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Governo del territorio e pianificazione consensuale La situazione di paralisi amministrativa e di compensazione attra-

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 102-109)

Governo del territorio e cooperazione in Italia

3.4 Governo del territorio e pianificazione consensuale La situazione di paralisi amministrativa e di compensazione attra-

verso procedure informali che caratterizza il panorama italiano degli anni Ottanta, ha avuto come conseguenza fondamentale la stigmatiz- zazione delle pratiche negoziali come pratiche illegittime e opinabili.

Se, da un lato, il riconoscimento e la legittimazione di queste logiche potrebbe rappresentare la soluzione per il superamento dell’impasse amministrativo e per l’attuazione dell’auspicata “urbanistica riformi- sta”, la diffusione di logiche negoziali sembra essere ancora caratte- rizzata da «l’informalità dei processi negoziali, l’esclusività e la segre- tezza dei tavoli, il nascondere i risultati degli accordi negoziali dietro la decisione formalmente unilaterale dell’amministrazione» (Mazza, 1997:118-119).

A inizio anni Novanta, una serie di provvedimenti legislativi forni- scono la chiave per la legittimazione delle pratiche di interazione in- formali tra enti pubblici e tra questi e i privati: le leggi di riforma delle autonomie locali n. 142 dell’8 giugno 1990 e n. 241 del 7 agosto 1990 introducono gli istituti dell’Accordo di programma e della Conferenza dei

servizi, come modelli per la concertazione tra soggetti pubblici, mentre

la legge finanziaria 1997 (L. 662/1996) introduce una serie di strumenti di regolazione concordata tra soggetti pubblici e tra pubblico e privati riconducibili al termine di programmazione negoziata.

Per quanto riguarda l’amministrazione, convenzioni e consorzi tra enti pubblici e tra questi e i privati erano già previsti nell’ordinamento italiano, anche se in forme più modeste rispetto a quelle introdotte da questi due provvedimenti.

Oltre a queste modalità, la L. 241/90 prevede che, ai fini della semplificazione dell’azione amministrativa, «qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indìce di regola una conferenza di servizi» (art. 14 c. 1) al termine della quale «l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudi- zio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati [pubblici o privati, ndr] al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovve- ro, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo» (art. 11 c. 1). Questi provvedimenti sono indicati anche ai fini dello svolgimento di determinate funzioni in forma associata: oltre a convenzioni e consor- zi, le conferenze dei servizi e gli accordi di programma sono gli istituti base per formare delle unioni di comuni «allo scopo di esercitare con- giuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza» (art. 26).

La conferenza dei servizi e l’accordo di programma rappresentano dunque il primo bagaglio procedurale5 a disposizione delle ammini-

strazioni per operare secondo parametri di flessibilità delle procedure,

5 Bobbio (2000) evidenzia come questa fase di generalizzazione ed estensione a

tutti i settori dell’utilizzo degli accordi e delle conferenze sia stata preceduta da un pe- riodo di avvio, tra il 1985 e il 1990, in cui accordi di programma e conferenze dei servizi sono stati sperimentati in una serie di settori specifici. Gli accordi di programma sono stati introdotti in provvedimenti relativi a progetti di trasporto integrato nelle aree metropolitane, costruzione e ampliamento di impianti ferroviari, intervento straordi- nario nel mezzogiorno, tutela dell’ambiente, ricerca scientifica, interventi per Roma Capitale. Le Conferenze dei servizi sono previste in alcune leggi relative ai rifiuti, alle opere pubbliche di interesse nazionale e a quelle per i mondiali di calcio.

riduzione dei tempi, integrazione delle azioni, attivazione di nuove modalità di relazione all’interno dell’ente pubblico stesso, con altri enti pubblici e con il privato.

A questi strumenti si aggiungono altri istituti, ricompresi nella cas- setta degli attrezzi della “programmazione negoziata” introdotta dalla legge finanziaria 1997 (L. 662/1996): l’Intesa istituzionale di program- ma, l’Accordo di programma quadro, il Patto territoriale, il Contratto di programma e il Contratto d’area sanciscono accordi, patti e contrat- ti derivanti da forme di interazione diverse, tra enti pubblici e con i privati, per l’attuazione di interventi diversi finalizzati allo sviluppo territoriale6.

