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Forme di interazione istituzionale allargata, dai comprensori alla pianificazione operativa

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 97-102)

Governo del territorio e cooperazione in Italia

3.3 Forme di interazione istituzionale allargata, dai comprensori alla pianificazione operativa

Il 1972 è considerato, ai nostri fini, uno spartiacque tra due epoche, in quanto introduce un nuovo importante soggetto nel sistema istitu- zionale e, a partire dal 1977, anche in quello della pianificazione. Il trasferimento definitivo dei poteri alle regioni a statuto ordinario, che era iniziato nel 1948 con l’istituzione delle regioni a statuto speciale, apre una nuova stagione di rapporti tra gli enti e tra i soggetti interes- sati ai processi di pianificazione. Stagione che sembra correre su binari paralleli e contrastanti, a seconda del livello territoriale, ma che vede come filo conduttore la questione di un allargamento dei partecipanti al processo di pianificazione:

– al livello locale, continua la consapevolezza dell’inadeguatezza dei meccanismi del piano razional comprensivo, cui si sopperisce attraverso rapporti di carattere informale, spesso poco trasparenti, ma sempre finalizzati al coinvolgimento degli interessi effettivi; – al livello intermedio, le regioni si pongono la questione della pia-

nificazione territoriale, interrogandosi sul livello pertinente e sul- la necessità di un ente intermedio capace di aggregare interessi regionali e locali: prende forma l’istituzione dei comprensori e si avvia una intensa attività legislativa in materia di urbanistica; – a livello centrale, mentre matura la riflessione sulla crisi del piano

razional comprensivo e sui limiti dei meccanismi di interazione prefigurati nell’ambito della Legge urbanistica nazionale, pren- de piede una serie di provvedimenti di carattere vincolistico ed emergenziale, legati sia a fatti di carattere naturale (terremoti, al- luvioni, ecc.) che richiedono un più attento controllo delle risorse territoriali e ambientali, sia a nuove occasioni di sviluppo (grandi opere pubbliche e i mondiali del 1990). Tali provvedimenti per- mettono allo stato di esercitare poteri coercitivi centralistici ancora improntati a meccanismi unilaterali di comando e controllo.

Risulta di un certo interesse partire dalle Regioni e dal loro ruolo nel sistema della pianificazione territoriale, definito attraverso i DPR 15 gennaio 1972 n. 8 e 24 luglio 1977 n. 616, che stabiliscono il trasfe- rimento dallo stato alle regioni delle competenze nelle materie all’art. 117 della Costituzione, tra cui quelle in materia urbanistica.

Questi provvedimenti trasferiscono dunque in toto alle regioni a sta- tuto ordinario l’attività urbanistica, intesa come «la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente» (DPR 616/1977, art. 80).

Sulla base di questa definizione, vengono attribuite alle regioni sia la possibilità di legiferare in materia urbanistica, sia le funzioni ammi- nistrative che erano state affidate al Ministero dei lavori pubblici dalla legge 1150/42 e dalle successive modifiche (redazione e approvazione dei piani territoriali di coordinamento regionali e comprensoriali, ap- provazione degli strumenti urbanistici generali comunali e attuativi, vigilanza e controllo dell’attività urbanistica ed edilizia dei comuni).

L’attività regionale in ambito urbanistico appare fin da subito carat- terizzata dalla ricerca delle migliori modalità di dialogo con i differenti livelli istituzionali, ricerca che avviene attraverso la delega di alcune funzioni alle autonomie locali e a diversi strumenti di piano. A questo scopo, la creazione di enti intermedi, i comprensori, sembra rappre- sentare la migliore soluzione di intermediazione tra esigenze locali e indirizzi regionali. Il piano sub-regionale comprensoriale, infatti, do- vrebbe raccogliere le domande comunali per indirizzare la pianifica- zione regionale alla aggregazione delle esigenze locali e giungere alla definizione di un piano territoriale di coordinamento che raccolga il più ampio consenso a livello locale.

L’avvio di episodi di pianificazione comprensoriale in alcune re- gioni del nord (Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia-Romagna) appare insoddisfacente, in quanto dà luogo a lunghi processi di programmazione e pianificazione basati sull’assegnazione gerarchica di compiti ai diversi livelli istituzionali (Mesolella, 2006a; Moretti e Tessitore, 1997). Tuttavia, l’esperienza dei comprensori e le riflessioni che li accompagnano rendono conto della necessità impel- lente, avvertita per lo più a livello regionale, di riconfigurare i rapporti tra i diversi enti amministrativi all’insegna di una maggiore condivi- sione delle scelte3.

