” o il “che cosa” della patologia psichica, quanto piuttosto il suo “come” (….), intendendo cogliere aspetti qualificativi, modalità di essere e di esprimersi significativamente originali e peculiari di determinate condizioni psicopatologiche e di singole persone”.44 Così, in linea con quanto abbiamo sinteticamente delineato circa la psichiatria fenomenologica, anche in ambito psicologico lo sguardo fenomenologico è posto sull’esperienza vissuta del soggetto e sulla difficoltà a gestire le emozioni, riconoscerle e nominarle; sulla sofferenza generata dal distacco dai propri vissuti emotivi, nonché su quegli stati di insicurezza, fragilità ed incertezza che connotano soggetti con scarsa autonomia ed eccessivo bisogno di dipendenza. Tuttavia, occorre notare come al tema complesso delle emozioni venga posta attenzione anche da approcci che si riferiscono a tradizioni teoriche diverse, e che vedono il mondo dell’emotività sotto il profilo cognitivo-comportamentale.45 In tale ottica, il disagio viene ricondotto non tanto ad un’esperienza vissuta nel contatto col

42 Cfr. A. Bandura, Autoefficacia, Erickson, Trento, 2000. Questo autore, nell’approccio teorico che sviluppa (denominato teoria sociale-cognitiva) analizza il funzionamento psichico a partire dal modello di “causazione reciproca triadica”, che prevede la dipendenza reciproca e funzionale di tre dimensioni: le determinanti personali interne, il comportamento e l’ambiente

43 Cfr. D. Schunk, “Percezione di autoefficacia nell’apprendimento e deficit cognitivi”, in D. Ianes (a cura di), Ritardo mentale e apprendimenti complessi, Erickson, Trento, 1990, pp. 169-197. Secondo questo autore, le esperienze pregresse concorrono in notevole misura a definire l’autovalutazione soggettiva, tanto che dalla qualità degli antecedenti individuali può scaturire uno stile attribuzionale pessimistico, influenzante un atteggiamento persistente di sfiducia e di rassegnazione in caso di insuccesso, nonché il non riconoscimento dei propri meriti in caso di esito positivo

44 E. Fizzotti, “La persona in psicologia da Freud a Frankl”, Attualità in Logoterapia, 4/2202, pp. 5-6

45 Per quanto concerne lo studio del disagio e della delinquenza, sottolineiamo come “in anni più recenti, il contributo dell’analisi comportamentale, della Teoria dell’apprendimento sociale e del filone cognitivista è stato riscoperto e si è dimostrato utile non solo per comprendere i diversi fenomeni, ma innovativo rispetto agli studi tradizionali e a quelli di stampo psicoanalitico” (G. Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile, cit., p. 129)

Nel documento UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO (pagine 152-169)