Accordi e intese sono finalizzati ad attivare forme di cooperazio- ne associativa o istituzionalizzata, mentre patti e contratti instaurano modalità di cooperazione di tipo contrattuale. In generale, vengono addotti a strumenti per la pianificazione contrattata (Bobbio, 2000) o consensuale (Urbani, 2000) a seconda che si ponga l’accento sul proces- so o sulla sua finalità.

L’avvento di questa strumentazione si inserisce inoltre nell’ambito della riforma Bassanini (dal nome del Ministro della Funzione Pub- blica che la promuove) che, attraverso una serie di provvedimenti le-

6 Le Leggi 341/95 e 662/1996 definiscono il concetto, il campo di applicazione e l’u-

so delle procedure negoziali. La Legge 662/96 (art. 2 comma 203) definisce le seguenti tipologie di strumenti di programmazione negoziata: Intesa istituzionale di program- ma, Accordo di programma quadro, Patto territoriale, Contratto di programma, Con- tratto d’area. Il CIPE, con deliberazione del 21/03/97, ha provveduto a disciplinare i vari strumenti di programmazione definendone finalità e oggetto, soggetti coinvolti (promotori), modalità attuative e di finanziamento.

In particolare, l’Intesa istituzionale di programma consiste nell’accordo tra ammini- strazione centrale ed amministrazione regionale o delle province autonome, per la de- finizione degli interventi da realizzare negli anni successivi e la ripartizione dei relativi oneri finanziari. La fase successiva all’intesa è data dall’Accordo di programma quadro: si tratta di un accordo promosso dai sottoscrittori dell’intesa e stipulato con enti locali ed altri soggetti pubblici e privati, al fine di definire il programma esecutivo degli in- terventi oggetto dell’intesa.

Il Contratto di programma è un contratto stipulato tra amministrazione statale, gran- di imprese, consorzi di piccole e medie imprese e rappresentanze di distretti industria- li, per la realizzazione di iniziative atte a generare significative ricadute occupazionali, anche riferibili ad attività di ricerca e di servizio a gestione consortile.

Il Patto territoriale è l’accordo, promosso da enti locali, parti sociali, o da altri sogget- ti pubblici o privati, relativo all’attuazione di un programma di interventi caratterizzati da specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale. Questo accordo è il risultato della concertazione e tocca in maniera trasversale diversi segmenti socio-economici, con un’attenzione costante ai bisogni ed alle esigenze delle parti interessate.

Il Contratto d’area è uno strumento operativo concordato tra amministrazioni, anche locali, rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, ed eventuali altri soggetti interessati, per realizzare azioni finalizzate ad accelerare lo sviluppo e creare nuova occupazione in territori circoscritti. Le sue finalità prioritarie consistono quindi nella realizzazione di un ambiente economico favorevole ad attirare iniziative imprendito- riali e nella creazione di nuova occupazione, mediante lo stimolo agli investimenti in zone colpite da gravi crisi occupazionali.

gislativi7 improntati dai concetti della sussidiarietà e della sovranità

locale, scardina il paradigma della suddivisione delle competenze e dell’interazione di tipo gerarchico e istituzionale, per favorire l’instau- rarsi di nuovi rapporti tra istituzioni, basati sulla condivisione delle competenze anche in merito al governo del territorio.

Insieme ai nuovi strumenti di concertazione che permettono di for- malizzare pratiche di interazione tra gli enti a tutti i livelli, il processo di riforma che si sviluppa nell’arco di tutto il decennio e confluirà nel testo unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000) e nella legge costituzio- nale n. 3/2001, comporta necessariamente una riflessione sui rapporti tra gli enti istituzionali, che prefigura nuove modalità di interazione, ma anche nuovi conflitti.

La validità di tali istituti emerge in settori diversi (dalla gestione dei rifiuti allo sviluppo locale, attraverso i patti territoriali); nel campo della pianificazione, l’utilizzo di accordi, patti e contratti permette di dare legittimità a due forme di pianificazione non previste nell’appa- rato prefigurato dalla L. 1150/42: la pianificazione strategica e la pro- grammazione complessa.