In questo quadro, resta imprecisato il ruolo dello stato che, da un

3 Necessità che viene anche da altri settori di governo, come quello della sanità:

la Legge 833/78 Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale del 23 dicembre 1978, detta anche Riforma Sanitaria, sopprime il sistema mutualistico e lega imprescindibilmente il Servizio Sanitario Nazionale alla pianificazione territoriale regionale, attribuendo alle regioni l’individuazione di ambiti territoriali di carattere sovralocale (le Unità Sa- nitarie Locali) di dimensioni pertinenti alla gestione del servizio. A questo si aggiunge l’istituzione delle Comunità Montane (L. 1102/72) con funzioni di programmazione e pianificazione, che viene a sovrapporsi al sistema dei comprensori.

lato, mantiene una funzione di «indirizzo e coordinamento» con speci- fiche competenze in alcuni settori, mentre dall’altro lato si fa carico di una serie di provvedimenti basati sull’emergenza, che gli consentono di bypassare quei rapporti di condivisione e collaborazione tra enti a tutti i livelli auspicato dalle regioni.

Il DPR 616/77 indica tra le materie di competenza dello Stato «l’i- dentificazione, nell’esercizio della funzione di indirizzo e di coordina- mento […], delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazio- nale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo» (art. 81). In particolare, lo stato mantiene le funzioni amministrative in materia di opere maritti- me (porti e difesa delle coste), opere idrauliche e per le vie navigabili, impianti elettrici superiori a 150 mila volts, trasformazione delle risor- se energetiche, aeroporti, ferrovie, demanio e patrimonio dello Stato, edilizia universitaria e costruzione di alloggi da destinare a dipendenti civili e militari dello Stato per esigenze di servizio, edilizia di culto, ecc. (art. 88).

Se, da un lato, l’indeterminatezza delle disposizioni legislative in merito a tempi, modalità e procedure, insieme a «l’inettitudine politi- ca e, appunto, la mancanza di precise indicazioni normative, possono spiegare la latitanza governativa negli ultimi anni, [...] quando le stes- se regioni riconoscono l’esigenza di un’azione unitaria di indirizzo» (De Lucia, 1992:113), dall’altro lato proprio questa indeterminatezza permette allo Stato di assumere una serie di provvedimenti attraverso i quali esercitare a pieno i poteri di comando e controllo definiti dal sistema gerarchico dell’ordinamento italiano. I campi di azione princi- pali in cui si esplicitano questi poteri sono quello della pianificazione ambientale e paesaggistica, della riforma della legge nazionale e della gestione (se non della creazione) delle emergenze.

La nuova centralità delle tematiche paesaggistiche e ambientali che viene affermata a partire dalla fine degli anni Settanta determina l’av- vento di una serie di norme finalizzate a inserire il tema nell’ambito della pianificazione territoriale: la legge Galasso n. 431/85 introduce in modo esteso la pianificazione paesaggistica del territorio regionale (o di parti di esso) nell’apparato di pianificazione prefigurato dalla Lun, la legge 183/89 istituisce i piani di bacino e la legge 389/91 regolamenta la pianificazione dei parchi e delle aree protette. Questi strumenti, di carattere per lo più settoriale, comportano non pochi problemi di inte- razione tra gli enti, dovuti essenzialmente alla questione della sovrap- posizione di poteri, di strumenti e di campo di attività (Sarlo, 1997)4.

4  «Si configura infatti il rischio di una sovrapposizione di poteri, di strumenti e di

campo di attività:

– di poteri per l’istituzione di nuovi enti, come l’Ente Parco, l’Autorità di Bacino, ai quali si affida una titolarità in materia di urbanistica e di gestione degli interventi sul territorio, non evidenziando parallelamente le forme di coordinamento con gli altri enti tradizionalmente preposti alla pianificazione e al controllo delle trasformazioni

Oltre a questi provvedimenti di carattere settoriale, continua la ten- denza a riformare l’apparato di pianificazione prefigurato dalla Lr. 1150/42 con meccanismi di comando e controllo sugli usi dei suoli e della capacità di trasformazione a livello locale: la legge Bucalossi n. 10/1977 introduce le concessioni onerose, mentre la successiva legge 5 agosto 1978, n. 457, riportante Norme per l’edilizia residenziale, istituisce il piano decennale per la casa e le modalità di intervento per il recupero dell’edilizia esistente. Si tratta di riforme che prefigurano forme di ge- stione nuova della questione della casa, attraverso un rapporto coeren- te con la programmazione economica (cfr. cap. 5), ma che si inseriscono in un panorama ancora fortemente connotato da rapporti gerarchici.