La pianificazione strategica prende piede negli anni Novanta sulla base di esperienze ed istanze europee e, a scapito dell’istituzione delle aree metropolitane, introdotte anch’esse dalla L. 142/90 con scarso suc- cesso, prefigura ambiti di riferimento e di autoriconoscimento emer- genti dal territorio, dando vita ad accordi tra enti diversi (anche nelle città metropolitane stesse), propensi a condividere forme di governo del territorio attraverso accordi e intese che permettono di attuare poli- tiche sovralocali più consone alle questioni da affrontare.

Per pianificazione strategica si intende soprattutto la capacità degli attori di un determinato contesto di elaborare una proposta condivisa e di impegnarsi a realizzarla insieme. In campo territoriale la pianifica- zione strategica (strategic spatial planning nella letteratura europea) non è regolativa degli usi del suolo e nemmeno strutturale (non prevedere invarianti strutturali ma elementi di indirizzo). Mette l’accento, invece, sulle capacità di interazione, cooperazione ed accordo tra gli attori in un determinato ambito territoriale. La condivisione di un obiettivo vie- ne considerato l’avvio del processo di pianificazione; la “strategia” in senso stretto si preoccupa, quindi, di definire le azioni e le regole com- portamentali utili al perseguimento di quell’obiettivo. Cooperazione, coordinamento e condivisione, sono quindi gli esiti auspicati e ricer- cati dalla pianificazione strategica in presenza di contesti territoriali (urbani, regionali) caratterizzati da pluralità di soggetti e punti di vista spesso in conflitto tra di loro (Fabbro, 2007:186-187).

A fronte del mancato accordo tra i comuni delle aree metropolitane, che generalmente trova un intoppo nei conflitti tra comune capoluogo e comuni di periferia, le esperienze di pianificazione strategica matura-

te nel corso degli anni Novanta8 permettono agli enti locali di riflettere

sulla loro identità, per darsi forme strutturate di interazione, definen- do agende per l’azione associata coerenti con le esigenze di sviluppo territoriale (Fedeli, 2003).

Quanto alla programmazione complessa, la stagione che prende av- vio con la legge 203/91 apre subito un ampio dibattito in merito a due principali forme di interazione: i rapporti tra stato ed enti locali e tra pubblica amministrazione e privato.

In merito ai rapporti tra stato ed enti locali, l’oggetto del contenzio- so è sicuramente la natura dei provvedimenti istitutivi dei program- mi complessi, che sono generalmente di matrice ministeriale e rivolti direttamente ai Comuni, scavalcando dunque gli enti intermedi e, in particolare, le regioni.

La legge 203/91 prevede infatti, all’interno di un piano di azioni per la lotta alla criminalità organizzata, un “programma straordinario di edilizia residenziale” destinato a dipendenti statali, con la possibili- tà di reperire aree al di fuori dei piani di zona, in quanto la delibera comunale di adozione del programma equivale a variante degli stru- menti urbanistici. In un sistema in cui la maggior parte dei piani rego- latori è approvata dalle Regioni, tale provvedimento mina fortemente il ruolo di questo ente, in ragione (ancora una volta) di Provvedimenti

urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon rendimento dell’attività amministrativa.

Se i programmi previsti da questa legge sono motivati dall’urgenza, le procedure di variante al Prg previste dai successivi programmi integrati

di intervento (Pii) della legge Botta-Ferrarini n. 179/92 aprono subito un

forte contenzioso tra Stato e Regioni. Un ricorso presentato dalle Regio- ni Toscana, Umbria, Emilia-Romagna e Veneto viene infatti accolto dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza del 7-19 ottobre 1992 sopprime i commi 3-4-5-6-7 dell’art. 16, relativi all’approvazione della variante da parte del consiglio comunale, che sono ritenuti incostituzionali perché «invadenti la sfera di competenza delle Regioni» (Ombuen et al., 2000). La gestione dei Pii e delle relative procedure di assegnazione delle risorse è dunque attribuita alle Regioni, cui spetta anche la gestione dei successivi Programmi di Recupero Urbano (Pru), previsti dall’articolo 11 della L. 493/93 per intervenire, alla stregua dei Pii, sull’edilizia residen- ziale pubblica. In entrambi i casi l’approvazione dei Pru in variante agli strumenti urbanistici vigenti è demandata alla stipula di un Accordo di programma.