La legge del 3 gennaio 1978 n. 1, relativa alla Accelerazione delle proce-

dure per l’esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali

e la cosiddetta Legge Nicolazzi recante Norme per l’edilizia residenziale e

provvidenze in materia di sfratti (Legge del 23 gennaio 1982, n. 94), che

permettono allo stato di intervenire direttamente su alcune questioni senza interloquire con gli enti sotto-ordinati, danno adito a un forte dibattito in merito ai poteri dello Stato e ai suoi rapporti con gli enti locali (Veneziano, 1981; D’Ariano, 1982; Brunetti, 1982).

In generale, si rileva come la gestione delle nuove norme avven- ga «prevalentemente nell’atmosfera di restaurazione, di neoliberismo selvaggio degli anni ottanta» (Salzano, 1998:183), laddove norme di tipo emergenziale permettono allo stato stesso di bypassare gli altri enti nella gestione di grandi opere o di eventi calamitosi. Il terremoto dell’Irpinia, gli alluvioni, ma anche i mondiali del 1990 diventano in- fatti l’occasione per intervenire in modo diretto e in deroga alle previ- sioni degli strumenti locali.

A ciò si aggiunge la Legge del 28 febbraio 1985, n. 47, recante Norme

in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive. Il condono generalizzato dell’abusivismo

induce a parlare di deregulation e di delegittimazione del piano.

Gli episodi di abusivismo implicano una drastica negazione del- le regole di interazione con gli apparati deputati alla pianificazione; allo stesso modo, gli interventi relativi a grandi opere pubbliche, che modificano in modo consistente l’assetto urbano, preannunciando la cosiddetta stagione della pianificazione per progetti, comportano un travalicamento delle previsioni di piano a favore dell’operatività. Su questi modus operandi, caratterizzati da scarsa trasparenza procedu- rale, aleggia il sospetto di accordi sotterranei, se non di vera e propria corruzione (nel senso inteso da Grannovetter, 2006), tra pubblica am- ministrazione in senso lato (politici e tecnici) e soggetti privati forti.

territoriali;

– di strumenti,in quanto non viene chiarito il rapporto tra strumenti generali (il piano paesistico, il piano provinciale) e strumenti settoriali (piano del parco, piano di bacino); – di campo di attività, in quanto le sovrapposizioni con le attività di pianificazione e programmazione previsti nei diversi piani di nuova istituzione sono molteplici» (Sarlo, 1997:202).

In ambito tecnico e amministrativo, Mazza (1997) rileva dunque il prevalere di «una lunga tradizione di scostamento nell’attuazione dei piani dalle regole costitutive della pianificazione», il cui risultato è la deregolamentazione informale del piano, laddove «dal momento che decidere è più difficile che in passato, l’attenzione si rivolge soprat- tutto alle procedure che possano rendere più rapide le decisioni, agli strumenti utili per “fare” e, pertanto, ai progetti più che ai piani. Del resto la pianificazione formale di quadri globali di riferimento è ormai inutile […]. Per sfuggire alle procedure amministrative e realizzare co- munque gli interventi non previsti dai piani, vengono inventati nuovi strumenti, di solito privi di carattere formale» (Mazza, 1997:88). La pia- nificazione per progetti, contrapposta alla procedura tradizionale, che fa discendere gli interventi dal piano, esprime quindi esplicitamente il rifiuto delle forme predeterminate di piani e strategie globali, generali, a lunga scadenza, a favore di pratiche basate su progetti specifici, par- ziali, a breve scadenza, basati su rapporti informali.

Entrambi i casi (abusivismo e pianificazione per progetti) prefigu- rano la crescente esistenza di rapporti informali, se non sotterranei, tra soggetti privati forti e enti pubblici, motivate dalla scarsa flessibilità del piano razional-comprensivo, in cui l’oggettiva rigidità delle solu- zioni ammette generalmente solo modifiche marginali, ma non strade alternative ancora negoziabili.

Questa stagione di deregolamentazione del piano attraverso rap- porti personali e poco trasparenti può essere interpretata, alla luce della teoria della pianificazione collaborativa (cap. 2), con l’insorgere di pratiche di interazione di carattere informale in un sistema formal- mente definito. Nel processo di elaborazione dei processi di trasfor- mazione, l’esplicitarsi di un’azione attraverso una decisione formal- mente assunta in presenza di esigui margini di confronto tra tutte le parti in gioco, determina generalmente l’insorgere di situazioni di conflitto, come forma di opposizione radicale in assenza di chiarezza sulle logiche che hanno determinato il raggiungimento della decisione (Brunetta, 1997).

L’esito di questa situazione è una diffusa paralisi amministrativa, superabile solo con l’emergere di situazioni negoziali basate sulla co- operazione di carattere informale (Chisholm, 1989). L’organizzazione informale rappresenta infatti uno strumento di compensazione degli errori delle strutture formali, che sono essenzialmente incomplete e si basano su autorità di tipo verticale e gerarchico: la loro cronica inca- pacità di creare consenso e adesione alla decisione, porta al ricorso a processi informali fondati sulla fiducia, la reciprocità (Axelrod, 1984) e la persuasione. Di conseguenza nella pianificazione si assiste al preva- lere delle logiche negoziali, generalmente di carattere informale, sulle logiche giuridico-formali e tecnico-professionali.

Il carattere rigido delle procedure inerenti le strutture formali cen- tralizzate preclude la capacità del sistema di adattarsi rapidamente a situazioni nuove. Di conseguenza, il processo decisionale assume come scopo il rispetto di regole piuttosto che l’orientamento dell’azio-

ne, ponendo più attenzione al processo che non al risultato e, quindi, creando un divario tra la decisione e l’effettiva capacità di realizzarla . In Italia, la contrapposizione tra il piano precostituito, con le sue regole formali da rispettare, e la presenza di percorsi decisionali basati sull’interazione tra amministrazione pubblica e soggetti privati per la negoziazione delle scelte risulta onnipresente, ma «avviene per lo più in modo oscuro, casuale, e tende facilmente a produrre risultati distorti rispetto alle leggi e al principio di imparzialità e scarsamente efficienti» (Bobbio, 1996:62). In un sistema rigido come quello italiano, dunque, «è probabile che la negoziazione si sviluppi a macchia d’olio, in condi- zioni sotterranee e con risvolti apertamente illegittimi» (Ibidem).

Lo stesso Palermo (2001) osserva come, nel caso italiano, le difficoltà possano essere esaltate da alcuni fattori di contesto, come la mancan- za di una tradizione matura di pratiche pluralistiche di concertazione e di intesa. Le condizioni sono generalmente più favorevoli a forme estreme e semplificanti, come l’ipotesi astratta di una forte regolazione pubblica o l’autonomia sostanziale degli interessi prevalenti che han- no come esito esperienze attuative in cui processi incompiuti, svilup- pi difformi, frammentazione e occasionalità degli interventi effettivi, sono condizioni ancora molto diffuse. Questo quadro a tinte fosche ben «rappresenta la “tragedia dell’urbanistica” come pratica collettiva che, nonostante le nobili ragioni e i generosi tentativi, sembra destinata a essere sempre sconfitta dall’egoismo e dalla forza degli interessi e delle volontà individuali (opinione ancora diffusa tra i tecnici e intel- lettuali del settore fedeli ad alcune tradizioni)» (Palermo, 2001:7).

Tuttavia, la stessa labilità del sistema normativo, insieme al prolife- rare di rapporti informali, danno adito, oltre alla deregulation, anche a buone pratiche, che proprio dai rapporti informali e da aggiustamen- ti incrementali danno luogo a piani virtuosi che tentano di sopperire alle carenze del sistema vigente: uno per tutti, il piano di Bologna, che viene considerato antesignano dell’urbanistica riformista (Campos Ve- nuti e Oliva, 1993).

In generale, il progressivo ricorso a pratiche di concertazione di ca- rattere informale può essere ricondotto, oltre alla rigidità del piano ra- zional comprensivo, anche all’assenza di strumenti in grado di forma- lizzare gli accordi intrapresi tra gli enti e tra questi e il privato. Assenza che verrà compensata negli anni Novanta, attraverso l’introduzione di una serie di riforme istituzionali e di strumenti di intervento che cam- bieranno il panorama amministrativo e i rapporti tra i soggetti impli- cati nel governo del territorio.

3.4 Governo del territorio e pianificazione consensuale

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 97-102)

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