Il contenzioso tra Stato e Regioni, tuttavia, continua con i program- mi Urban I a valere sui fondi strutturali europei fase II (1994-99), e con i corrispettivi italiani dei Programmi di Riqualificazione Urbana (Priu)9: 8 Per un panorama esauriente delle esperienze in corso, si rimanda a Fedeli e Ga-

staldi (2004).

9 Istituiti con DM 21 dicembre 1994 e normati da diversi decreti del Ministero dei

in entrambi i casi, le procedure di allocazione concorsuale delle risor- se configurano un rapporto diretto tra Ministero e Comuni, in cui i programmi prendono forma dalla concertazione tra Amministrazione centrale ed Enti locali e le regioni sono chiamate in causa solo in caso di variante agli strumenti urbanistici10.

Di conseguenza, nell’ambito del processo di delega o trasferimento dei poteri e delle competenze ai livelli più pertinenti configurato dalla “Riforma Bassanini”, le regioni rivendicano il loro ruolo in materia di governo del territorio e di politiche urbane a fronte della nuova alle- anza tra Stato e Comuni che è venuta maturando proprio nell’ambito dei programmi complessi: esse otterranno un ruolo di gestione diretta dei finanziamenti e dei bandi per i Contratti di quartiere11, la comparteci-

pazione alla selezione dei Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo

sostenibile (Prusst) di cui al D.M.LL.PP. 25 settembre 1998 e la gestione

dei Progetti Integrati Territoriali (Pit), nell’ambito dei Programmi ope- rativi regionali (POR) di approfondimento del Quadro comunitario di sostegno (QCS) 2000-06.

I programmi complessi come strumento applicativo e, in generale, le diverse forme di contrattazione emergenti nel corso del decennio permettono inoltre di cogliere la sfida della concertazione col priva- to. Nel corso degli anni Ottanta la cosiddetta deregulation e la stagio- ne della pianificazione per progetti, insieme alla crescente crisi della finanza pubblica, evidenziano con forza la necessità, da parte della pubblica amministrazione, di abbandonare approcci burocratici di carattere autoritativo per la determinazione aprioristica e unilaterale delle possibilità di trasformazione, a favore di un comportamento di- sponibile a “negoziare” con il privato e, dunque, a un «amministrare per accordi» (Urbani, 2000:74). La negoziazione degli assetti urbanisti- ci col privato scardina il sistema dei rapporti unilaterali tra pubblica amministrazione e privato: se l’apparato di pianificazione prefigurato dalla Legge 1150/42 prevedeva infatti la definizione delle scelte urba- nistiche generali e la contrattazione col privato solo nella fase attuati- va, attraverso le convenzioni stipulate nell’ambito dei piani urbanistici esecutivi (piani di lottizzazione, per gli insediamenti industriali, di recupero ecc.), la pianificazione emergenziale e per progetti maturata negli anni Ottanta ha ormai reso evidente il fatto che una contratta- zione con il privato avvenga già a monte del processo, nella fase di

10 Attraverso gli strumenti dell’Accordo di programma e della programmazione

negoziata, lo Stato ha assunto infatti una gestione diretta dei programmi, in ragione delle dimensioni economiche che la programmazione statale è in grado di muovere, della ricchezza di strumenti a disposizione, nonché della necessità di ricollocare il pro- prio ruolo in un ambiente amministrativo sempre più improntato al principio della sussidiarietà (Ombuen et al., 2000). Tali istanze determinano critiche e opposizioni a livello regionale e provinciale, che vedono negato il principio della copianificazione (per un approfondimento si rimanda a Lingua, 2007).

11 Istituiti con i DD.MM. 1071-72 del 1°dicembre 1994, i Contratti di quartiere sono

definiti nelle loro caratteristiche e negli aspetti procedurali dalla delibera Cer del 5 Giugno 1997.

definizione delle scelte, dunque prima dell’adozione dello strumento urbanistico comunale.

L’esplicitazione di accordi e intese tra pubblica amministrazione e privato attraverso un accordo preliminare tra le parti permette di su- perare la tradizionale divisione tra amministrazione pubblica (espres- sione di una qualche forma aggregata di interesse collettivo) e privato (espressione dei meccanismi di mercato) e di smorzare l’alone di so- spetti in merito alla occultazione e scarsa legalità dell’interazione tra le due parti. La contrattazione, infatti, ha un carattere eminentemente pubblico (il pubblico è informato della contrattazione e le parti assu- mono pubblicamente gli impegni), si svolge in modo formalizzato, secondo regole condivise dai partecipanti, e confluisce in un accordo sottoscritto dalle parti stesse (Bobbio, 2000).

L’esigenza della contrattazione risponde alle ragioni dell’efficacia del processo di pianificazione e della flessibilità dell’implementazione. Attraverso la contrattazione col privato a monte del processo di pianifi- cazione, infatti, la pubblica amministrazione riesce a ottenere l’effettiva realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria che prima rima- nevano sulla carta, come campiture dello zoning che – se rispondevano alla necessità degli standard imposti per decreto – non trovavano di- sponibilità finanziarie adeguate all’esproprio e all’attuazione diretta da parte dell’ente pubblico. In questo senso, proprio il carattere pubblico degli accordi comporta la necessità di una più ampia partecipazione ai processi di governo del territorio, non solo da parte dei privati de- tentori delle risorse finanziarie e immobiliari, ma di tutti i potenziali stakeholders e, in generale, di tutti i cittadini.

Allo stesso modo, l’interazione tra enti locali (tra comuni, province e regioni) attraverso forme di consultazione e concertazione preventiva per la redazione dei reciproci strumenti di piano permette di superare la tradizionale gerarchia degli strumenti di piano, che implicherebbe forme di pianificazione a cascata.

Nella scansione temporale delle forme di pianificazione italiana fi- nora descritte, sono stati redatti in primo luogo i piani comunali, a par- tire dagli anni Settanta quelli regionali, per arrivare alla pianificazione provinciale dopo gli anni Novanta. Di conseguenza, rispetto al prin- cipio gerarchico tra piani, per cui la norma del piano sovra-ordinato prevale su quella del piano sotto-ordinato, la possibilità di svolgere ta- voli di concertazione permette aggiustamenti incrementali tra gli stru- menti in cui vige «il principio cronologico secondo cui la prescrizione successiva prevale su quella precedente. Ciò si verifica per l’affermarsi, in luogo della gerarchia dei piani, della gerarchia degli interessi, se- condo cui l’interesse che, di volta in volta, emerga come il più attuale e meritevole di soddisfazione – dopo un adeguato confronto con gli altri – trova comunque applicazione, trasfondendosi nella prescrizione urbanistica, abrogativa della disciplina precedente» (Urbani, 2000:92).

La cooperazione tra livelli istituzionali via conferenze e accordi im- plica dunque la possibilità di rimettere in discussione le scelte prede- terminate nei diversi livelli di piano, attraverso forme di confronto che

permettono di valutare via via le scelte del soggetto proponente e di modificare gli altri atti pianificatori qualora tali scelte siano contrastan- ti con le scelte degli altri soggetti, ma risultino comunque pertinenti rispetto a una forma aggregata degli interessi pubblici e alle necessità di sviluppo del territorio.

Per questo motivo, a fronte della mancata riforma urbanistica, le leggi regionali che maturano nella seconda metà degli Anni Novanta (Lr. Toscana n. 5/95, Lr. Liguria n. 36/97, Lr. Lazio n. 38/99, Lr. Emilia- Romagna n. 20/00) prevedono un esteso utilizzo di questi istituti, sia per l’approvazione dei piani comunali e provinciali, sia per la flessi- bilizzazione delle procedure di variante e di quelle attuative. Questi strumenti permettono infatti di accogliere la necessità di una nozione più ampia di urbanistica, tesa a forme integrate di governo del territorio e basata sulla suddivisione del piano in due componenti (una strut- turale, finalizzata a definire le direzioni dello sviluppo, gli elementi invarianti e i valori territoriali condivisi, l’altra operativa, volta a dare flessibilità ed efficacia all’implementazione del piano). Proprio il con- cetto di governo del territorio implica l’integrazione di diverse com- petenze che esulano dalla semplice regolazione delle trasformazioni e dai confini amministrativi, ma richiedono rapporti di cooperazione e di copianificazione sia orizzontale che verticale tra gli enti preposti al governo delle diverse risorse territoriali.

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 102-109)

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